21 dicembre 1970: il primo lancio
I ricordi di nonno Pierlino
di Pierlino Bergonzi
I ricordi di nonno Pierlino
di Pierlino Bergonzi
Notte insonne
Pisa, caserma Gamerra, Scuola Militare di Paracadutismo, 21 dicembre 1970. È notte fonda ma al primo piano della palazzina della 3ª compagnia, comandata dal capitano Zumpano, sono pochi gli allievi che dormono. Non si sente la solita sinfonia delle notti precedenti. Facciamo finta di dormire, ma nessuno ronfa, siamo tutti svegli. Fra poche ore ci porteranno con i camion in aeroporto e poi saliremo sul bimotore americano per il primo lancio. Per molti di noi il primo lancio coinciderà anche con il primo volo. Io sono fra questi. Sono giorni che cerco di immaginarmi come potrà essere la caduta nel vuoto. In palestra è vero ci hanno già dato un anticipo di cosa dobbiamo aspettarci come sensazioni fisiche e psicologiche. Ma le variabili sono molte e la certezza che accada tutto come descritto dagli istruttori potrebbe non corrispondere alla realtà. Buttarsi su un telone da nove metri o da una finta carlinga a 20 metri non è la stessa cosa che gettarsi fuori da un aereo che vola intorno ai 200 chilometri all’ora e ad altezze ben superiori. Mi immagino, lavorando di fantasia, di “precipitare” da terra verso il cielo, non potendo raffigurarmi il contrario per non aver mai volato. “Provo” e “riprovo” questa scena inventata nella mia mente per simulare la realtà che di lì a poco si sarebbe materializzata. Non saprei dire se questo auto-training mi stia dando qualche conforto, ma certamente mi aiuta a passare il tempo.
La sveglia in caserma è solitamente alle 6.30, ma quando si va ai lanci è anticipata di due ore. Alle 4.30 in punto il caporale Matcovik, il capo dell’11ª squadra, la nostra, del 3° plotone, squarcia il silenzio con le sue urla: “Sveglia, giù dalle brande, attenti”. Lui dorme nella nostra stessa camerata, la sua branda è l’unica singola, mentre noi allievi dormiamo in brande doppie messe una sull’altra, a castello. Il caporale, che arriva da una delle regioni di confine un tempo austro-ungariche, è sempre il primo a svegliarsi e al primo squillo di tromba inizia a urlare come un ossesso, intercalando ogni tre o quattro parole con un “dio musso”, forse per darsi maggior autorità. È un uomo dal cuore tenero e credo sia sostanzialmente un buono, ma nei comportamenti è veramente molto grezzo, o almeno così vuole apparire per dominare la sua timidezza.
Per i quasi tre mesi di addestramento il nostro risveglio è stato così: un turbamento psichico. Ti arrivano nelle orecchie queste parole in un italiano stentato, dure come lame, ad altissimi decibel, simili a delle schioppettate. E magari usasse solo il vocione, quasi tutti i giorni ribalta diverse brande di allievi che si fanno sorprendere ancora sdraiati quando lui passa davanti ai nostri letti. Personalmente ho sperimentato questo risveglio, altamente traumatico e anche pericoloso, diverse volte. Ho sempre avuto il sonno duro e una spiccata allergia a svegliarmi presto, e anche se mi sveglio a tempo debito mi piace crogiolarmi pochi minuti prima di saltare giù dal letto. Non l’ho mai fatta franca. L’inflessibile caposquadra mi ha sempre sorpreso e sbrandato con tempismo olimpico.
La sveglia per i ritardatari consiste nel prendere il loro letto a castello dalla parte dove hanno i piedi e tirarlo su in verticale roteandolo di 90 gradi verso l’alto, “metterlo sull’attenti”, come si dice. L’operazione non è alla portata di tutti in quanto occorre una certa forza perché si tratta di sollevare due persone e i vari zaini che sono agganciati ai tubi delle brande. Io non ce la faccio, ma per il nostro “energumeno” dai muscoli d’acciaio è uno scherzo. L’operazione non è priva di rischi: il soggetto che dorme o comunque è rilassato, improvvisamente viene alzato per i piedi dalla posizione orizzontale e poi cade a peso morto su se stesso come una corda, atterrando sulla testa, protetta solo, se nel trambusto non si è sganciato prima, dallo zaino tattico tenuto con gli spallacci alla testata del letto. Il rischio che ci si possa rompere l’osso del collo e morire è tutt’altro che remoto. Se non ci si ferisce mai seriamente è solo per il fatto che a vent’anni si è di gomma, ma ancor di più per la muscolatura super efficiente che ognuno di noi ha grazie ai continui allenamenti.
In ogni modo, la mattina del 21 dicembre 1970 all’agitato caporale Matcovik non viene data nessuna opportunità di ribaltare letti a castello in quanto siamo già tutti svegli, anzi non ci siamo mai addormentati. Al suo secondo urlo tutti gli allievi della camerata saltan giù dalle proprie brande come molle e sull’attenti aspettiamo che il caporale passi in rassegna. Un quarto d’ora dopo la sveglia ci siamo già lavati, sbarbati, vestiti e siamo tutti inquadrati sul piazzale della 3ª compagnia. Matcovik fa un appello super veloce: ci siamo tutti. Di corsa (sarebbe inutile dirlo, ma i trasferimenti avvenivano solo di corsa) ci spostiamo fino al piazzale davanti al refettorio. Siamo i primi, come sempre. Orgoglio del caporale montanaro, e anche nostro che gli stiamo dietro. Per dirla tutta non credo che in tutta la scuola ci sia un caposquadra così dedicato ai suoi uomini come il nostro. Noi lo percepiamo e gli siamo riconoscenti. Insomma è sì un rompiscatole ma per un buon fine; noi gli vogliamo bene e lo teniamo in altissima considerazione. Se Matcovik ci dicesse che saremmo capaci di abbattere una parete con la testa gli crederemmo.
Torniamo al piazzale della mensa: alla spicciolata arrivano man mano anche tutte le altre squadre. I cucinieri aprono le porte del grande refettorio e in breve tempo ci serviamo di ogni ben di Dio messo a nostra disposizione. Ritorniamo quindi sempre inquadrati e sempre di corsa, senza canti né urla data l’ora, ai rispettivi piazzali dove gli autocarri già pronti ci aspettano per portarci in aeroporto
Tutti a bordo, si parte in direzione San Giusto. Ci portano con decine di automezzi. Viaggiamo su camion dai cassoni aperti, solo il tetto è protetto dal telone tenuto dalle centine; e visto che è inverno e l’ora è quella esatta per la temperatura minima, non è proprio una soddisfazione sentire il vento gelido che ti avvolge. L’unica difesa è stare rannicchiati e vicini l’un l’altro. Ma nessuno si lamenta, siamo tutti troppo presi dall’emozione di “come sarà”…
La sveglia in caserma è solitamente alle 6.30, ma quando si va ai lanci è anticipata di due ore. Alle 4.30 in punto il caporale Matcovik, il capo dell’11ª squadra, la nostra, del 3° plotone, squarcia il silenzio con le sue urla: “Sveglia, giù dalle brande, attenti”. Lui dorme nella nostra stessa camerata, la sua branda è l’unica singola, mentre noi allievi dormiamo in brande doppie messe una sull’altra, a castello. Il caporale, che arriva da una delle regioni di confine un tempo austro-ungariche, è sempre il primo a svegliarsi e al primo squillo di tromba inizia a urlare come un ossesso, intercalando ogni tre o quattro parole con un “dio musso”, forse per darsi maggior autorità. È un uomo dal cuore tenero e credo sia sostanzialmente un buono, ma nei comportamenti è veramente molto grezzo, o almeno così vuole apparire per dominare la sua timidezza.
Per i quasi tre mesi di addestramento il nostro risveglio è stato così: un turbamento psichico. Ti arrivano nelle orecchie queste parole in un italiano stentato, dure come lame, ad altissimi decibel, simili a delle schioppettate. E magari usasse solo il vocione, quasi tutti i giorni ribalta diverse brande di allievi che si fanno sorprendere ancora sdraiati quando lui passa davanti ai nostri letti. Personalmente ho sperimentato questo risveglio, altamente traumatico e anche pericoloso, diverse volte. Ho sempre avuto il sonno duro e una spiccata allergia a svegliarmi presto, e anche se mi sveglio a tempo debito mi piace crogiolarmi pochi minuti prima di saltare giù dal letto. Non l’ho mai fatta franca. L’inflessibile caposquadra mi ha sempre sorpreso e sbrandato con tempismo olimpico.
La sveglia per i ritardatari consiste nel prendere il loro letto a castello dalla parte dove hanno i piedi e tirarlo su in verticale roteandolo di 90 gradi verso l’alto, “metterlo sull’attenti”, come si dice. L’operazione non è alla portata di tutti in quanto occorre una certa forza perché si tratta di sollevare due persone e i vari zaini che sono agganciati ai tubi delle brande. Io non ce la faccio, ma per il nostro “energumeno” dai muscoli d’acciaio è uno scherzo. L’operazione non è priva di rischi: il soggetto che dorme o comunque è rilassato, improvvisamente viene alzato per i piedi dalla posizione orizzontale e poi cade a peso morto su se stesso come una corda, atterrando sulla testa, protetta solo, se nel trambusto non si è sganciato prima, dallo zaino tattico tenuto con gli spallacci alla testata del letto. Il rischio che ci si possa rompere l’osso del collo e morire è tutt’altro che remoto. Se non ci si ferisce mai seriamente è solo per il fatto che a vent’anni si è di gomma, ma ancor di più per la muscolatura super efficiente che ognuno di noi ha grazie ai continui allenamenti.
In ogni modo, la mattina del 21 dicembre 1970 all’agitato caporale Matcovik non viene data nessuna opportunità di ribaltare letti a castello in quanto siamo già tutti svegli, anzi non ci siamo mai addormentati. Al suo secondo urlo tutti gli allievi della camerata saltan giù dalle proprie brande come molle e sull’attenti aspettiamo che il caporale passi in rassegna. Un quarto d’ora dopo la sveglia ci siamo già lavati, sbarbati, vestiti e siamo tutti inquadrati sul piazzale della 3ª compagnia. Matcovik fa un appello super veloce: ci siamo tutti. Di corsa (sarebbe inutile dirlo, ma i trasferimenti avvenivano solo di corsa) ci spostiamo fino al piazzale davanti al refettorio. Siamo i primi, come sempre. Orgoglio del caporale montanaro, e anche nostro che gli stiamo dietro. Per dirla tutta non credo che in tutta la scuola ci sia un caposquadra così dedicato ai suoi uomini come il nostro. Noi lo percepiamo e gli siamo riconoscenti. Insomma è sì un rompiscatole ma per un buon fine; noi gli vogliamo bene e lo teniamo in altissima considerazione. Se Matcovik ci dicesse che saremmo capaci di abbattere una parete con la testa gli crederemmo.
Torniamo al piazzale della mensa: alla spicciolata arrivano man mano anche tutte le altre squadre. I cucinieri aprono le porte del grande refettorio e in breve tempo ci serviamo di ogni ben di Dio messo a nostra disposizione. Ritorniamo quindi sempre inquadrati e sempre di corsa, senza canti né urla data l’ora, ai rispettivi piazzali dove gli autocarri già pronti ci aspettano per portarci in aeroporto
Tutti a bordo, si parte in direzione San Giusto. Ci portano con decine di automezzi. Viaggiamo su camion dai cassoni aperti, solo il tetto è protetto dal telone tenuto dalle centine; e visto che è inverno e l’ora è quella esatta per la temperatura minima, non è proprio una soddisfazione sentire il vento gelido che ti avvolge. L’unica difesa è stare rannicchiati e vicini l’un l’altro. Ma nessuno si lamenta, siamo tutti troppo presi dall’emozione di “come sarà”…
continua...
Com’è noto riportando un testo da un programma di video scrittura su una pagina web i rischi che la formattazione impostata venga disattesa sono molto elevati e, di conseguenza, la quasi certezza di leggere uno scritto differente da quello originale.
Per questo motivo l’autore ha preferito rendere disponibile l’intero librino, il numero 4 della collana "I ricordi di nonno Pierlino", composto da 75 pagine, nel più affidabile formato pdf, scaricabile al sottostante link.
Per questo motivo l’autore ha preferito rendere disponibile l’intero librino, il numero 4 della collana "I ricordi di nonno Pierlino", composto da 75 pagine, nel più affidabile formato pdf, scaricabile al sottostante link.

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Pagina pubblicata il 19 settembre 2023