Il paracadutista di Saint Mère e la notte prima dello sbarco in Normandia
di Maurizio Pilotti
di Maurizio Pilotti
«Prima che veda l’alba di un nuovo giorno pianterò questo coltello nel cuore del bastardo nazista più schifoso che c’è in Europa!». Nell’hangar esplode un urlo possente e i 2mila paracadutisti in segno di risposta sguainano a loro volta il coltello che ogni parà porta sempre alla caviglia. Le lame, affilate con cura nelle lunghe ore d’attesa, aspettando il via libera all’operazione, lampeggiano nella
penombra.
Il colonnello “Jump” Johnson, che guida il 501esimo reggimento fanteria paracadutisti, ha ottenuto il suo scopo, in quella fredda sera del 5 giugno 1944: dare coraggio a quei ragazzi - molti non hanno neppure vent’anni - che stanno per lanciarsi dal cielo poche ore prima dello sbarco in Normandia.
Il colonnello Johnson, il tipo di comandante che ottiene il rispetto dei suoi soldati perché sembra uno di loro, era entrato nell’hangar in jeep. Ha tenuto il suo discorso rimanendo in piedi sul cofano. Forse voleva che tutti vedessero bene i due revolver con l’impugnatura di madreperla: li portava ai fianchi, da vero cowboy. Era pronto a usarli.
Ma non tutti i comandanti avevano quello stesso stile “flamboyant”. Il brigadier generale “Slim Jim” Gavin dell’82esima è forse il più misurato nel parlare ai suoi, usando un registro quasi paterno: «Ragazzi, quello che passerete nei prossimi giorni nel futuro non lo vorrete scambiare per un milione di dollari. Ma al tempo stesso non vorrete rifarlo, per nulla al mondo. Per la maggior parte di voi sarà il battesimo del fuoco. Ricordatevi che andate in battaglia per ammazzare, altrimenti sarete voi a essere ammazzati».
Un altro comandante decide invece di adottare la tattica dello shock. Rivolgendosi ai suoi paracadutisti allineati di fronte a lui, li invita a guardare «l’uomo alla vostra destra e poi quello alla vostra sinistra. Dopo una settimana in Normandia sarà vivo solo uno di voi tre». Anche così, dicendo le cose come stanno, si può ottenere il massimo dell’attenzione e della motivazione di quei giovani soldati entusiasti, ma inesperti.
Giovedì scorso è stato l’80esimo anniversario del D-Day, lo storico sbarco degli alleati sulle coste a nord-ovest della Francia il 6 giugno 1944, la più imponente operazione anfibia della storia bellica, la svolta tattica che segnò l’inizio della fine per il dominio nazista sull’Europa. Mille le celebrazioni ancora calorose e sentitissime, di popolo, tra palchi d’onore, autorità e i pochi veterani rimasti al mondo, quasi tutti centenari. I giornali e le tv hanno raccontato a profusione che cosa accadde in quel giorno.
Ma nessuno ha messo indietro le lancette del racconto di poche ore appena, alla sera del 5 giugno. Era quella l’ora dei preparativi per “l’invasione prima dell’invasione”, per chi doveva lanciarsi dietro le linee nemiche con l’obiettivo di disorientare il nemico, seminare il panico, costringere i nazisti a impegnare reparti nell’interno e quindi facilitare il compito di chi qualche ora dopo avrebbe dovuto prendersi quelle maledette cinque spiagge. Nomi in codice: Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword.
È una storia meno celebrata, quella dei 23mila paracadutisti alleati che si lanciarono nella notte del 5 giugno sulla Normandia: forse perché l’operazione avvenne nel buio, nel caos. Forse perché venne spezzettata in mille scaramucce e combattimenti corpo a corpo, nei boschi e negli acquitrini, tra agguati e colpi di mano, spesso usando quei coltellacci sfoderati nell’hangar davanti al discorso di “Jump” Johnson.
Altra storia quella dell’invasione via mare, con una dimensione epica, un dispiego di capacità tecnologica e logistica mai viste prima, con quei 130mila soldati imbarcati su 7mila navi e 10mila veicoli pronti a entrare in azione. Roba da far sembrare Salamina, Lepanto, Austerlitz, Waterloo, Gettysburg o Caporetto battaglie in miniatura. Un evento in “cinemascope” si sarebbe detto al cinema, che infatti sullo sbarco ha finito per costruire kolossal come “Il giorno più lungo” e poi “Salvate il soldato Ryan” o la serie “Band of Brothers”.
Di quei coraggiosi che affrontarono per primi la feroce reazione nazista si sa molto poco. Di sicuro pagarono un prezzo altissimo. Nella sola notte tra il 5 e il 6 giugno circa 3mila di loro morirono e 5mila rimasero feriti: il calcolo di quel comandante purtroppo era giusto.
Una storia simbolica sembra poter riassumere tutte le vicende di quella notte infernale e caotica: è la storia del paracadutista John Steele, passato alla storia come “il parà di Sainte Mère Eglise”.
John Steele era il classico “all american boy”, il ragazzo yankee destinato a una vita tranquilla. Nato nel 1912 in Illinois, in una cittadina che pomposamente si era data il nome di Metropolis malgrado i soli 6mila residenti, era figlio dell’America profonda, rurale. Primo di sette fratelli, le sue foto da giovane ci mostrano un sosia di Forrest Gump, con la stessa fronte alta e lo sguardo buono, un po’ bovino. Ma il fisico è atletico, temprato dal football dove dicono fosse una forza della natura. Si arruola subito dopo Pearl Harbour. Solido, sportivo, anche se un po’ stagionato - aveva già 29 anni - è il tipo ideale per i paracadutisti. Finirà a combattere con l’82esima divisione aviotrasportata nel 1943 in Nord Africa, e ora è pronto a lanciarsi coi suoi compagni sulla Normandia.
I paracadutisti sono gente strana, che ama sfidare l’ignoto e l’alea di un innaturale volo in caduta libera. In Normandia però si era al limite: l’equipaggiamento supplementare toccava i 45 chili, spesso c’era una pesantissima sacca legata con un cavo a una caviglia: per salire a bordo degli aerei i parà dovevano essere letteralmente sollevati di peso. Per il terrore di restare senza munizioni avevano tutti bandoliere di proiettili incrociate sul petto alla maniera di Pancho Villa. Borracce e zaini pieni all’inverosimile, perché non si sapeva quanto avrebbero dovuto combattere dietro le linee: un giorno, due, tre, per sempre? Gli elmetti mimetici avevano un kit di pronto soccorso fissato dietro con due fasce: conteneva otto pastiglie di sulfamidici e due mini-iniezioni di morfina, le cosiddette “syrettes”: «una per il dolore e due per l’eternità». E tutti speravano che non fossero necessarie né per il primo, né per la seconda.
Il C-47 Dakota con a bordo Steele e 15 compagni aveva come obiettivo Sainte Mère Eglise, piccolo villaggio normanno dieci chilometri nell’entroterra.
Quella notte, i piloti terrorizzati e disorientati dal muro di fuoco contraereo spesso anticiparono il lancio per sganciarsi in fretta, con la luce verde data al momento sbagliato. Tanti salteranno quando erano ancora sopra al mare: moriranno tutti annegati. Altri si troveranno a 20 chilometri dal punto di atterraggio previsto, finendo dispersi, a gruppetti e senza riferimenti Nel caso dell’aereo di Steele, l’errore fu minimo ma significativo: venne fatto lanciare esattamente sulla verticale di Sainte Mère Eglise. Un fienile del paese aveva preso fuoco, per cui provò a evitare di atterrare proprio tra le fiamme. Manovrando come poteva, mentre i nazisti gli sparavano contro - il “tiro al paracadutista” fu senza pietà quella notte, anche se la convenzione di Ginevra lo vietava - venne ferito a un piede. Finì per scendere sulla verticale della chiesa, un edificio in stile romanico del XVI secolo che domina la piazza. Il paracadute però si impigliò in uno dei gargoyle del campanile, lasciando il povero Steele appeso a quella guglia come un salame, inerme, i piedi nel vuoto a circa 15 metri da terra, mentre tutto intorno infuriava la battaglia. Non restava che una cosa da fare: si finse morto, sperando che a nessun nazi venisse in mente di sparare una raffica “di sicurezza” contro quell’impiccato al campanile. John rimase a occhi chiusi e con la testa a ciondoloni in quella poco invidiabile posizione per tre ore, fino a quando due soldati tedeschi non capirono che era ancora vivo: tagliarono le funi del paracadute di Steele e lo portarono al comando per interrogarlo. A molti suoi compagni quella notte andò peggio: vennero passati per le armi sul posto. Non era notte per fare prigionieri, quella, né su un fronte né sull’altro. Ma John-Forrest Gump quattro giorni dopo sfuggì al controllo delle guardie e corse a perdifiato, proprio come il suo futuro alter ego. Si fermò solo quando incontrò altri “boys” e riprese da dove lo avevano interrotto. La sua guerra non era ancora finita: dopo la Normandia combattè in Olanda, e tornò in Illinois - carico di medaglie - solo a settembre del 1945.
Si sposò, divorziò, si risposò. Finì a lavorare per una compagnia elettrica in North Carolina. La sua storia sarebbe rimasta un dettaglio in quella gigantesca Anabasi su quadrimotore se lo storico Cornelius Ryan non avesse ricostruito l’episodio del campanile nel suo libro “Il giorno più lungo”, trasferito poi pari pari in una delle scene più riuscite dell’omonimo film con John Wayne e Robert Mitchum, blockbuster hollywoodiano con tutti i pregi e i difetti del genere.
La storia di John Steele era presa ad esempio: un uomo comune, un “all american boy” qualsiasi, può trasformarsi in un eroe, se chiamato in azione per una causa giusta. John fu ospite d’onore alla prima a Londra, e si ritrovò a 18 anni di distanza da quella notte da paura nei panni della rockstar. Accolse con piacere la celebrità tardiva, non si negò ai giornalisti e ai fotografi, con quella bella faccia da Forrest Gump prima di Forrest Gump. Morì nel 1969, a soli 57 anni, portato via da un tumore alla gola. Avrebbe voluto essere seppellito coi suoi compagni uccisi a Sainte Mère Eglise, si è dovuto accontentare del cimitero di Metropolis, Illinois. Ma se andate in Normandia e visitate Sainte Mère - vale la pena: bel paesino, c’è un interessantissimo Airborne Museum da vedere - andate nella piazza, davanti alla chiesa, e alzate gli occhi: per ricordare John Steele vedrete il fantoccio di un paracadutista (è quello nella foto qui sopra) che penzola nel vuoto dal campanile, la tela del paracadute ancora impigliata nelle guglie. Lo cambiano due volte all’anno, perché la divisa si inzuppa e si rovina con le frequenti piogge normanne.
È come se John fosse sempre rimasto lì, a sorvegliare per tutti noi che i nazi non avanzino. Si sta fingendo morto, ma speriamo che se servisse sia pronto a scendere giù per tornare a combattere.
penombra.
Il colonnello “Jump” Johnson, che guida il 501esimo reggimento fanteria paracadutisti, ha ottenuto il suo scopo, in quella fredda sera del 5 giugno 1944: dare coraggio a quei ragazzi - molti non hanno neppure vent’anni - che stanno per lanciarsi dal cielo poche ore prima dello sbarco in Normandia.
Il colonnello Johnson, il tipo di comandante che ottiene il rispetto dei suoi soldati perché sembra uno di loro, era entrato nell’hangar in jeep. Ha tenuto il suo discorso rimanendo in piedi sul cofano. Forse voleva che tutti vedessero bene i due revolver con l’impugnatura di madreperla: li portava ai fianchi, da vero cowboy. Era pronto a usarli.
Ma non tutti i comandanti avevano quello stesso stile “flamboyant”. Il brigadier generale “Slim Jim” Gavin dell’82esima è forse il più misurato nel parlare ai suoi, usando un registro quasi paterno: «Ragazzi, quello che passerete nei prossimi giorni nel futuro non lo vorrete scambiare per un milione di dollari. Ma al tempo stesso non vorrete rifarlo, per nulla al mondo. Per la maggior parte di voi sarà il battesimo del fuoco. Ricordatevi che andate in battaglia per ammazzare, altrimenti sarete voi a essere ammazzati».
Un altro comandante decide invece di adottare la tattica dello shock. Rivolgendosi ai suoi paracadutisti allineati di fronte a lui, li invita a guardare «l’uomo alla vostra destra e poi quello alla vostra sinistra. Dopo una settimana in Normandia sarà vivo solo uno di voi tre». Anche così, dicendo le cose come stanno, si può ottenere il massimo dell’attenzione e della motivazione di quei giovani soldati entusiasti, ma inesperti.
Giovedì scorso è stato l’80esimo anniversario del D-Day, lo storico sbarco degli alleati sulle coste a nord-ovest della Francia il 6 giugno 1944, la più imponente operazione anfibia della storia bellica, la svolta tattica che segnò l’inizio della fine per il dominio nazista sull’Europa. Mille le celebrazioni ancora calorose e sentitissime, di popolo, tra palchi d’onore, autorità e i pochi veterani rimasti al mondo, quasi tutti centenari. I giornali e le tv hanno raccontato a profusione che cosa accadde in quel giorno.
Ma nessuno ha messo indietro le lancette del racconto di poche ore appena, alla sera del 5 giugno. Era quella l’ora dei preparativi per “l’invasione prima dell’invasione”, per chi doveva lanciarsi dietro le linee nemiche con l’obiettivo di disorientare il nemico, seminare il panico, costringere i nazisti a impegnare reparti nell’interno e quindi facilitare il compito di chi qualche ora dopo avrebbe dovuto prendersi quelle maledette cinque spiagge. Nomi in codice: Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword.
È una storia meno celebrata, quella dei 23mila paracadutisti alleati che si lanciarono nella notte del 5 giugno sulla Normandia: forse perché l’operazione avvenne nel buio, nel caos. Forse perché venne spezzettata in mille scaramucce e combattimenti corpo a corpo, nei boschi e negli acquitrini, tra agguati e colpi di mano, spesso usando quei coltellacci sfoderati nell’hangar davanti al discorso di “Jump” Johnson.
Altra storia quella dell’invasione via mare, con una dimensione epica, un dispiego di capacità tecnologica e logistica mai viste prima, con quei 130mila soldati imbarcati su 7mila navi e 10mila veicoli pronti a entrare in azione. Roba da far sembrare Salamina, Lepanto, Austerlitz, Waterloo, Gettysburg o Caporetto battaglie in miniatura. Un evento in “cinemascope” si sarebbe detto al cinema, che infatti sullo sbarco ha finito per costruire kolossal come “Il giorno più lungo” e poi “Salvate il soldato Ryan” o la serie “Band of Brothers”.
Di quei coraggiosi che affrontarono per primi la feroce reazione nazista si sa molto poco. Di sicuro pagarono un prezzo altissimo. Nella sola notte tra il 5 e il 6 giugno circa 3mila di loro morirono e 5mila rimasero feriti: il calcolo di quel comandante purtroppo era giusto.
Una storia simbolica sembra poter riassumere tutte le vicende di quella notte infernale e caotica: è la storia del paracadutista John Steele, passato alla storia come “il parà di Sainte Mère Eglise”.
John Steele era il classico “all american boy”, il ragazzo yankee destinato a una vita tranquilla. Nato nel 1912 in Illinois, in una cittadina che pomposamente si era data il nome di Metropolis malgrado i soli 6mila residenti, era figlio dell’America profonda, rurale. Primo di sette fratelli, le sue foto da giovane ci mostrano un sosia di Forrest Gump, con la stessa fronte alta e lo sguardo buono, un po’ bovino. Ma il fisico è atletico, temprato dal football dove dicono fosse una forza della natura. Si arruola subito dopo Pearl Harbour. Solido, sportivo, anche se un po’ stagionato - aveva già 29 anni - è il tipo ideale per i paracadutisti. Finirà a combattere con l’82esima divisione aviotrasportata nel 1943 in Nord Africa, e ora è pronto a lanciarsi coi suoi compagni sulla Normandia.
I paracadutisti sono gente strana, che ama sfidare l’ignoto e l’alea di un innaturale volo in caduta libera. In Normandia però si era al limite: l’equipaggiamento supplementare toccava i 45 chili, spesso c’era una pesantissima sacca legata con un cavo a una caviglia: per salire a bordo degli aerei i parà dovevano essere letteralmente sollevati di peso. Per il terrore di restare senza munizioni avevano tutti bandoliere di proiettili incrociate sul petto alla maniera di Pancho Villa. Borracce e zaini pieni all’inverosimile, perché non si sapeva quanto avrebbero dovuto combattere dietro le linee: un giorno, due, tre, per sempre? Gli elmetti mimetici avevano un kit di pronto soccorso fissato dietro con due fasce: conteneva otto pastiglie di sulfamidici e due mini-iniezioni di morfina, le cosiddette “syrettes”: «una per il dolore e due per l’eternità». E tutti speravano che non fossero necessarie né per il primo, né per la seconda.
Il C-47 Dakota con a bordo Steele e 15 compagni aveva come obiettivo Sainte Mère Eglise, piccolo villaggio normanno dieci chilometri nell’entroterra.
Quella notte, i piloti terrorizzati e disorientati dal muro di fuoco contraereo spesso anticiparono il lancio per sganciarsi in fretta, con la luce verde data al momento sbagliato. Tanti salteranno quando erano ancora sopra al mare: moriranno tutti annegati. Altri si troveranno a 20 chilometri dal punto di atterraggio previsto, finendo dispersi, a gruppetti e senza riferimenti Nel caso dell’aereo di Steele, l’errore fu minimo ma significativo: venne fatto lanciare esattamente sulla verticale di Sainte Mère Eglise. Un fienile del paese aveva preso fuoco, per cui provò a evitare di atterrare proprio tra le fiamme. Manovrando come poteva, mentre i nazisti gli sparavano contro - il “tiro al paracadutista” fu senza pietà quella notte, anche se la convenzione di Ginevra lo vietava - venne ferito a un piede. Finì per scendere sulla verticale della chiesa, un edificio in stile romanico del XVI secolo che domina la piazza. Il paracadute però si impigliò in uno dei gargoyle del campanile, lasciando il povero Steele appeso a quella guglia come un salame, inerme, i piedi nel vuoto a circa 15 metri da terra, mentre tutto intorno infuriava la battaglia. Non restava che una cosa da fare: si finse morto, sperando che a nessun nazi venisse in mente di sparare una raffica “di sicurezza” contro quell’impiccato al campanile. John rimase a occhi chiusi e con la testa a ciondoloni in quella poco invidiabile posizione per tre ore, fino a quando due soldati tedeschi non capirono che era ancora vivo: tagliarono le funi del paracadute di Steele e lo portarono al comando per interrogarlo. A molti suoi compagni quella notte andò peggio: vennero passati per le armi sul posto. Non era notte per fare prigionieri, quella, né su un fronte né sull’altro. Ma John-Forrest Gump quattro giorni dopo sfuggì al controllo delle guardie e corse a perdifiato, proprio come il suo futuro alter ego. Si fermò solo quando incontrò altri “boys” e riprese da dove lo avevano interrotto. La sua guerra non era ancora finita: dopo la Normandia combattè in Olanda, e tornò in Illinois - carico di medaglie - solo a settembre del 1945.
Si sposò, divorziò, si risposò. Finì a lavorare per una compagnia elettrica in North Carolina. La sua storia sarebbe rimasta un dettaglio in quella gigantesca Anabasi su quadrimotore se lo storico Cornelius Ryan non avesse ricostruito l’episodio del campanile nel suo libro “Il giorno più lungo”, trasferito poi pari pari in una delle scene più riuscite dell’omonimo film con John Wayne e Robert Mitchum, blockbuster hollywoodiano con tutti i pregi e i difetti del genere.
La storia di John Steele era presa ad esempio: un uomo comune, un “all american boy” qualsiasi, può trasformarsi in un eroe, se chiamato in azione per una causa giusta. John fu ospite d’onore alla prima a Londra, e si ritrovò a 18 anni di distanza da quella notte da paura nei panni della rockstar. Accolse con piacere la celebrità tardiva, non si negò ai giornalisti e ai fotografi, con quella bella faccia da Forrest Gump prima di Forrest Gump. Morì nel 1969, a soli 57 anni, portato via da un tumore alla gola. Avrebbe voluto essere seppellito coi suoi compagni uccisi a Sainte Mère Eglise, si è dovuto accontentare del cimitero di Metropolis, Illinois. Ma se andate in Normandia e visitate Sainte Mère - vale la pena: bel paesino, c’è un interessantissimo Airborne Museum da vedere - andate nella piazza, davanti alla chiesa, e alzate gli occhi: per ricordare John Steele vedrete il fantoccio di un paracadutista (è quello nella foto qui sopra) che penzola nel vuoto dal campanile, la tela del paracadute ancora impigliata nelle guglie. Lo cambiano due volte all’anno, perché la divisa si inzuppa e si rovina con le frequenti piogge normanne.
È come se John fosse sempre rimasto lì, a sorvegliare per tutti noi che i nazi non avanzino. Si sta fingendo morto, ma speriamo che se servisse sia pronto a scendere giù per tornare a combattere.
Note
Il presente articolo è stato pubblicato sul quotidiano Libertà in data 6 giugno 2024. Il Grac ringrazia l'Autore e il direttore Pietro Visconti per la gentile concessione.
Le immagini a corredo della pagina appartengono all'archivio di Arrigo Francani.
Pagina web pubblicata il 15 giugno 2014