L'ultimo minatore di Montechino
di Pierlino Bergonzi
di Pierlino Bergonzi
Foto sopra: a sinistra Antonio Bergonzi nel 1946, a destra nel 1924 (Archivio Pierlino Bergonzi)
"Chi non ricorda non vive"
«Chi non ricorda non vive» (1), scriveva un famoso filologo del secolo scorso. Un'asserzione sacrosanta da tenere in primo piano. Consapevoli però che l'ultima parola spetta non ai filologi, non ai filosofi o agli storici, ma ai Profeti: una "categoria" che vanta il merito di aver meno deluso l'umanità rispetto a tutte le altre.
I Profeti dicevano (e dicono) che nonostante tutti i nostri sforzi per tenere in vita il passato, questo è destinato a essere dimenticato per sempre. E ognuno di noi seguirà la stessa sorte. Non importa quale ruolo un essere umano abbia giocato durante la sua esistenza; sia stato re o servo, la destinazione sarà la medesima: l'oblio eterno!
E così sarà anche per la Miniera di Montechino. Nei tempi d'oro c'era un migliaio di abitanti che popolavano la frazione di Gropparello, oggigiorno sono scesi sotto i cinquanta.
Già ora, circa ottanta anni dopo la fine della Miniera, alcuni non ne hanno mai sentito parlare, molti a malapena conoscono qualcosa, altri ricordano dei nomi delle persone che ci hanno lavorato per averli frequentati da vivi, solo qualche vecchio rammenta particolari in più.
Delle centinaia e centinaia di minatori che ci hanno lavorato, ne è rimasto in vita solo uno. Fra non molti anni della Miniera di Montechino rimarranno notizie frammentarie solo su pochissimi libri, destinati a essere letti da nessuno.
«Considera, del resto, la tua condizione: l'uomo oggi c'è e domani è scomparso; e quando è sottratto alla vista, rapidamente esce anche dalla memoria.» (I.d.C. lib. I, cap. XXIII, v. 48)
«Insomma, comunque destino è la morte; e passa rapidamente come un'ombra la vita umana. Chi si ricorderà di te, dopo che sarai scomparso, [...] Mantienti, su questa terra, come uno che è di passaggio; come un ospite, che non ha a che fare con le faccende di questo mondo.» (I.d.C. lib. I, cap. XXIII, v. 50)
«Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito.» (Qo 1,11)
(1) Giorgio Pasquali, Filologia e storia, Editore Le Monnier, Firenze, 1998, p. 57.
I Profeti dicevano (e dicono) che nonostante tutti i nostri sforzi per tenere in vita il passato, questo è destinato a essere dimenticato per sempre. E ognuno di noi seguirà la stessa sorte. Non importa quale ruolo un essere umano abbia giocato durante la sua esistenza; sia stato re o servo, la destinazione sarà la medesima: l'oblio eterno!
E così sarà anche per la Miniera di Montechino. Nei tempi d'oro c'era un migliaio di abitanti che popolavano la frazione di Gropparello, oggigiorno sono scesi sotto i cinquanta.
Già ora, circa ottanta anni dopo la fine della Miniera, alcuni non ne hanno mai sentito parlare, molti a malapena conoscono qualcosa, altri ricordano dei nomi delle persone che ci hanno lavorato per averli frequentati da vivi, solo qualche vecchio rammenta particolari in più.
Delle centinaia e centinaia di minatori che ci hanno lavorato, ne è rimasto in vita solo uno. Fra non molti anni della Miniera di Montechino rimarranno notizie frammentarie solo su pochissimi libri, destinati a essere letti da nessuno.
«Considera, del resto, la tua condizione: l'uomo oggi c'è e domani è scomparso; e quando è sottratto alla vista, rapidamente esce anche dalla memoria.» (I.d.C. lib. I, cap. XXIII, v. 48)
«Insomma, comunque destino è la morte; e passa rapidamente come un'ombra la vita umana. Chi si ricorderà di te, dopo che sarai scomparso, [...] Mantienti, su questa terra, come uno che è di passaggio; come un ospite, che non ha a che fare con le faccende di questo mondo.» (I.d.C. lib. I, cap. XXIII, v. 50)
«Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito.» (Qo 1,11)
(1) Giorgio Pasquali, Filologia e storia, Editore Le Monnier, Firenze, 1998, p. 57.
Antefatto
Foto sopra: Lino Bergonzi, fotografato nello Studio Poltronieri di Mantova durante il servizio militare di leva, 1908 (Archivio Antonio Bergonzi)
Se non ci fosse stata la guerra di Libia del 1911 quasi certamente la storia che segue non avrebbe potuto avverarsi. Il papà di Antonio era emigrato nel Regno Unito da giovanissimo e là si era stabilito. Per campare svolgeva il mestiere di “lanternaio”, una occupazione che non esiste più, ma che al tempo era ben considerata e ben pagata. Lino, questo era il suo nome, iniziava a lavorare all’imbrunire nelle strade di Liverpool, il suo compito era quello di accendere i lampioni a gas che avrebbero illuminato la città durante tutta la notte. Poi quando iniziava ad albeggiare procedeva con l’operazione opposta, spegnendo uno per uno tutti i lampioni accesi la sera prima. Era felice e gli piaceva la sua professione: se non altro doveva fare molta meno fatica fisica di quando lavorava la sua terra povera a Gropparello, ed era anche meglio remunerato. Ma la “bella vita” era destinata a finire presto: nel 1911 infatti ricevette la cartolina dal Ministero della Guerra italiano che lo convocava immediatamente in patria perché inserito nei contingenti delle truppe italiche che andavano a conquistare il “bel suol d’amore”.
Lino era nato l'8 maggio 1888 a Gropparello e svolse il servizio militare obbligatorio dall'ottobre 1908 all'ottobre 1910, presso il 3° Reggimento Artiglieria da fortezza (Brigata Piacenza). Al tempo il servizio di leva obbligatorio prevedeva la ferma di due anni. Dopo il servizio di leva partì per l'estero in cerca di fortuna.
Come detto fu richiamato alle armi neanche un anno dopo. E Lino si ripresentò al suo reggimento di appartenenza il 26 settembre 1911. Dopo qualche mese di preparazione lo considerarono pronto per la guerra, e il 26 gennaio 1912 si imbarcò a Napoli e partì, con il 10° Reggimento Artiglieria da Fortezza (Assedio), per la Tripolitania e Cirenaica. Dopo breve permanenza in terra africana rientrò il 24 aprile del 1912. Il 27 dello stesso mese venne mandato in congedo illimitato.
In seguito scoprì che di illimitato il suo congedo aveva ben poco, infatti il 10 maggio del 1915, nonostante fosse già capofamiglia con figli, si ritrovò di nuovo effettivo nel suo 10° Reggimento da Fortezza. Il 23 maggio dello stesso anno era già in zona di guerra. Il 26 giugno 1917 venne esonerato fino a nuovo ordine per legge e il 19 giugno 1919 lasciò il 10° Reggimento da Fortezza per una licenza illimitata. Stavolta era vero. La "fortuna" di papà Lino era stata nella sua arma di appartenenza: l'artiglieria. Gli artiglieri infatti erano coloro che sul campo di battaglia correvano minor rischi.
Ritornato illeso dalla guerra italo-turca del 1911-12 trovò moglie a Montechino e insieme, col tempo, misero in piedi una “famigliola” di otto figli: sei femmine e due maschi. Antonio, che nacque nel novembre del 1927 era il maschio secondogenito, il primo era Giovanni, classe 1924.
Lino era nato l'8 maggio 1888 a Gropparello e svolse il servizio militare obbligatorio dall'ottobre 1908 all'ottobre 1910, presso il 3° Reggimento Artiglieria da fortezza (Brigata Piacenza). Al tempo il servizio di leva obbligatorio prevedeva la ferma di due anni. Dopo il servizio di leva partì per l'estero in cerca di fortuna.
Come detto fu richiamato alle armi neanche un anno dopo. E Lino si ripresentò al suo reggimento di appartenenza il 26 settembre 1911. Dopo qualche mese di preparazione lo considerarono pronto per la guerra, e il 26 gennaio 1912 si imbarcò a Napoli e partì, con il 10° Reggimento Artiglieria da Fortezza (Assedio), per la Tripolitania e Cirenaica. Dopo breve permanenza in terra africana rientrò il 24 aprile del 1912. Il 27 dello stesso mese venne mandato in congedo illimitato.
In seguito scoprì che di illimitato il suo congedo aveva ben poco, infatti il 10 maggio del 1915, nonostante fosse già capofamiglia con figli, si ritrovò di nuovo effettivo nel suo 10° Reggimento da Fortezza. Il 23 maggio dello stesso anno era già in zona di guerra. Il 26 giugno 1917 venne esonerato fino a nuovo ordine per legge e il 19 giugno 1919 lasciò il 10° Reggimento da Fortezza per una licenza illimitata. Stavolta era vero. La "fortuna" di papà Lino era stata nella sua arma di appartenenza: l'artiglieria. Gli artiglieri infatti erano coloro che sul campo di battaglia correvano minor rischi.
Ritornato illeso dalla guerra italo-turca del 1911-12 trovò moglie a Montechino e insieme, col tempo, misero in piedi una “famigliola” di otto figli: sei femmine e due maschi. Antonio, che nacque nel novembre del 1927 era il maschio secondogenito, il primo era Giovanni, classe 1924.
Foto sopra: la famiglia di Lino Bergonzi al completo. Seconda fila in piedi da sinistra a destra: Giovanni, Maria, Jole e Pierina. In primo piano da sinistra a destra: Antonio, papà Lino, Adriana, mamma Ernesta che tiene in grembo l'ultima nata, Giuliana, e infine Lidia. Anno della ripresa:1937 (Archivio privato Pierlino Bergonzi)
La miniera entra in casa Bergonzi
Foto sopra: Miniera di Montechino anno 1935 (Archivio privato Luigi Buratti)
Papà Lino aveva trovato impiego presso la Miniera di Montechino. In quei tempi quasi ogni famiglia aveva un congiunto che lavorava direttamente in miniera o che faceva un lavoro strettamente collegato.
Verso la metà degli anni Quaranta papà Lino si ammalò gravemente e nel maggio del 1944 morì. In ottemperanza alle consuetudini sulle assunzioni dei minatori, quando moriva un capo famiglia il primogenito, se era in età di lavoro, veniva assunto al suo posto. Ricevuta la lettera di assunzione per il primogenito, la mamma Ernesta si presentò negli uffici della miniera con il figlio Antonio. Subito le contestarono che il primogenito non era lui, ma Giovanni. La santa donna pianse e riuscì infine a convincere il responsabile delle assunzioni a chiudere un occhio e assumere Antonio al posto di Giovanni.
Il fratello Giovanni non poteva davvero presentarsi per lavorare alla luce del sole, in quanto era renitente alla leva e come tale condannato a morte: dunque avrebbe rischiato la fucilazione. Nel febbraio del ‘44 era stata emessa una legge che dichiarava quelli nella sua posizione “fuorilegge” e furono tutti, d’ufficio, condannati a morte. Se presi dalle milizie fasciste potevano essere fucilati sul posto in quanto non occorreva nessun processo. Inoltre Giovanni era anche partigiano, un’altra posizione aggravante e pericolosissima. Se fosse stato arrestato non l’avrebbe sicuramente scampata. “Tobruk”, questo il suo nome di battaglia, si era arruolato con “i ribelli” della squadra del “Pipp” di Gropparello, un sergente maggiore dell’esercito che aveva anch’egli disertato e aveva formato la prima “banda” di partigiani con base sul Monte Santa Franca. In seguito il Pipp e i suoi uomini confluirono nella 38^ Brigata “Garibaldi” comandata da “Capitan Selva”, l’avvocato piacentino Vladimiro Bersani, ammazzato brutalmente a tradimento dai fascisti di Gropparello a Badagnano nel luglio del ‘44, in seguito a una soffiata di un abitante della Val Chero.
Una circostanza che rese ancor più triste i tempi già grevi d'ogni sofferenza: quando ci fu il funerale di suo padre, verso la fine di maggio, Giovanni portò a spalla la cassa al cimitero di Groppovisdomo con il mitra a tracolla, mentre altri della sua squadra facevano sicurezza controllando che non vi fossero tedeschi o fascisti in vista. Appena finita la cerimonia funebre via di corsa per raggiungere zone più sicure sui monti. Per piangere il babbo appena scomparso c’era tempo... Ora era il momento di agire, non poteva lasciarsi andare alle emozioni.
Infatti già ai primi giorni di giugno vengono attaccati dai ribelli i presidi fascisti di Montechino e dei Boccacci, dove vi era una postazione contraerea, 'i ciapa aeruplan', ma questi erano solo azioni per riscaldarsi, «il «Pipp» e i suoi uomini si concentrano sul vero obiettivo militare della complessa operazione di quei giorni: la caserma della GNR di via Marano. Il tentativo, però, fallisce. La mancanza di armamento pesante, la carenza di muni- zioni e la risoluta resistenza dei militi repubblicani rendono presto chiara ai partigiani l’impossibilità dell' impresa. Asserragliati nell' edificio, i fascisti non cedono. Non resta che abbandonare il campo e tornare alla base, sul Santa Franca». (1)
(1) Alessandro Pigazzini, 8 Agosto 1944, Gropparello nella Resistenza, Editore Le Piccole Pagine, 2016, p. 81
Verso la metà degli anni Quaranta papà Lino si ammalò gravemente e nel maggio del 1944 morì. In ottemperanza alle consuetudini sulle assunzioni dei minatori, quando moriva un capo famiglia il primogenito, se era in età di lavoro, veniva assunto al suo posto. Ricevuta la lettera di assunzione per il primogenito, la mamma Ernesta si presentò negli uffici della miniera con il figlio Antonio. Subito le contestarono che il primogenito non era lui, ma Giovanni. La santa donna pianse e riuscì infine a convincere il responsabile delle assunzioni a chiudere un occhio e assumere Antonio al posto di Giovanni.
Il fratello Giovanni non poteva davvero presentarsi per lavorare alla luce del sole, in quanto era renitente alla leva e come tale condannato a morte: dunque avrebbe rischiato la fucilazione. Nel febbraio del ‘44 era stata emessa una legge che dichiarava quelli nella sua posizione “fuorilegge” e furono tutti, d’ufficio, condannati a morte. Se presi dalle milizie fasciste potevano essere fucilati sul posto in quanto non occorreva nessun processo. Inoltre Giovanni era anche partigiano, un’altra posizione aggravante e pericolosissima. Se fosse stato arrestato non l’avrebbe sicuramente scampata. “Tobruk”, questo il suo nome di battaglia, si era arruolato con “i ribelli” della squadra del “Pipp” di Gropparello, un sergente maggiore dell’esercito che aveva anch’egli disertato e aveva formato la prima “banda” di partigiani con base sul Monte Santa Franca. In seguito il Pipp e i suoi uomini confluirono nella 38^ Brigata “Garibaldi” comandata da “Capitan Selva”, l’avvocato piacentino Vladimiro Bersani, ammazzato brutalmente a tradimento dai fascisti di Gropparello a Badagnano nel luglio del ‘44, in seguito a una soffiata di un abitante della Val Chero.
Una circostanza che rese ancor più triste i tempi già grevi d'ogni sofferenza: quando ci fu il funerale di suo padre, verso la fine di maggio, Giovanni portò a spalla la cassa al cimitero di Groppovisdomo con il mitra a tracolla, mentre altri della sua squadra facevano sicurezza controllando che non vi fossero tedeschi o fascisti in vista. Appena finita la cerimonia funebre via di corsa per raggiungere zone più sicure sui monti. Per piangere il babbo appena scomparso c’era tempo... Ora era il momento di agire, non poteva lasciarsi andare alle emozioni.
Infatti già ai primi giorni di giugno vengono attaccati dai ribelli i presidi fascisti di Montechino e dei Boccacci, dove vi era una postazione contraerea, 'i ciapa aeruplan', ma questi erano solo azioni per riscaldarsi, «il «Pipp» e i suoi uomini si concentrano sul vero obiettivo militare della complessa operazione di quei giorni: la caserma della GNR di via Marano. Il tentativo, però, fallisce. La mancanza di armamento pesante, la carenza di muni- zioni e la risoluta resistenza dei militi repubblicani rendono presto chiara ai partigiani l’impossibilità dell' impresa. Asserragliati nell' edificio, i fascisti non cedono. Non resta che abbandonare il campo e tornare alla base, sul Santa Franca». (1)
(1) Alessandro Pigazzini, 8 Agosto 1944, Gropparello nella Resistenza, Editore Le Piccole Pagine, 2016, p. 81
Immagine sopra: quotidiano di Piacenza "La Scure" del 20 febbraio 1944. Il fratello Giovanni aveva ottimi motivi per non farsi troppo vedere in pubblico: era stato condannato a morte. E non per scherzo! (Archivio Biblioteca Passerini Landi, Piacenza)
Continua...
Com’è noto riportando un testo da un programma di video scrittura su una pagina web i rischi che la formattazione impostata venga disattesa sono molto elevati e, di conseguenza, la quasi certezza di leggere uno scritto differente da quello originale.
Per questo motivo l’autore ha preferito rendere disponibile l’intero librino, composto da 63 pagine, nel più affidabile formato pdf, scaricabile premendo il pulsante qui sotto.
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Pagina pubblicata il 23 dicembre 2024