L'elicotterista delle montagne
di Gilberto Bazoli
di Gilberto Bazoli
La vita e le missioni di Giuseppe Tonghini da Sommo con Porto. Uomo di pianura e pilota specializzato in soccorso alpino ha salvato vite tra neve e ghiaccio. «Paura? Era il mio lavoro»
Foto sopra: in primo piano il comandante Tonghini oggi, sullo sfondo le operazioni di un soccorso effettuato con un elicottero AB-205 dell'Esercito
CREMONA - Lui, uomo di pianura, ha salvato vite in montagna. «Non avrei mai e poi mai immaginato di diventare un pilota di elicotteri, ancor meno di guidarli sulla neve e sui ghiacciai». Invece è quello che è successo. «Paura? No. Situazioni rischiose? Sì. Ma era il mio lavoro», si schermisce Giuseppe Tonghini, 77 anni, sottufficiale in pensione, originario di Sommo con Porto, borgo di San Daniele Po, elicotterista di grande esperienza impegnato in innumerevoli interventi di soccorso alpino.
«Sono nato in una famiglia di piccoli agricoltori — racconta —. Volevo frequentare l’Itis ma agli esami di ammissione dopo le scuole dell’avviamento ho preso 7 in matematica e 4 in italiano, così ho dovuto iscrivermi all’Ala Ponzone». La strada di operaio specializzato era spianata ma ha deciso di imboccarne un’altra. Diversa, emozionante, avventurosa. «Agli inizi del 1965 ho presentato domanda per arruolarmi nell’esercito». Sette anni a Viterbo durante i quali ha conseguito prima il brevetto di meccanico di aerei, dopo di pilota civile, dopo ancora di meccanico specialista di elicotteri. «È poi uscito un bando per diventare pilota militare di elicotteri».
«Sono nato in una famiglia di piccoli agricoltori — racconta —. Volevo frequentare l’Itis ma agli esami di ammissione dopo le scuole dell’avviamento ho preso 7 in matematica e 4 in italiano, così ho dovuto iscrivermi all’Ala Ponzone». La strada di operaio specializzato era spianata ma ha deciso di imboccarne un’altra. Diversa, emozionante, avventurosa. «Agli inizi del 1965 ho presentato domanda per arruolarmi nell’esercito». Sette anni a Viterbo durante i quali ha conseguito prima il brevetto di meccanico di aerei, dopo di pilota civile, dopo ancora di meccanico specialista di elicotteri. «È poi uscito un bando per diventare pilota militare di elicotteri».
Velivoli come gli Huey, famosi per il loro impiego nella guerra in Vietnam. «Costruiti dall’allora Agusta, oggi Leonardo, erano multi ruolo. avevano gli orologi mentre adesso sul cruscotto è come se ci fossero tre televisori». Superata la selezione e completati i corsi alla scuola di Frosinone, Tonghini è stato assegnato all’aeroporto San Giacomo di Bolzano, al IV Raggruppamento dell’Aviazione leggera Altair dell’esercito italiano. Un reparto chiamato ‘gli angeli delle montagne’ per le numerose ed eccezionali operazioni di salvataggio in cui si è distinto.
«A Bolzano sono rimasto per 14 anni, costretto a conoscere le Alpi e i rifugi dal Tonale al Monte Coglians, in Friuli, l’area di nostra competenza. Era il periodo in cui si facevano i primi corsi di addestramento con l’elicottero per le guide del soccorso alpino». Uomini protagonisti di spedizioni in giro per il mondo, uomini che scalavano l’Himalaya o l’Everest. «Salivamo anche a 3.000 metri di quota e loro saltavano giù, su un metro quadrato di terreno. Roba da brividi».
Con loro Tonghini e i suoi colleghi erano sempre pronti a partire. Come quel giugno del 1980. Un alpinista bolognese durante la notte era caduto sul Sass Rigais, in Val Gardena. Aveva riportato una profonda ferita alla testa. «Il mattino dopo mi sono alzato in volo, c’era una turbolenza fortissima, davvero enorme. Sono entrato nella gola e ho compiuto un’operazione anomala: con il rotore di coda ho dovuto mettermi verso le rocce. Vicino, molto vicino. ‘È pericoloso, è pericoloso’ ripeteva il mio secondo».
Ma ce l’hanno fatta. L’escursionista venne issato con una fune sull’elicottero, sistemato su una barella e trasportato all’ospedale di Bolzano dove i medici ricucirono con circa 50 punti lo strappo al cuoio capelluto, immobilizzarono una scapola rotta e gli prestarono le prime cure agli arti congelati.
«Questo è un episodio. Ce ne sono tanti». Ma quasi bisogna insistere perché l’ex studente dell’Ala Ponzone ne parli.
«A Bolzano sono rimasto per 14 anni, costretto a conoscere le Alpi e i rifugi dal Tonale al Monte Coglians, in Friuli, l’area di nostra competenza. Era il periodo in cui si facevano i primi corsi di addestramento con l’elicottero per le guide del soccorso alpino». Uomini protagonisti di spedizioni in giro per il mondo, uomini che scalavano l’Himalaya o l’Everest. «Salivamo anche a 3.000 metri di quota e loro saltavano giù, su un metro quadrato di terreno. Roba da brividi».
Con loro Tonghini e i suoi colleghi erano sempre pronti a partire. Come quel giugno del 1980. Un alpinista bolognese durante la notte era caduto sul Sass Rigais, in Val Gardena. Aveva riportato una profonda ferita alla testa. «Il mattino dopo mi sono alzato in volo, c’era una turbolenza fortissima, davvero enorme. Sono entrato nella gola e ho compiuto un’operazione anomala: con il rotore di coda ho dovuto mettermi verso le rocce. Vicino, molto vicino. ‘È pericoloso, è pericoloso’ ripeteva il mio secondo».
Ma ce l’hanno fatta. L’escursionista venne issato con una fune sull’elicottero, sistemato su una barella e trasportato all’ospedale di Bolzano dove i medici ricucirono con circa 50 punti lo strappo al cuoio capelluto, immobilizzarono una scapola rotta e gli prestarono le prime cure agli arti congelati.
«Questo è un episodio. Ce ne sono tanti». Ma quasi bisogna insistere perché l’ex studente dell’Ala Ponzone ne parli.
«Una giovane era precipitata dalle parti del rifugio Treviso nella Val Canali, a ridosso delle Pale di San Martino. Ci trovavamo in un anfiteatro di rocce, viaggiavamo sotto le nubi basse, la visibilità era scarsa. Anche in quell’occasione per recuperare la donna, che aveva una frattura esposta alla gamba, mi sono spinto a poca distanza dalle parete. Gli altri membri dell’equipaggio non erano d’accordo su quella manovra. Prima di partire ho detto al medico: ‘Qui si rischia l’ammutinamento, li convinca che faremo la cosa giusta’. E così è stato. Un’altra volta sono decollato alle 11 di sera sopra Merano e ho scaricato i soccorritori che andavano a cercare uno scalatore disperso. Allora non c’erano i visori notturni, gli ostacoli non si vedevano. L’operazione è stata possibile perché lassù il buio arriva dopo».
Durante una delle periodiche esercitazioni militari lungo tutto l’arco alpino, uno dei momenti più difficili. «Trasportavo un obice di 12 quintali. La notte aveva nevicato, ma non ci avevano avvisato. Quando ho staccato il cannone, dalla neve freschissima si è alzata una nube che non si vedeva più niente. Ma ci sono riuscito lo stesso senza problemi. Invece il mortaio sganciato dall'altro velivolo si è danneggiato». Dopo i 14 anni a Bolzano e prima dei quattro a Parma su elicotteri da ricognizione («Mi divertivo a passare sotto i ponti sui fiumi»), i quattro alla base di Orio al Serio come collaudatore di produzione.
«Qualche sorvolo di San Daniele me lo sono concesso». Nel gennaio 1995, il congedo, con il grado di maresciallo aiutante, dopo trent’anni di servizio. «Gli ultimi due con tre by pass. Sono tornato alle origini, al mio paese, con mia moglie Renata, originaria di Cremona, che mi aveva seguito a Bolzano. Ho ripreso a fare il contadino negli appezzamenti di famiglia assieme al mio caro fratello Vanni ma ho smesso alla sua morte, pochi mesi fa».
Per la settantesima primavera la figlia, Maura, gli ha organizzato una grande festa con sorpresa. «Sui prati di una cascina a Zibello è atterrato un elicottero da cui sono sbucati i miei commilitoni con le loro consorti. Non ho perso l’occasione per farmi un giretto: era un AS 350B. Sono anche salito su un AW 139: il tecnico, un mio amico, eseguiva i controlli del rotore principale qui in zona, dove ci sono spazi maggiori rispetto alla città, e il secondo pilota mi ha lasciato il suo posto». Giuseppe, è così che vuole essere chiamato, raccoglie le sue fotografie, comprese quelle della chiesa Carè Alto, nel gruppo dell’Adamello, prima e dopo il restauro.
«È la cappelletta costruita dai profughi dell’Europa dell’Est durate la Prima Guerra mondiale. Ho trasportato il legname e altri materiali per la ristrutturazione». Dietro la cartolina, queste parole: ‘Si ringrazia sentitamente il sergente maggiore Tonghini per aver contribuito in modo tangibile ai lavori’. Tra la documentazione spicca un bell’articolo di un vecchio numero della gloriosa Selezione dal Readers Digest su una delle sue tante imprese. «C’è scritto che quella volta per raddrizzare l’elicottero e portarlo fuori dalla gola con i motori al massimo ho artigliato i comandi. Che esagerazione: li ho solo afferrati».
Durante una delle periodiche esercitazioni militari lungo tutto l’arco alpino, uno dei momenti più difficili. «Trasportavo un obice di 12 quintali. La notte aveva nevicato, ma non ci avevano avvisato. Quando ho staccato il cannone, dalla neve freschissima si è alzata una nube che non si vedeva più niente. Ma ci sono riuscito lo stesso senza problemi. Invece il mortaio sganciato dall'altro velivolo si è danneggiato». Dopo i 14 anni a Bolzano e prima dei quattro a Parma su elicotteri da ricognizione («Mi divertivo a passare sotto i ponti sui fiumi»), i quattro alla base di Orio al Serio come collaudatore di produzione.
«Qualche sorvolo di San Daniele me lo sono concesso». Nel gennaio 1995, il congedo, con il grado di maresciallo aiutante, dopo trent’anni di servizio. «Gli ultimi due con tre by pass. Sono tornato alle origini, al mio paese, con mia moglie Renata, originaria di Cremona, che mi aveva seguito a Bolzano. Ho ripreso a fare il contadino negli appezzamenti di famiglia assieme al mio caro fratello Vanni ma ho smesso alla sua morte, pochi mesi fa».
Per la settantesima primavera la figlia, Maura, gli ha organizzato una grande festa con sorpresa. «Sui prati di una cascina a Zibello è atterrato un elicottero da cui sono sbucati i miei commilitoni con le loro consorti. Non ho perso l’occasione per farmi un giretto: era un AS 350B. Sono anche salito su un AW 139: il tecnico, un mio amico, eseguiva i controlli del rotore principale qui in zona, dove ci sono spazi maggiori rispetto alla città, e il secondo pilota mi ha lasciato il suo posto». Giuseppe, è così che vuole essere chiamato, raccoglie le sue fotografie, comprese quelle della chiesa Carè Alto, nel gruppo dell’Adamello, prima e dopo il restauro.
«È la cappelletta costruita dai profughi dell’Europa dell’Est durate la Prima Guerra mondiale. Ho trasportato il legname e altri materiali per la ristrutturazione». Dietro la cartolina, queste parole: ‘Si ringrazia sentitamente il sergente maggiore Tonghini per aver contribuito in modo tangibile ai lavori’. Tra la documentazione spicca un bell’articolo di un vecchio numero della gloriosa Selezione dal Readers Digest su una delle sue tante imprese. «C’è scritto che quella volta per raddrizzare l’elicottero e portarlo fuori dalla gola con i motori al massimo ho artigliato i comandi. Che esagerazione: li ho solo afferrati».
Il presente articolo è stato pubblicato per la prima volta il 6 gennaio 2025 sul quotidiano di Cremona "La Provincia". Il Grac ringrazia il Direttore de "La Provincia" Paolo Gualandris e l'Autore dell'articolo per la concessione alla pubblicazione sul proprio sito.
Le immagini a corredo del presente articolo appartengono all'archivio di Maura Tonghini.
Le immagini a corredo del presente articolo appartengono all'archivio di Maura Tonghini.
Articolo pubblicato sul Grac il giorno 12 gennaio 2025
L'elisoccorso sulle Alpi negli anni Settanta...
di Pierlino Bergonzi
di Pierlino Bergonzi
Foto sopra: un giovanissimo Tonghini in volo ai comandi del Bell UH-1 Iroquois sulle Alpi (Archivio Maura Tonghini)
Il servizio di soccorso aereo in montagna non è sempre stato come lo si conosce oggigiorno. Tempo fa non esisteva affatto, e non si parla di tantissimo tempo ma di pochi decenni.
In Italia il recupero in montagna di feriti o traumatizzati tramite componente aerea, leggi elicottero, è nato negli anni Sessanta. E i primi a effettuarlo sono stati gli elicotteristi delle Forze Armate, fra questi senza dubbio gli equipaggi del Gruppo di Volo dell'Esercito di Bolzano. I loro elicotteri eseguivano le esercitazioni programmate dal Comando delle Truppe Alpine e durante queste esercitazioni era sempre disponibile anche un velivolo sanitario, con tanto di medico e infermiere, per l'eventuale recupero di un alpino che avesse subito un trauma o per qualsiasi altro motivo non fosse più in grado di procedere con le sue energie in luoghi inaccessibili da altri mezzi di soccorso.
Queste operazioni non passavano ovviamente inosservate e ci si può immaginare come sia nata l'idea da parte dei civili di richiedere, per casi irrisolvibili con i loro sforzi, l'intervento di un elicottero dello Stato Maggiore Esercito. Iniziava così, intorno alla fine degli anni Sessanta il "Servizio di Soccorso" con elicotteri militari, prettamente appartenenti al Gruppo di Volo di Bolzano, il quale aveva alle sua dipendenze altri reparti di volo dislocati ad Aosta e a Belluno.
Fin dalla nascita questa attività di soccorso civile ebbe un successo inverosimile, tanto che pochi anni dopo, si parla degli anni Settanta e Ottanta, le richieste di soccorso erano talmente aumentate che sulla base militare di Bolzano, specie nei fine settimana estivi, partivano contemporaneamente anche due o tre elicotteri. Sulla base aeroportuale esisteva una sala operativa in collegamento continuo con i comandi superiori e un equipaggio di pronto intervento, in genere formato da due piloti e due specialisti, era fisicamente in base pronto al decollo in pochissimi minuti. Una volta partito il primo elicottero arrivava in base il secondo equipaggio di pronto intervento e così via. Al tempo non esistevano i cellulari e quindi il personale di servizio doveva necessariamente essere nei paraggi di un telefono fisso. In seguito furono distribuiti i "cerca persone" che lasciavano un poco più libertà d'azione agli aviatori di servizio.
I piloti militari appartenenti al Gruppo di Bolzano, Aosta e Belluno dovevano avere un profilo molto elevato, in quanto si operava spesso sopra i tremila metri, dove anche un minimo errore avrebbe potuto significare una catastrofe. Lo standard qualitativo di questi aviatori era quindi superiore alla media. Poi, fra questi, c'erano i fuoriclasse, che i saggi comandanti impiegavano per le missioni più difficili, dove competenza professionale, iniziativa, capacità di valutare la situazione presente e, soprattutto, nervi d'acciaio, potevano fare la differenza fra la vita e la morte. Tonghini faceva parte di quest'ultima categoria.
Però, nonostante lo sforzo nella scelta degli equipaggi da parte dei comandanti, c'era sempre l'imponderabile in agguato, dovuto per lo più all'ambiente montano. Un esempio per tutti: nel luglio del 1982 un equipaggio di uomini esperti, che avrebbe dovuto compiere una missione ordinaria di rifornimento programmata in favore di un rifugio alpino, cadde mentre era in atterraggio. In alta quota, causa i repentini e inaspettati cambiamenti delle correnti, è molto difficile, anche per gente esperta, avere un controllo totale della situazione. Così questo AB-205 precipitò mentre era in corto finale nei pressi del rifugio Vedretta Pendente, situato a circa 2700 metri di quota. Nell'incidente il povero Paolo Mendini rimase ucciso, avrebbe compiuto trent'anni da lì a poco. Dopo circa un'ora dall'incidente giunse sul luogo un secondo elicottero, questa volta di un altro Corpo Armato dello Stato, il quale sfortunatamente subì la stessa sorte del primo velivolo, per fortuna senza morti, solamente lievi ammaccature, ma il velivolo risultò da rottamare. Come si può notare, le montagne non fanno sconti proprio a nessuno.
Dagli anni Settanta e Ottanta, la nascita di società aeronautiche a scopo di lucro, i soccorsi dei velivoli militari sulle Alpi, e non solo, andarono via via calando, mentre aumentarono gli attori privati.
In Italia il recupero in montagna di feriti o traumatizzati tramite componente aerea, leggi elicottero, è nato negli anni Sessanta. E i primi a effettuarlo sono stati gli elicotteristi delle Forze Armate, fra questi senza dubbio gli equipaggi del Gruppo di Volo dell'Esercito di Bolzano. I loro elicotteri eseguivano le esercitazioni programmate dal Comando delle Truppe Alpine e durante queste esercitazioni era sempre disponibile anche un velivolo sanitario, con tanto di medico e infermiere, per l'eventuale recupero di un alpino che avesse subito un trauma o per qualsiasi altro motivo non fosse più in grado di procedere con le sue energie in luoghi inaccessibili da altri mezzi di soccorso.
Queste operazioni non passavano ovviamente inosservate e ci si può immaginare come sia nata l'idea da parte dei civili di richiedere, per casi irrisolvibili con i loro sforzi, l'intervento di un elicottero dello Stato Maggiore Esercito. Iniziava così, intorno alla fine degli anni Sessanta il "Servizio di Soccorso" con elicotteri militari, prettamente appartenenti al Gruppo di Volo di Bolzano, il quale aveva alle sua dipendenze altri reparti di volo dislocati ad Aosta e a Belluno.
Fin dalla nascita questa attività di soccorso civile ebbe un successo inverosimile, tanto che pochi anni dopo, si parla degli anni Settanta e Ottanta, le richieste di soccorso erano talmente aumentate che sulla base militare di Bolzano, specie nei fine settimana estivi, partivano contemporaneamente anche due o tre elicotteri. Sulla base aeroportuale esisteva una sala operativa in collegamento continuo con i comandi superiori e un equipaggio di pronto intervento, in genere formato da due piloti e due specialisti, era fisicamente in base pronto al decollo in pochissimi minuti. Una volta partito il primo elicottero arrivava in base il secondo equipaggio di pronto intervento e così via. Al tempo non esistevano i cellulari e quindi il personale di servizio doveva necessariamente essere nei paraggi di un telefono fisso. In seguito furono distribuiti i "cerca persone" che lasciavano un poco più libertà d'azione agli aviatori di servizio.
I piloti militari appartenenti al Gruppo di Bolzano, Aosta e Belluno dovevano avere un profilo molto elevato, in quanto si operava spesso sopra i tremila metri, dove anche un minimo errore avrebbe potuto significare una catastrofe. Lo standard qualitativo di questi aviatori era quindi superiore alla media. Poi, fra questi, c'erano i fuoriclasse, che i saggi comandanti impiegavano per le missioni più difficili, dove competenza professionale, iniziativa, capacità di valutare la situazione presente e, soprattutto, nervi d'acciaio, potevano fare la differenza fra la vita e la morte. Tonghini faceva parte di quest'ultima categoria.
Però, nonostante lo sforzo nella scelta degli equipaggi da parte dei comandanti, c'era sempre l'imponderabile in agguato, dovuto per lo più all'ambiente montano. Un esempio per tutti: nel luglio del 1982 un equipaggio di uomini esperti, che avrebbe dovuto compiere una missione ordinaria di rifornimento programmata in favore di un rifugio alpino, cadde mentre era in atterraggio. In alta quota, causa i repentini e inaspettati cambiamenti delle correnti, è molto difficile, anche per gente esperta, avere un controllo totale della situazione. Così questo AB-205 precipitò mentre era in corto finale nei pressi del rifugio Vedretta Pendente, situato a circa 2700 metri di quota. Nell'incidente il povero Paolo Mendini rimase ucciso, avrebbe compiuto trent'anni da lì a poco. Dopo circa un'ora dall'incidente giunse sul luogo un secondo elicottero, questa volta di un altro Corpo Armato dello Stato, il quale sfortunatamente subì la stessa sorte del primo velivolo, per fortuna senza morti, solamente lievi ammaccature, ma il velivolo risultò da rottamare. Come si può notare, le montagne non fanno sconti proprio a nessuno.
Dagli anni Settanta e Ottanta, la nascita di società aeronautiche a scopo di lucro, i soccorsi dei velivoli militari sulle Alpi, e non solo, andarono via via calando, mentre aumentarono gli attori privati.
Foto sopra: il rifugio alpino Vedretta Pendente, 2700 metri
Foto sopra: nei pressi del rifugio alpino Vedretta Pendente, 2700 metri, è stata posta la targa a ricordo del sacrificio di Paolo Mendini
Il dettagliatissimo articolo riportato qui sotto descrive tutte le fasi di un soccorso con l'elicottero. L'incidente che l'autore riporta è accaduto sulle Dolomiti, proprio nel periodo di "maggior successo" delle Forze Armate per questo genere di servizio civile. Il racconto vede come protagonista il personaggio del quale si parla su questa pagina, il comandante Tonghini.
Strappato alle Alpi
di Cristoforo Mattei
di Cristoforo Mattei
Su uno dei picchi più alti delle Alpi Dolomitiche si svolge il dramma esasperante d'un uomo aggrappato per tre ore a una scheggia di roccia in attesa dell'elicottero che lo salverà rischiando l'impossibile.
Immagine sopra: cartina topografica che mostra i luoghi dove è avvenuto il difficoltoso soccorso
Marta Lolli fece un sogno: sognò di percorrere un lungo e stretto corridoio e di entrare poi in una piccola stanza dove suo marito Sandro giaceva su un letto con la parte inferiore delle gambe coperta da una specie di cubo. Aveva la testa interamente avvolta in bende, tranne una fessura all'altezza degli occhi, e le diceva con un filo di voce: «Sì, Marta, sono stato testardo! Ma tu mi conosci.»
Marta si svegliò pensando che quel giorno era il 14 aprile 1980, e che il 14 era il suo numero fortunato (il suo compleanno e quello di Sandro cadevano il 14, per lei di ottobre, per lui di gennaio). Non pensò più al sogno. Aveva già avuto altre premonizioni.
Il 14 giugno del 1980, esattamente due mesi dopo il sogno di Marta, Sandro Lolli, 35 anni, partì assieme a sette amici di Bologna da Santa Cristina Valgardena, nelle Dolomiti, per un’escursione che doveva durare l’intera giornata. Era una cosa che facevano quattro o cinque volte l’anno, nei fine-settimana. Nessuno di loro pretendeva di essere un grande arrampicatore: erano soltanto occasioni per rifornirsi di ossigeno; fare un po’ d’esercizio e stare a contatto con la natura.
Una cabinovia li depositò sul Col Raiser, 2100 metri sopra il livello del mare. Da lì avrebbero iniziato la marcia verso Sass Rigais, una montagna a piramide; alta 3025 metri. In una guida firmata da Reinhold Messner, la salita viene definita «moderatamente difficile».
Gli otto uomini raggiunsero la base della montagna alle 10. Dinanzi ai due sentieri muniti di cavi d’acciaio che andavano fino alla cima da est e da ovest, si divisero in due gruppi di quattro, concordando che si sarebbero poi ritrovati in vetta. Quello di Sandro andò verso ovest, seguendo le tracce di un sentiero coperto di neve. I compagni di Sandro, preoccupati dell’abbondante neve accumulata al suolo, esitavano; deciso invece ad arrivare fino in cima, visto che aveva fatto tutta quella strada, Sandro non ebbe dubbi: «Tornate pure indietro se volete, io vado su da solo» e proseguì.
«Testardo come sempre» commentò uno dei tre rinunciatari. L’accordo era che si sarebbero ritrovati più tardi sul Col Raiser.
Sandro raggiunse la cima del Sass Rigais dopo un'arrampicata abbastanza facile e piacevole, e la bellezza del panorama lo lasciò senza fiato. Decise di attendere i compagni che venivano su per il sentiero del versante orientale e di ridiscendere poi con loro. Dallo zaino prese un paio di calze asciutte, perché la neve gli era entrata negli scarponi, poi mangiò qualcosa, bevve un po' d'acqua dalla borraccia e si mise comodo a godersi lo spettacolo.
Trascorsero due ore, e degli altri neanche l'ombra. Dopo un'altra mezz'ora Sandro si alzò e iniziò da solo la discesa. Il versante orientale si rivelò molto meno praticabile di quello occidentale, spesso interrotto da cadute verticali a precipizio sul pianoro sottostante. Per attenuare l'angolo di discesa Sandro percorreva la montagna diagonalmente. Quando finalmente avvistò il gruppo degli scalatori, era già molto più basso rispetto a loro e cominciava ad accusare stanchezza. «Proseguite senza di me» gridò ai compagni. «Io continuo a scendere.»
«Sei pazzo» gli gridarono di rimando. «E troppo pericoloso.»
«Ce la farò, non preoccupatevi» urlò Sandro rimettendosi in marcia.
Spostandosi con movimenti cauti su rocce e sfasciumi, l’escursionista raggiunse una profonda spaccatura a ferro di cavallo e cominciò ad affrontarla da sinistra, dove la strada sì faceva sempre più ripida. A un tratto si trovò davanti a un canalone dal fondo coperto di neve ghiacciata, uno «scivolo» insidioso che sbadigliava sull’abisso sottostante.
Nello scendere, Sandro aderiva istintivamente con il corpo al pendio - contravvenendo a una fondamentale regola dell'alpinismo - e gravava con tutto il peso sul piede che si trovava più in alto. Trenta metri, poi 20, lo separavano dall'orlo del burrone. Era a meta strada quando all'improvviso il piede destro gli partì da sotto. Non fece neanche in tempo a lasciarsi prendere dal panico che già stava precipitando. Capitombolò sul ghiaccio, acquistando sempre maggior velocità, agevolato anche dalla leggera giacca a vento di materiale sintetico che non offriva resistenza, e si accorse di rotolare verso il bordo della montagna.
Aveva una sola speranza di salvezza: una roccia sporgente dalla neve nel mezzo del canalone sotto di lui. Vide il masso farglisi incontro a velocità vertiginosa e fece appena in tempo ad allungare le braccia per proteggersi la testa. Poi non senti più nulla.
Quando riprese i sensi, il sole era più basso nel cielo e faceva più freddo. Controllò l’orologio: erano le 15.45. Sentiva la faccia e il collo bagnati e appiccicosi, e quando toccò la pelle vide che le dita erano macchiate di rosso. Si rese conto con orrore che in seguito all’urto un lembo di pelle da metà fronte al centro del cranio si era strappato e gli pendeva ora sull'orecchio destro. L’osso era allo scoperto.
Ancora sotto shock, Sandro riuscì a mettersi in ginocchio e, procedendo a gattoni, a recuperare lo zaino, che si trovava qualche metro più sotto. Quindi cominciò ad arrampicarsi su un roccione nella parte destra del canalone, un masso alto cinque metri e reso scivoloso dalla neve sciolta. Gli costò enormi sofferenze, ma alla fine ce la fece. L'istinto gli diceva che dall'alto di quella roccia aveva più probabilità di essere visto.
Quando fu in cima, Sandro si sistemò con i piedi su uno stretto terrazzino. In pratica era appollaiato, mezzo seduto e mezzo in piedi, con le spalle contro la roccia. Il fondo coperto di ghiaccio del canalone scintillava sotto di lui. Soltanto pochi metri lo separavano dall'orlo del precipizio. Se fosse caduto ora...
Erano già le 17.30 quando gli amici di Sandro si riunirono sul Col Raiser. Il fatto che lui mancasse destò qualche preoccupazione, ma relativa. Sandro era imprevedibile, gli piaceva fare a modo suo, e di solito gli andava bene. Forse aveva proseguito fino a Santa Cristina. Solo quando constatarono che non era nemmeno lì gli escursionisti avvisarono i carabinieri, col risultato che era sera inoltrata quando venne dato l'allarme alla Stazione di soccorso alpino della Valgardena di Ortisei.
Sei uomini si recarono subito nella zona e gridarono il nome di Sandro da vari punti al di sotto della parete orientale, ma senza ottenere risposta. Dopo alcune ore di ricerche furono sospese fino al mattino.
La luna inondava di luce spettrale la montagna. La temperatura era scesa sotto lo zero e Sandro era gelato fino al midollo. Non sentiva più le mani e i piedi. La maglietta gialla che aveva preso dal sacco per tamponare la ferita era ora completamente rossa. Ogni tanto si addormentava e sognava di precipitare nell'abisso, per poi svegliarsi e ritrovarsi in un altro incubo.
Alternando momenti di terrore a momenti di perdita di coscienza, resistette fino alle 4 del mattino, quando il sole cominciò a sorgere striando il cielo di rosso e giallo. Sandro cercò di riattivare la circolazione nelle membra tramortite dal freddo. Ma all'improvviso, mentre il sole proseguiva nella sua ascesa, fu colto da un eccesso di disperazione: perché nessuno veniva a prenderlo?
Alle 8 del mattino tre guide del gruppo di soccorso lasciarono Col Raiser alla volta di Sass Rigais. Contemporaneamente un elicottero da ricognizione di levò in volo dalla pista dell'aeroporto San Giacomo di Bolzano. Il velivolo si fermò sul Col Raiser per prendere a bordo Vincenzo Runggaldier, una guida che conosceva la montagna come le sue tasche, poi virò verso Sass Rigais.
La visibilità era perfetta e l'elicottero ronzò per un'ora su e giù lungo la parete di roccia che Runggldier scrutava fin nelle pieghe più riposte, ma senza risultato. Il carburante intanto stava per finire e il pilota decideva di eseguire un ultimo passaggio quando Runggldier scorse qualcosa di rosso sul pendio della montagna. Sandro stava sventolando la maglietta intrisa di sangue per attirare l'attenzione.
«Trovato! Trovato!» comunicò Runggldier per radio alle tre guide in attesa ai piedi del monte dando l'esatta posizione del disperso. Poi l'elicottero tornò a Bolzano, lasciando però Runggldier sul Col Raiser.
Le guide ebbero il loro da fare per trovare Sandro in mezzo a tutte quelle rocce sul versante est del Sass Rigais. Quando alla fine lo scorsero lui era di spalle e dava l'impressione di trovarsi in precario equilibrio sull'abisso. Attento a non fare il minimo rumore che potesse far sobbalzare il ferito e provocarne la caduta dal costone, Wolfi Mussner, la più anziana delle tre guide, si legò una corda alla vita, ne fissò l'altra estremità a un masso e si calò lentamente lungo la parete finché non riuscì a circondare con le braccia il corpo di Sandro.
«Grazie a Dio siete arrivati» biascicò con un fil di voce il ferito.
Era chiaro che le condizioni di Sandro erano critiche e che le tre ore di un'eventuale malagevole discesa in barella fino al Col Raiser gli sarebbero state fatali. D'altra parte, in mezzo a quelle rocce a picco era impensabile far atterrare un elicottero. Ma Mussner non aveva scelta. La guida prese il radiotelefono e chiese al capo della squadra di soccorso sul Col Raiser che gli mandassero un velivolo.
Il lamento di una sirena echeggiò sulla pista d'atterraggio di San Giacomo mentre la richiesta di soccorso veniva girata alla sala operativa. Immediatamente si levò in volo un elicottero Augusta Bell AB 205 del IV ragguppamento dell'Aviazione Leggera «Altair» dell'esercito italiano. Questo gruppo è conosciuto sulle Alpi col nome di «Angeli delle montagne» per le numerose ed eccezionali operazioni di salvataggio in cui si è distinto.
Dopo una sosta per imbarcare Runggaldier, il pilota Giuseppe Tonghini puntò verso il Sass Rigais. Erano quasi le 12, un momento pericoloso per volare in prossimità delle montagne: dal fondo delle valli sale aria calda che viene riflessa sulle pareti rocciose e quando incontra aria fredda, a 2000 metri d'altitudine, dà luogo a forti turbolenze.
Seguendo le direttive di Runggaldier, Tonghini entrò nella vallata stretta e incassata sul lato destro e ciò che vide non gli piacque neanche un po'- Era impossibile prevedere da che parte sarebbero venute le correnti d'aria, e per giunta bisognava manovrare entro lo spazio di 200 metri chiuso su tre lati.
Il pilota seguì i contorni della conca sfiorando la parete di roccia col lato destro del velivolo finché l'elicottero non si librò su Sandro e sulle tre guide. Al ferito intanto era stata fatta indossare una speciale imbracatura di materiale sintetico per mezzo della quale avrebbe potuto essere agganciato e sollevato.
Ma improvvisamente l'elicottero del peso di oltre due tonnellate cominciò a ballonzolare come un tappo di sughero su un mare in tempesta mentre la sua coda oscillava pericolosamente vicino alla parete rocciosa. Il velivolo aveva cominciato a girare vorticosamente su se stesso, e Tonghini non riusciva più a controllarlo. Solo quando spinse il motore al massimo e orientò il rotore principale sul volo in avanti, l'elicottero, sia pure vibrando disperatamente, rispose ai comandi.
Tonghini ripetè la manovra avvicinandosi questa volta da sinistra, ma la corda calata da Runggaldier rimase a penzolare a cinque metri buoni di distanza dalle braccia protese delle guide. I tentativi del pilota di scendere ancora rimasero senza frutto. Anzi, la corrente ascensionale sulla quale «galleggiava» l'elicottero era talmente violenta che Tonghini dovette allontanarsi di nuovo per motivi di sicurezza.
Secondo tutte le regole, a quel punto Tonghini avrebbe dovuto far ritorno alla base. Ma c'era in gioco la vita di un uomo, così questa volta tagliò diagonalmente attraverso la gola e rimase librato con il muso del velivolo rivolto verso la parete di roccia. Tutt'a un trattola coda dell'elicottero cominciò a sollevarsi verticalmente. Ancora qualche secondo e l'Augusta si sarebbe capovolto. Tonghini artigliò i comandi per radrizzarlo e sfrecciò fuori dalla gola con i motori al massimo.
Rimaneva una sola possibilità_ avvicinarsi a marcia indietro alla montagna. E così fece Tonghini, entrando nella gola e girando l'elicottero finché la coda non si trovò a fronteggiare le roccie. Tre metri tra il rotore di poppa e i picchi aguzzi del crepaccio. Due metri. L'elicottero manteneva un assetto orizzontale. Un metro. La corda dei soccorritori era tutta sporta in fuori e la guida più giovane, Othmar Prinoth, si sporse sull'abisso per tentare di afferrarla dopo essersi a sua volta legato per sicurezza. Era ancora fuori tiro. Mezzo metro. La mano di Prinoth si strinse sul canapo. Attimi dopo la corda era fissata all'imbracatura di Sandro e le guide levarono il pollice all'indirizzo del pilota per indicargli che poteva partire.
Sndro tornò a Col Raiser appeso a una fune che si allungava per 12 metri sotto la pancia dell'elicottero; qui venne issato nell'elicottero e sistemato su una barella. All'aeroporto San Giacomo, lo attendeva un'ambulanza che lo portò all'ospedale di Bolzano dove i medici ricucirono con circa 50 punti lo strappo al cuoio capelluto, gli immobilizzarono una scapola rotta e gli prestarono le prime cure agli arti congelati.
Avvisata per telefono, Marta Lolli arrivò all'ospedale e si trovò in un lungo e stretto corridoio che riconobbe subito. Quando aprì la porta della stanzetta vide Sandro a letto con la testa bendata e la parte inferiore delle gambe protetta da una struttura cubica che impediva alle coperte di toccargli i piedi congelati.
Tutto era come nel sogno.
Nota
Il presente articolo dal titolo "Strappato alle Alpi", firmato da Cristoforo Mattei è stato pubblicato sulla rivista "Selezione dal Reader's Digest" nell'agosto 1984, pp.34-39. Il Grac ringrazia l'Autore e la redazione.
Marta si svegliò pensando che quel giorno era il 14 aprile 1980, e che il 14 era il suo numero fortunato (il suo compleanno e quello di Sandro cadevano il 14, per lei di ottobre, per lui di gennaio). Non pensò più al sogno. Aveva già avuto altre premonizioni.
Il 14 giugno del 1980, esattamente due mesi dopo il sogno di Marta, Sandro Lolli, 35 anni, partì assieme a sette amici di Bologna da Santa Cristina Valgardena, nelle Dolomiti, per un’escursione che doveva durare l’intera giornata. Era una cosa che facevano quattro o cinque volte l’anno, nei fine-settimana. Nessuno di loro pretendeva di essere un grande arrampicatore: erano soltanto occasioni per rifornirsi di ossigeno; fare un po’ d’esercizio e stare a contatto con la natura.
Una cabinovia li depositò sul Col Raiser, 2100 metri sopra il livello del mare. Da lì avrebbero iniziato la marcia verso Sass Rigais, una montagna a piramide; alta 3025 metri. In una guida firmata da Reinhold Messner, la salita viene definita «moderatamente difficile».
Gli otto uomini raggiunsero la base della montagna alle 10. Dinanzi ai due sentieri muniti di cavi d’acciaio che andavano fino alla cima da est e da ovest, si divisero in due gruppi di quattro, concordando che si sarebbero poi ritrovati in vetta. Quello di Sandro andò verso ovest, seguendo le tracce di un sentiero coperto di neve. I compagni di Sandro, preoccupati dell’abbondante neve accumulata al suolo, esitavano; deciso invece ad arrivare fino in cima, visto che aveva fatto tutta quella strada, Sandro non ebbe dubbi: «Tornate pure indietro se volete, io vado su da solo» e proseguì.
«Testardo come sempre» commentò uno dei tre rinunciatari. L’accordo era che si sarebbero ritrovati più tardi sul Col Raiser.
Sandro raggiunse la cima del Sass Rigais dopo un'arrampicata abbastanza facile e piacevole, e la bellezza del panorama lo lasciò senza fiato. Decise di attendere i compagni che venivano su per il sentiero del versante orientale e di ridiscendere poi con loro. Dallo zaino prese un paio di calze asciutte, perché la neve gli era entrata negli scarponi, poi mangiò qualcosa, bevve un po' d'acqua dalla borraccia e si mise comodo a godersi lo spettacolo.
Trascorsero due ore, e degli altri neanche l'ombra. Dopo un'altra mezz'ora Sandro si alzò e iniziò da solo la discesa. Il versante orientale si rivelò molto meno praticabile di quello occidentale, spesso interrotto da cadute verticali a precipizio sul pianoro sottostante. Per attenuare l'angolo di discesa Sandro percorreva la montagna diagonalmente. Quando finalmente avvistò il gruppo degli scalatori, era già molto più basso rispetto a loro e cominciava ad accusare stanchezza. «Proseguite senza di me» gridò ai compagni. «Io continuo a scendere.»
«Sei pazzo» gli gridarono di rimando. «E troppo pericoloso.»
«Ce la farò, non preoccupatevi» urlò Sandro rimettendosi in marcia.
Spostandosi con movimenti cauti su rocce e sfasciumi, l’escursionista raggiunse una profonda spaccatura a ferro di cavallo e cominciò ad affrontarla da sinistra, dove la strada sì faceva sempre più ripida. A un tratto si trovò davanti a un canalone dal fondo coperto di neve ghiacciata, uno «scivolo» insidioso che sbadigliava sull’abisso sottostante.
Nello scendere, Sandro aderiva istintivamente con il corpo al pendio - contravvenendo a una fondamentale regola dell'alpinismo - e gravava con tutto il peso sul piede che si trovava più in alto. Trenta metri, poi 20, lo separavano dall'orlo del burrone. Era a meta strada quando all'improvviso il piede destro gli partì da sotto. Non fece neanche in tempo a lasciarsi prendere dal panico che già stava precipitando. Capitombolò sul ghiaccio, acquistando sempre maggior velocità, agevolato anche dalla leggera giacca a vento di materiale sintetico che non offriva resistenza, e si accorse di rotolare verso il bordo della montagna.
Aveva una sola speranza di salvezza: una roccia sporgente dalla neve nel mezzo del canalone sotto di lui. Vide il masso farglisi incontro a velocità vertiginosa e fece appena in tempo ad allungare le braccia per proteggersi la testa. Poi non senti più nulla.
Quando riprese i sensi, il sole era più basso nel cielo e faceva più freddo. Controllò l’orologio: erano le 15.45. Sentiva la faccia e il collo bagnati e appiccicosi, e quando toccò la pelle vide che le dita erano macchiate di rosso. Si rese conto con orrore che in seguito all’urto un lembo di pelle da metà fronte al centro del cranio si era strappato e gli pendeva ora sull'orecchio destro. L’osso era allo scoperto.
Ancora sotto shock, Sandro riuscì a mettersi in ginocchio e, procedendo a gattoni, a recuperare lo zaino, che si trovava qualche metro più sotto. Quindi cominciò ad arrampicarsi su un roccione nella parte destra del canalone, un masso alto cinque metri e reso scivoloso dalla neve sciolta. Gli costò enormi sofferenze, ma alla fine ce la fece. L'istinto gli diceva che dall'alto di quella roccia aveva più probabilità di essere visto.
Quando fu in cima, Sandro si sistemò con i piedi su uno stretto terrazzino. In pratica era appollaiato, mezzo seduto e mezzo in piedi, con le spalle contro la roccia. Il fondo coperto di ghiaccio del canalone scintillava sotto di lui. Soltanto pochi metri lo separavano dall'orlo del precipizio. Se fosse caduto ora...
Erano già le 17.30 quando gli amici di Sandro si riunirono sul Col Raiser. Il fatto che lui mancasse destò qualche preoccupazione, ma relativa. Sandro era imprevedibile, gli piaceva fare a modo suo, e di solito gli andava bene. Forse aveva proseguito fino a Santa Cristina. Solo quando constatarono che non era nemmeno lì gli escursionisti avvisarono i carabinieri, col risultato che era sera inoltrata quando venne dato l'allarme alla Stazione di soccorso alpino della Valgardena di Ortisei.
Sei uomini si recarono subito nella zona e gridarono il nome di Sandro da vari punti al di sotto della parete orientale, ma senza ottenere risposta. Dopo alcune ore di ricerche furono sospese fino al mattino.
La luna inondava di luce spettrale la montagna. La temperatura era scesa sotto lo zero e Sandro era gelato fino al midollo. Non sentiva più le mani e i piedi. La maglietta gialla che aveva preso dal sacco per tamponare la ferita era ora completamente rossa. Ogni tanto si addormentava e sognava di precipitare nell'abisso, per poi svegliarsi e ritrovarsi in un altro incubo.
Alternando momenti di terrore a momenti di perdita di coscienza, resistette fino alle 4 del mattino, quando il sole cominciò a sorgere striando il cielo di rosso e giallo. Sandro cercò di riattivare la circolazione nelle membra tramortite dal freddo. Ma all'improvviso, mentre il sole proseguiva nella sua ascesa, fu colto da un eccesso di disperazione: perché nessuno veniva a prenderlo?
Alle 8 del mattino tre guide del gruppo di soccorso lasciarono Col Raiser alla volta di Sass Rigais. Contemporaneamente un elicottero da ricognizione di levò in volo dalla pista dell'aeroporto San Giacomo di Bolzano. Il velivolo si fermò sul Col Raiser per prendere a bordo Vincenzo Runggaldier, una guida che conosceva la montagna come le sue tasche, poi virò verso Sass Rigais.
La visibilità era perfetta e l'elicottero ronzò per un'ora su e giù lungo la parete di roccia che Runggldier scrutava fin nelle pieghe più riposte, ma senza risultato. Il carburante intanto stava per finire e il pilota decideva di eseguire un ultimo passaggio quando Runggldier scorse qualcosa di rosso sul pendio della montagna. Sandro stava sventolando la maglietta intrisa di sangue per attirare l'attenzione.
«Trovato! Trovato!» comunicò Runggldier per radio alle tre guide in attesa ai piedi del monte dando l'esatta posizione del disperso. Poi l'elicottero tornò a Bolzano, lasciando però Runggldier sul Col Raiser.
Le guide ebbero il loro da fare per trovare Sandro in mezzo a tutte quelle rocce sul versante est del Sass Rigais. Quando alla fine lo scorsero lui era di spalle e dava l'impressione di trovarsi in precario equilibrio sull'abisso. Attento a non fare il minimo rumore che potesse far sobbalzare il ferito e provocarne la caduta dal costone, Wolfi Mussner, la più anziana delle tre guide, si legò una corda alla vita, ne fissò l'altra estremità a un masso e si calò lentamente lungo la parete finché non riuscì a circondare con le braccia il corpo di Sandro.
«Grazie a Dio siete arrivati» biascicò con un fil di voce il ferito.
Era chiaro che le condizioni di Sandro erano critiche e che le tre ore di un'eventuale malagevole discesa in barella fino al Col Raiser gli sarebbero state fatali. D'altra parte, in mezzo a quelle rocce a picco era impensabile far atterrare un elicottero. Ma Mussner non aveva scelta. La guida prese il radiotelefono e chiese al capo della squadra di soccorso sul Col Raiser che gli mandassero un velivolo.
Il lamento di una sirena echeggiò sulla pista d'atterraggio di San Giacomo mentre la richiesta di soccorso veniva girata alla sala operativa. Immediatamente si levò in volo un elicottero Augusta Bell AB 205 del IV ragguppamento dell'Aviazione Leggera «Altair» dell'esercito italiano. Questo gruppo è conosciuto sulle Alpi col nome di «Angeli delle montagne» per le numerose ed eccezionali operazioni di salvataggio in cui si è distinto.
Dopo una sosta per imbarcare Runggaldier, il pilota Giuseppe Tonghini puntò verso il Sass Rigais. Erano quasi le 12, un momento pericoloso per volare in prossimità delle montagne: dal fondo delle valli sale aria calda che viene riflessa sulle pareti rocciose e quando incontra aria fredda, a 2000 metri d'altitudine, dà luogo a forti turbolenze.
Seguendo le direttive di Runggaldier, Tonghini entrò nella vallata stretta e incassata sul lato destro e ciò che vide non gli piacque neanche un po'- Era impossibile prevedere da che parte sarebbero venute le correnti d'aria, e per giunta bisognava manovrare entro lo spazio di 200 metri chiuso su tre lati.
Il pilota seguì i contorni della conca sfiorando la parete di roccia col lato destro del velivolo finché l'elicottero non si librò su Sandro e sulle tre guide. Al ferito intanto era stata fatta indossare una speciale imbracatura di materiale sintetico per mezzo della quale avrebbe potuto essere agganciato e sollevato.
Ma improvvisamente l'elicottero del peso di oltre due tonnellate cominciò a ballonzolare come un tappo di sughero su un mare in tempesta mentre la sua coda oscillava pericolosamente vicino alla parete rocciosa. Il velivolo aveva cominciato a girare vorticosamente su se stesso, e Tonghini non riusciva più a controllarlo. Solo quando spinse il motore al massimo e orientò il rotore principale sul volo in avanti, l'elicottero, sia pure vibrando disperatamente, rispose ai comandi.
Tonghini ripetè la manovra avvicinandosi questa volta da sinistra, ma la corda calata da Runggaldier rimase a penzolare a cinque metri buoni di distanza dalle braccia protese delle guide. I tentativi del pilota di scendere ancora rimasero senza frutto. Anzi, la corrente ascensionale sulla quale «galleggiava» l'elicottero era talmente violenta che Tonghini dovette allontanarsi di nuovo per motivi di sicurezza.
Secondo tutte le regole, a quel punto Tonghini avrebbe dovuto far ritorno alla base. Ma c'era in gioco la vita di un uomo, così questa volta tagliò diagonalmente attraverso la gola e rimase librato con il muso del velivolo rivolto verso la parete di roccia. Tutt'a un trattola coda dell'elicottero cominciò a sollevarsi verticalmente. Ancora qualche secondo e l'Augusta si sarebbe capovolto. Tonghini artigliò i comandi per radrizzarlo e sfrecciò fuori dalla gola con i motori al massimo.
Rimaneva una sola possibilità_ avvicinarsi a marcia indietro alla montagna. E così fece Tonghini, entrando nella gola e girando l'elicottero finché la coda non si trovò a fronteggiare le roccie. Tre metri tra il rotore di poppa e i picchi aguzzi del crepaccio. Due metri. L'elicottero manteneva un assetto orizzontale. Un metro. La corda dei soccorritori era tutta sporta in fuori e la guida più giovane, Othmar Prinoth, si sporse sull'abisso per tentare di afferrarla dopo essersi a sua volta legato per sicurezza. Era ancora fuori tiro. Mezzo metro. La mano di Prinoth si strinse sul canapo. Attimi dopo la corda era fissata all'imbracatura di Sandro e le guide levarono il pollice all'indirizzo del pilota per indicargli che poteva partire.
Sndro tornò a Col Raiser appeso a una fune che si allungava per 12 metri sotto la pancia dell'elicottero; qui venne issato nell'elicottero e sistemato su una barella. All'aeroporto San Giacomo, lo attendeva un'ambulanza che lo portò all'ospedale di Bolzano dove i medici ricucirono con circa 50 punti lo strappo al cuoio capelluto, gli immobilizzarono una scapola rotta e gli prestarono le prime cure agli arti congelati.
Avvisata per telefono, Marta Lolli arrivò all'ospedale e si trovò in un lungo e stretto corridoio che riconobbe subito. Quando aprì la porta della stanzetta vide Sandro a letto con la testa bendata e la parte inferiore delle gambe protetta da una struttura cubica che impediva alle coperte di toccargli i piedi congelati.
Tutto era come nel sogno.
Nota
Il presente articolo dal titolo "Strappato alle Alpi", firmato da Cristoforo Mattei è stato pubblicato sulla rivista "Selezione dal Reader's Digest" nell'agosto 1984, pp.34-39. Il Grac ringrazia l'Autore e la redazione.
Foto sopra: Tonghini in posa vicino al suo elicottero sulla base di Bolzano verso la fine degli anni Settanta (Archivio Maura Tonghini)
Articolo pubblicato sul Grac il giorno 12 gennaio 2025
Il comandante Tonghini da Sommo con Porto
di Pierlino Bergonzi
di Pierlino Bergonzi
Foto sopra: Tonghini ai comandi di un AB-206 appena atterrato sulla sommità del Monte Cassio, anni Ottanta
Quando Tonghini, proveniente dal Gruppo di Volo di Bolzano, arrivò al nostro Gruppo di Volo, il quale si divideva sugli aeroporti di Firenze e Parma, mi era apparso subito "diverso" dagli altri piloti di elicotteri. Per prima cosa non se la tirava per niente. A dire il vero ce n'erano altri che viaggiavano con i piedi ben saldi al suolo, un esempio per tutti era Pier Giorgio da Scandiano. Ma ce n'erano diversi che pretendevano di "volare" anche quando erano comodamente seduti in ufficio, e addirittura alcuni che quando raccontavano "imprese" di cui erano stati protagonisti sembrava che solo loro e non altri avrebbero potuto portarle a termine tanto erano difficili e complicate...
A quel tempo, eravamo a metà degli anni Ottanta, io avevo appena terminato il passaggio sull'ala rotante proveniente dall'ala fissa e mi davo da fare per apprendere il maggior numero di "trucchi" che mi avrebbero permesso di domare la nuova macchina volante. Per raggiungere questo scopo avevo individuato nel comandante Tonghini il mio punto di riferimento; il mio confessore professionale, insieme ovviamente a Pier Giorgio, mio compagno di corso e pilota d'elicottero doc.
Tonghini non lo conoscevo affatto, ma i suoi modi di fare conquistarono in pochissimo tempo la mia fiducia. E nei mesi che seguirono sperimentai che il mio istinto primordiale non mi aveva tradito: mi aveva indicato quello che sarebbe diventata la mia guida. Non mi sono mai pentito: era veramente l'istruttore che inconsciamente cercavo. Facevo carte false per poter volare con lui più spesso che potevo, specie nelle missioni di addestramento. A dire il vero non era neanche troppo difficile perché gli altri "vecchi" piloti d'elicottero avevano ognuno il suo personale modo di stare per aria e non volevano assolutamente cambiarlo.
Il perché di questo fuggi fuggi è presto detto: quando volavi con Beppe poteva capitare, e capitava, che l'elicottero non volasse come un elicottero ma come un aereo. E questo dava fastidio, per usare un eufemismo, a molti piloti, che avrebbero preferito viaggiar per aria quieta, manovrare con calma, evitare nel modo più assoluto gli spazi aerei con turbolenze e atterrare in piazzole larghe e comode. Ma soprattutto "non gradivano" assumere posizioni troppo "tirate". «Per il volo acrobatico avevano già inventato l'aereo», si sentiva dire ironicamente... Per me invece, che, come detto, provenivo dagli aerei, mi consolava molto il modo di volare di Beppe perché mi pareva di stare seduto di nuovo su un velivolo ad ala fissa. E a parte il looping e la vite per il resto davvero non mi mancava nulla, quando volavo insieme a lui. Da solo non mi sarei mai azzardato a fare manovre così ardite con una macchina per me ancora "sconosciuta" e sinceramente non le ho mai tentate, nemmeno in seguito, quando divenni più smaliziato. Come secondo pilota però, stando seduto a fianco del comandante Tonghini, me li godevo immensamente attimo per attimo.
Avrei decine di episodi da raccontare, che mi sono rimasti indelebili nella memoria, ma non reggerebbe il lettore, dirò quindi solo dell'"ascensore". L'"ascensore" non è una manovra che si studia sul manuale di volo, anzi non è affatto menzionata. L'ho battezzata io con questo nome quando per la prima volta Beppe me la mostrò, mettendola in atto sul versante sud del Gruppo del Cimone. Si tratta di sfruttare sapientemente le correnti ascensionali che si formano in determinate situazioni meteorologiche sui versanti di una montagna, cosa assolutamente non facile da stimare e individuare dove esattamente agiscono. E la stima deve essere precisa perché se si sbaglia in modo grossolano, visto che si lavora vicino o molto vicino al suolo, esiste anche il rischio di farsi molto male. Ma per Beppe la ricerca della corrente che saliva era come un giuoco: ricordo che controllava il terreno per lo più roccioso, roteando la testa tenuta alta in ogni direzione, come un segugio in cerca di tracce della preda. Individuata la "porta d'ingresso", si entrava in "ascensore"...
A quel tempo, eravamo a metà degli anni Ottanta, io avevo appena terminato il passaggio sull'ala rotante proveniente dall'ala fissa e mi davo da fare per apprendere il maggior numero di "trucchi" che mi avrebbero permesso di domare la nuova macchina volante. Per raggiungere questo scopo avevo individuato nel comandante Tonghini il mio punto di riferimento; il mio confessore professionale, insieme ovviamente a Pier Giorgio, mio compagno di corso e pilota d'elicottero doc.
Tonghini non lo conoscevo affatto, ma i suoi modi di fare conquistarono in pochissimo tempo la mia fiducia. E nei mesi che seguirono sperimentai che il mio istinto primordiale non mi aveva tradito: mi aveva indicato quello che sarebbe diventata la mia guida. Non mi sono mai pentito: era veramente l'istruttore che inconsciamente cercavo. Facevo carte false per poter volare con lui più spesso che potevo, specie nelle missioni di addestramento. A dire il vero non era neanche troppo difficile perché gli altri "vecchi" piloti d'elicottero avevano ognuno il suo personale modo di stare per aria e non volevano assolutamente cambiarlo.
Il perché di questo fuggi fuggi è presto detto: quando volavi con Beppe poteva capitare, e capitava, che l'elicottero non volasse come un elicottero ma come un aereo. E questo dava fastidio, per usare un eufemismo, a molti piloti, che avrebbero preferito viaggiar per aria quieta, manovrare con calma, evitare nel modo più assoluto gli spazi aerei con turbolenze e atterrare in piazzole larghe e comode. Ma soprattutto "non gradivano" assumere posizioni troppo "tirate". «Per il volo acrobatico avevano già inventato l'aereo», si sentiva dire ironicamente... Per me invece, che, come detto, provenivo dagli aerei, mi consolava molto il modo di volare di Beppe perché mi pareva di stare seduto di nuovo su un velivolo ad ala fissa. E a parte il looping e la vite per il resto davvero non mi mancava nulla, quando volavo insieme a lui. Da solo non mi sarei mai azzardato a fare manovre così ardite con una macchina per me ancora "sconosciuta" e sinceramente non le ho mai tentate, nemmeno in seguito, quando divenni più smaliziato. Come secondo pilota però, stando seduto a fianco del comandante Tonghini, me li godevo immensamente attimo per attimo.
Avrei decine di episodi da raccontare, che mi sono rimasti indelebili nella memoria, ma non reggerebbe il lettore, dirò quindi solo dell'"ascensore". L'"ascensore" non è una manovra che si studia sul manuale di volo, anzi non è affatto menzionata. L'ho battezzata io con questo nome quando per la prima volta Beppe me la mostrò, mettendola in atto sul versante sud del Gruppo del Cimone. Si tratta di sfruttare sapientemente le correnti ascensionali che si formano in determinate situazioni meteorologiche sui versanti di una montagna, cosa assolutamente non facile da stimare e individuare dove esattamente agiscono. E la stima deve essere precisa perché se si sbaglia in modo grossolano, visto che si lavora vicino o molto vicino al suolo, esiste anche il rischio di farsi molto male. Ma per Beppe la ricerca della corrente che saliva era come un giuoco: ricordo che controllava il terreno per lo più roccioso, roteando la testa tenuta alta in ogni direzione, come un segugio in cerca di tracce della preda. Individuata la "porta d'ingresso", si entrava in "ascensore"...
Foto sopra: Tonghini ai comandi mentre effettua un'affondata in una valletta nei pressi del Monte Sillara, anni Ottanta
L'inizio era dato solitamente dalla gentile richiesta di Beppe: "Mi cederesti per favore per un poco i comandi?". Subito dopo lo vedevi stiracchiarsi per "indossare" il velivolo. L'AB-206 era una taglia in meno della sua e faceva una certa fatica, ci sarebbe voluto un AB-205, ma era rimasto sulla base di Bolzano. A questo punto afferrava con le sue grandi mani ciclico e collettivo, piazzando saldamente i piedi sui pedali. Terminati i preliminari, da quel momento, secondo me anche l'elicottero lo percepiva, partiva la giostra.
Tranne alcuni atteggiamenti particolari che ben ricordo, per il resto non ho mai prestato veramente attenzione a come manovrasse perché ero sempre molto preso dal godermi le posizioni del tutto inusuali e fantastiche che cambiavano in continuazione. Ricordo che si avvicinava con estrema cautela alla base della montagna che aveva deciso di "scalare", diciamo a una velocità fra i 30 e i 50 nodi e poi, una volta "centrata" la corrente ascensionale, tirava su tutto il collettivo richiedendo il massimo sforzo alla turbina.
Da questa posizione, a seconda della forza della corrente, si percepiva, anche fisicamente, una "tirata" verso l'alto e la macchina saliva a una velocità verticale sostenuta (più marcata, a volte molto di più, di quella che avrebbe potuto dare la sola potenza del motore, per intenderci), mentre la velocità traslata doveva essere variata attimo per attimo per avere sempre la massima efficienza, in funzione delle correnti esterne, che cambiavano in continuazione man mano che ci si spostava. Ricordo che si arrivava anche a velocità indicate minime di 20 nodi, quando il vento era gagliardo. Il segreto, diceva il maestro, era di stare sempre "dalla parte del formaggio", intendendo che la velocità doveva sempre esser tale da permetterti di toglierti dalle peste in caso la corrente ascensionale diminuisse all'improvviso o peggio cessasse di colpo. E in montagna tutto è possibile.
In questa condizione si "correva" rapidamente su per il pendio scosceso col rotore a pochi metri dal suolo. Con la coda dell'occhio vedevo il comandante che manovrava in continuazione, sempre alla ricerca della corrente migliore: adrenalina allo stato puro.
In un attimo si arrivava in vetta, da dove subito gli chiedevo di "affondare" e ripetere da capo. Non si faceva pregare più di tanto...
Un giorno avevamo a bordo anche un pilota di aerei desideroso di scoprire le "strane manovre" che raccontavo al circolo. Ebbene, il pilota di aerei, esperto e amante del volo acrobatico, si divertì tantissimo, ma quando dalla sommità della cima il comandante lasciò "precipitare" l'elicottero a piombo per ritornare a fondovalle e riprendere l'ascensore, si sentì nell'interfono un gemito seguito da un "Cristo!".
Nel raccontare non vorrei dare l'impressione che il comandante Tonghini fosse stato un trasgressore del buon senso. No, non lo era! Semplicemente sentiva il volo meglio di molti altri piloti, me compreso. Per questo motivo lui si poteva permettere di pilotare a un livello più elevato rispetto alla norma. E di farlo in tutta sicurezza. Se mi fossi messo in testa di fare quello che faceva lui, allora sì che si sarebbe dovuto parlare di pilota temerario. E i temerari in questo lavoro quasi mai arrivano a vedersi con i capelli bianchi.
C'è un detto importante, che ogni pilota dei nostri tempi imparava a memoria (spero anche oggi venga quotidianamente ricordato nelle scuole di volo), e che diceva: «Ci sono piloti vecchi... ci sono piloti indisciplinati. Ma non ci sono vecchi piloti indisciplinati». Se il comandante in questione ha raggiunto la vecchiaia in ottima forma significa solamente che è stato senza dubbio un pilota disciplinato.
Tranne alcuni atteggiamenti particolari che ben ricordo, per il resto non ho mai prestato veramente attenzione a come manovrasse perché ero sempre molto preso dal godermi le posizioni del tutto inusuali e fantastiche che cambiavano in continuazione. Ricordo che si avvicinava con estrema cautela alla base della montagna che aveva deciso di "scalare", diciamo a una velocità fra i 30 e i 50 nodi e poi, una volta "centrata" la corrente ascensionale, tirava su tutto il collettivo richiedendo il massimo sforzo alla turbina.
Da questa posizione, a seconda della forza della corrente, si percepiva, anche fisicamente, una "tirata" verso l'alto e la macchina saliva a una velocità verticale sostenuta (più marcata, a volte molto di più, di quella che avrebbe potuto dare la sola potenza del motore, per intenderci), mentre la velocità traslata doveva essere variata attimo per attimo per avere sempre la massima efficienza, in funzione delle correnti esterne, che cambiavano in continuazione man mano che ci si spostava. Ricordo che si arrivava anche a velocità indicate minime di 20 nodi, quando il vento era gagliardo. Il segreto, diceva il maestro, era di stare sempre "dalla parte del formaggio", intendendo che la velocità doveva sempre esser tale da permetterti di toglierti dalle peste in caso la corrente ascensionale diminuisse all'improvviso o peggio cessasse di colpo. E in montagna tutto è possibile.
In questa condizione si "correva" rapidamente su per il pendio scosceso col rotore a pochi metri dal suolo. Con la coda dell'occhio vedevo il comandante che manovrava in continuazione, sempre alla ricerca della corrente migliore: adrenalina allo stato puro.
In un attimo si arrivava in vetta, da dove subito gli chiedevo di "affondare" e ripetere da capo. Non si faceva pregare più di tanto...
Un giorno avevamo a bordo anche un pilota di aerei desideroso di scoprire le "strane manovre" che raccontavo al circolo. Ebbene, il pilota di aerei, esperto e amante del volo acrobatico, si divertì tantissimo, ma quando dalla sommità della cima il comandante lasciò "precipitare" l'elicottero a piombo per ritornare a fondovalle e riprendere l'ascensore, si sentì nell'interfono un gemito seguito da un "Cristo!".
Nel raccontare non vorrei dare l'impressione che il comandante Tonghini fosse stato un trasgressore del buon senso. No, non lo era! Semplicemente sentiva il volo meglio di molti altri piloti, me compreso. Per questo motivo lui si poteva permettere di pilotare a un livello più elevato rispetto alla norma. E di farlo in tutta sicurezza. Se mi fossi messo in testa di fare quello che faceva lui, allora sì che si sarebbe dovuto parlare di pilota temerario. E i temerari in questo lavoro quasi mai arrivano a vedersi con i capelli bianchi.
C'è un detto importante, che ogni pilota dei nostri tempi imparava a memoria (spero anche oggi venga quotidianamente ricordato nelle scuole di volo), e che diceva: «Ci sono piloti vecchi... ci sono piloti indisciplinati. Ma non ci sono vecchi piloti indisciplinati». Se il comandante in questione ha raggiunto la vecchiaia in ottima forma significa solamente che è stato senza dubbio un pilota disciplinato.
Immagine sopra: manifesto allegato alla rivista dell'Aeronautica Militare "Sicurezza del Volo" negli anni Settanta
Imperare sibi maximum imperium est (1)
Le qualità professionali del comandante Tonghini nessuno le poteva ne può metterle in dubbio perché sono fuori discussione. Aggiungerei ancora una cosa: anche a terra l'uomo Tonghini era da molti, a cominciare dal sottoscritto, preso come esempio di comportamento serio e responsabile. Da parte mia perché avevo aspetti del mio carattere che non mi piacevano e percepivo che se lo avessi emulato avrei potuto migliorarmi. Ad esempio avrei voluto acquisire la sua pacatezza nel ragionare, il suo buon senso nell'affrontare i problemi e l'intelligenza usata nel risolverli; ma l'aspetto che più gli invidiavo del suo forte carattere era l'infinita pazienza che usava in ogni frangente, in particolare nel trattare con le altre persone. In questo ero gravemente mancante e, ahimè, ho paura di non avere ancora raggiunto la sufficienza, nonostante il molto tempo passato e gli sforzi fatti. Mi sento ancora a distanze siderali dalla posizione di "arrivato", che il Libro dei libri indica essere il "comando" più elevato raggiungibile da un essere umano. L'unico status vincente e immutabile: «È meglio la pazienza che la forza di un eroe, chi domina se stesso vale più di chi conquista una città».(2) Confucio, 500 anni circa prima di Cristo, scriveva: «Il savio ciò che vuole lo cerca in sé; il volgare lo cerca negli altri». Insomma, visto che anche stare per terra la vita presenta i suoi rischi, concluderei con le parole d'augurio del grande maestro napoletano Marcello D'Orta: «Io speriamo che me la cavo».
Grazie carissimo Comandante Beppe per quanto mi hai donato!
(1) Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, CXIII.30.
(2) (Pro 16,32).
(3) (Alberto Castellani, I dialoghi di Confucio, Enigma Edizioni, Torino 2022, p. 148).
Grazie carissimo Comandante Beppe per quanto mi hai donato!
(1) Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, CXIII.30.
(2) (Pro 16,32).
(3) (Alberto Castellani, I dialoghi di Confucio, Enigma Edizioni, Torino 2022, p. 148).
Foto sopra: Parma, anni Ottanta, il comandante Tonghini mentre esegue i controlli prima della messa in moto
Immagine sopra: il giornalista americano Harry Reasoner mentre era in Vietnam e faceva servizi per la sua redazione, ha avuto modo di conoscere da vicino sia i piloti d'aereo che gli elicotteristi. Dopo scrisse questo spassosissimo pezzo sui piloti di elicottero (mezzo che vola ma che non dovrebbe...), dove parla anche della "profonda differenza" che c'è tra i piloti dell'ala fissa e quelli dell'ala rotante.
Foto sopra: Tonghini ai comandi di un AB-206 mentre esegue un atterraggio su una selletta nei pressi del Monte Sillara, anni Ottanta
Foto sopra: AB-206 con Tonghini ai comandi mentre sosta su un pianoro innevato del Corno alle Scale. Il Cimone sullo sfondo, anni Ottanta
Foto sopra: Tonghini ai comandi dell'AB-206 mentre esegue un'affondata da cardiopalma sul Gruppo del Sillara, anni Ottanta
Foto sopra: Parma, anni Ottanta, in primo piano Pier Giorgio Franzoni, dietro Tonghini, pronti alla messa in moto dell'AB-206
Foto sopra: AB-206 "imboscato" durante un'esercitazione a sud di Parma negli anni Ottanta
Foto sopra: Anni Ottanta, AB-206 in coppia durante l'addestramento al volo tattico, in procinto di passare sotto il ponte sul Taro
Foto sopra: Anni Ottanta, AB-206 in procinto di passare sotto il ponte sul Taro
Foto sopra: Anni Ottanta, AB-206 mentre transita sotto il ponte sul Taro
Foto sopra: Anni Ottanta, AB-206 appena terminato il passaggio sotto il ponte sul Taro
Foto sopra: AB-206 in coppia durante un'esercitazione a nord di Parma negli anni Ottanta
Foto sopra: Siai Marchetti 1019 in volo tattico sul Taro
Foto sopra: Siai Marchetti 1019 in volo tattico sul Taro. I piloti dell'ala fissa imitavano volentieri quelli dell'ala rotante, specie nell'emozionante volo a bassissima altezza. Per loro il tattico era assolutamente proibito, ma non c'era pilota che non volesse provare l'emozione...
Foto sopra: AB-206 "posato" sul Po in attesa...
Foto sopra: AB-206 in esercitazione con Tonghini ai comandi in una virata a 90 gradi sull'alveo del Po
Nota: le immagini a corredo di questa pagina, quando non diversamente specificato, appartengono all'archivio di Pierlino Bergonzi
Articolo pubblicato sul Grac il giorno 12 gennaio 2025