Il primo volo della Liberazione di Alberto Magnani
Pier Salvatori, partigiano della 118^ Brigata Garibaldi Servadei, nell’agosto del 1945 diede alle stampe un libro di ricordi sulla Resistenza appena conclusa[1]. Tra le vicende rievocate, ne spicca una significativa non tanto dal punto di vista militare, ma per il suo valore simbolico: il primo volo della Liberazione. Racconta Salvatori che, durante l’insurrezione finale, il partigiano pilota Alfredo Ramelli decollò con un trimotore S.79 dalla pista di Vergiate, sorvolò una colonna tedesca in ritirata e lasciò cadere una pioggia di volantini inneggianti all’Italia liberata. Lo stesso Ramelli, poche ore dopo il rientro, rimase ucciso in uno scontro armato[2].
L’impresa del trimotore <<dalle ali tinte di rosso>> e la tragica fine del giovane Ramelli avevano certo suggestionato i partigiani della brigata e gli abitanti della zona. La notizia dell’episodio giunse alle orecchie anche di Cino Moscatelli e di Pietro Secchia, che, nel Monterosa è sceso a Milano, menzionano il volo di <<un trimotore Saiman 202>>, addirittura sui cieli di Milano[3]. In realtà, il Saiman 202 non è un trimotore, ma un piccolo aereo da turismo con una sola elica: evidentemente, nella memoria il volo di Ramelli si era sovrapposto a un avvenimento distinto.
Da sempre, la tradizione orale modifica le circostanze reali. Il volo del trimotore e la morte di Ramelli sono fatti autentici, ma non si svolsero esattamente nei termini descritti da Pier Salvatori: ciò non ha impedito che la sua versione sopravviva tuttora nella storiografia[4] e sia approdata persino ai siti web[5]. Solo negli ultimi anni, grazie soprattutto alle ricerche dello storico Giovanni Di Bella, sono emersi elementi che permettono una più precisa ricostruzione dei fatti.
In primo luogo, va notato che il protagonista dell’episodio si chiamava Alberto Ramelli e non Alfredo. Era nato a Cunardo, un paese situato fra il Lago Maggiore e quello di Lugano, il 15 marzo 1923. Abitava a Sesto Calende, insieme alla madre, Angela Lanfranconi; il padre, Luigi, era morto[6]. Ramelli apparteneva alla Servadei da due mesi, durante i quali era stato <<uno dei più attivi partigiani di questo periodo>>[7]. Da una fotografia, scattata forse a Sesto Calende il 25 aprile, appare che Ramelli era stato ferito a una mano.
Quel giorno, Alberto Ramelli partecipò, probabilmente, alla liberazione della città. A Sesto Calende si insediò un Comitato di Liberazione Nazionale e un analogo organismo assunse il controllo delle industrie aeronautiche della SIAI-Marchetti. L’idea di organizzare il <<volo della Liberazione>> prese forma, presumibilmente, in queste ore.
Lo scopo era evidente: celebrare la Liberazione e dimostrare che i partigiani assumevano persino il controllo del cielo. Ciò aveva precise implicazioni ideologiche, in quanto infrangeva il mito, caro al Regime, del dominio dei cieli assicurato dall’aviazione, creatura e arma prediletta del fascismo[8]. Dunque si ricollegava, pur in una dimensione minore e indipendentemente dalla consapevolezza che potevano averne gli ideatori, alla tradizione dei raid antifascisti degli anni Trenta, quando Bassanesi e De Bosis avevano sorvolato Milano e Roma, lasciandovi cadere volantini antifascisti[9].
Non sappiamo chi ideò l’impresa. Di certo, vi diede un contributo decisivo l’ingegner Alessandro Marchetti, consigliere delegato unico della SIAI e progettista aeronautico tra i più importanti del Novecento. Marchetti collaborava da tempo con la Resistenza, che, da parte sua, tutelava la sicurezza della sua fabbrica[10]. Marchetti, del resto, aveva a sua disposizione tutti i mezzi necessari all’impresa: l’aereo, la pista e il pilota.
La tradizione vuole che quest’ultimo fosse, appunto, Ramelli. Tale versione appare però poco convincente: un volo del genere esigeva un pilota consumato, in grado di valutare rischi e pericoli, nonché di padroneggiare un apparecchio, difficile da pilotare, quale il trimotore S.79. Si tratta di caratteristiche che mal si adattano a Ramelli, descritto come un giovane coraggioso e generoso, ma impulsivo e inesperto[11], mentre corrispondono al profilo di chi realmente era ai comandi dell’aereo: il capitano Aldo Moggi.
Moggi aveva trentasette anni ed era un professionista del volo: ferito di guerra, pluridecorato, nel 1943 era stato in forza presso la Direzione costruzioni aeronautiche di Bologna come collaudatore, passando poi alla SIAI: tra il 1943 e il 1944, aveva pilotato i prototipi degli S.M. 91 e 92, apparecchi di concezione più avanzata tra quanti progettati dall’ingegner Marchetti. Ma Moggi si era fatto conoscere anche in altri ambienti, in particolare in quello del cinema. Nel 1938 era sul set della celebre pellicola Luciano Serra pilota, con Amedeo Nazzari, trasportando in aereo la troupe durante le riprese girate in Etiopia[12]; nel 1942 era stato consulente di Roberto Rossellini per la realizzazione del film di propaganda Un pilota ritorna[13]. Dunque, paradossalmente, Moggi aveva impersonato e contribuito ad alimentare il mito dell’aeronautica fascista.
Alberto Ramelli, comunque, era a bordo dell’S.79 e a lui, forse, s’aggiunse qualche altro partigiano[14], con il compito di lanciare i volantini, operazione che non poteva essere svolta dal pilota. Tutte le testimonianze concordano sul fatto che l’aereo fosse un trimotore S.79, il più celebre, forse, tra i quarantuno progetti realizzati dall’ingegner Marchetti. Alcune parti del trimotore – le ali o la coda – era state verniciate in rosso, per chiarirne l’appartenenza alle forze della Resistenza[15].
L’aereo potrebbe aver spiccato un primo volo già nella giornata del 25 aprile, dirigendosi verso Arona, come afferma Elso Varalli, per controllare i movimenti dei tedeschi in ritirata[16]. Tale notizia è plausibile: forse, dopo questo tentativo iniziale, conclusosi positivamente, maturò l’idea di organizzare un secondo volo, con il lancio di volantini: il <<volo della Liberazione>> vero e proprio.
Le truppe forse osservate dall’S.79 provenivano dall’Ossola, dal Cusio e dall’alto Verbano. Avevano costituito una colonna – chiamata, dal nome del comandante <<Colonna Stamm>>-, che, quel giorno, si trovava a Meina. Tale colonna, forte di circa milleottocento uomini, con armi pesanti e alcuni mezzi corazzati, includeva militi della Repubblica Sociale, guidati da Ajmone Finestra e trascinava con sé partigiani catturati e civili in qualità di ostaggi. Il 26 aprile, la colonna occupò Arona. I partigiani della Servadei, allora, si schierarono sulla linea Tre Strade-Dormelletto-Comignago per fonteggiarla[17].
A questo punto, durante la mattinata, secondo la testimonianza del partigiano Ermanno Grisoni Italo, nel cielo piovoso comparve l’S.79:
Quella stessa mattina del 26 aprile è passato a volo radente un S.79, con la coda dipinta di rosso, pilotato dal capitano Moggi, ma i partigiani, non avendo capito che si trattava di un aereo amico, lo hanno inizialmente mitragliato, sforacchiandolo, fortunatamente senza abbatterlo, vista la sua struttura poco consistente. Solo dopo aver visto che lanciava volantini si sono accorti che era dei nostri[18].
Questa testimonianza si riferisce allo stesso volo ricordato da Pier Salvatori, che, dunque, potrebbe essere stato il secondo. Salvatori aggiunge che i partigiani avrebbero esposto un tricolore alle Tre Strade, per segnalare la loro posizione. L’aereo avrebbe poi sorvolato la Colonna Tedesca, sparando alcune raffiche di mitragliatrice – particolare poco convincente, che non trova ulteriori conferme[19]. Lanciati i volantini, l’S.79 rientrò a Vergiate. Presumibilmente Moggi compì un volo di breve durata: i rischi di essere preso di mira dalla contraerea erano consistenti, e aggravati dalla possibilità del <<fuoco amico>>. Un trimotore era subito associato all’aviazione fascista (che aveva una base di S.79 proprio nelle vicinanze, a Lonate Pozzolo[20]) e il peggio sarebbe stato incappare in qualche caccia angloamericano[21].
Poche ore dopo, si consumava la tragedia di Alberto Ramelli. Secondo Salvatori, il giovane partigiano sarebbe rientrato nei ranghi della Servadei ritornando a piedi da Vergiate. Il comando della brigata avrebbe avuto intenzione di utilizzare l’aereo per bombardare la Colonna Stamm e il giovane doveva ricevere istruzioni in merito[22]; intercettato dai tedeschi, sarebbe caduto in un conflitto a fuoco.
In realtà, pare non vi siano dubbi sul fatto che Ramelli venne fucilato. Nel corso della mattinata, la Colonna Stamm era avanzata oltre Arona. I partigiani tentarono allora di parlamentare: don Luigi Madonini, parroco di Sesto Calende, si offrì come mediatore e Ramelli volle accompagnarlo. I due partirono in auto verso le posizioni tedesche. Più tardi, don Madonini tornò, solo. Il sacerdote, scrive il Fortina, <<comunica, con voce commossa, che il povero Ramelli è stato fucilato dai tedeschi.>>[23]
Secondo quanto riferì don Madonini, Ramelli aveva commesso l’errore di presentarsi alla trattativa armato. I tedeschi trovarono anche un mitra sull’automobile e ordinarono subito di passarlo per le armi. Lo stesso sacerdote fu minacciato, ma rimediò solo qualche ceffone; poi gli venne concesso di assistere il giovane prima dell’esecuzione. Ramelli si confessò e rivelò a don Madonini che la propria fidanzata era incinta: lo pregava di intervenire perché la sua paternità venisse riconosciuta. La condanna fu eseguita intorno alle 15[24].
Il sacrificio di Ramelli fece di lui l’eroe di quell’impresa; e l’esser stato a bordo dell’aereo bastò perché, nella memoria collettiva, lo si identificasse direttamente con chi lo aveva pilotato, secondo un meccanismo già notato in altre situazioni simili[25].
Naufragata ogni possibile trattativa, la Brigata Servadei arretrò, portandosi verso Novara per congiungersi alle altre formazioni di Moscatelli. Questi, tuttavia, ordinò che ritornasse a nord, in modo da non offrire un fianco scoperto alla Colonna Stamm[26]. Le forze della Resistenza, intanto, assumevano progressivamente il controllo del territorio, mentre i reparti tedeschi sempre più spesso negoziavano o, addirittura, si arrendevano. Il morale dei soldati della colonna cominciava a cedere. A ciò aveva contribuito certamente anche l’apparizione dell’aereo: se i partigiani prendevano persino il dominio dell’aria, voleva dire che era proprio finita!
La Colonna Stamm, infatti, si sfaldò. Il grosso attraversò il Ticino a Oleggio e prese la strada per Milano, ma la metropoli, ormai, era stata liberata. I tedeschi si fermarono a Busto Arsizio, dove, il 28, deposero le armi. L’altro troncone, invece, raggiunse Novara e riparò in una caserma periferica, in cui si erano arroccati altri reparti; e qui attese l’arrivo degli Alleati[27].
Anche la Servadei attraversò il Ticino, insieme ad altre formazioni, che, il 27, occuparono l’aeroporto di Lonate Pozzolo. In questo contesto dovrebbe collocarsi l’episodio che Moscatelli e Secchia confonderanno poi con il volo di Moggi e Ramelli, cioè il decollo di un altro aereo (presumibilmente un Saiman 202) <<sotto le cui ali era scritto Valsesia e che successivamente lancerà manifestini con il saluto dei garibaldini valsesiani ai milanesi.>>[28]
L’autore desidera ringraziare quanti hanno contribuito alla ricerca: Giovanni Di Bella, Angelo Emiliani, Sara Lorenzetti, Patrizia Marini e l’ANPI di Arona, Lorenzo Morganti.
[1] Pier Salvatori, A posto siamo, Milano, Vitagliano, 1945.
[2] Salvatori, A posto siamo cit., p. 111.
[3] Pietro Secchia-Vincenzo Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, Torino, Einaudi, 1958, pp. 644-45.
[4] Per esempio in Enrico Massara, Antologia dell’Antifascismo e della Resistenza novarese. Uomini ed episodi della guerra di Liberazione, Novara, Grafica Novarese, 1984, p. 557.
[5] L’ho ritrovata in resistenzaunita.ism.it e www.puntaemazzetta.net ove compare una foto di Ramelli.
[6] Archivio Istituto Piero Fornara, elenco nominativo partigiani, Brigata Servadei.
[7] Gian Antonio Fortina, Uomini liberi, Bellinzago, La Grafica, 1965.
[8] Una sintesi della questione in Marco Di Giovanni, L’aviazione e i miti del fascismo, in L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, a cura di Paolo Ferrari, Milano, Franco Angeli, 2004.
[9] Franco Fucci, Ali contro Mussolini. I raid antifascisti degli anniTtrenta, Milano, Mursia, 1978, p. 7. Le motivazioni di Bassanesi e De Bosis coincidevano, sostanzialmente, con quelle del volo di cui ci stiamo occupando. Ai loro raid, Fucci aggiunge quello, non realizzato, di Giordano Viezzoli, che si collegò a un analogo progetto in Spagna, promosso da Ramòn Franco, fratello del futuro dittatore, all’epoca fervente repubblicano. Su tale vicenda, mi permetto di rinviare a: Alberto Magnani, Ramòn Franco e gli antifascisti italiani, <<I sentieri della ricerca>>, dicembre 2007.
[10] Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, vol. 3, a cura di Claudio Pavone, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 364.
[11] Fortina, Uomini liberi cit., p. 69.
[12] Come abbiamo fatto Luciano Serra pilota, <<Film>>, 6 agosto 1938.
[13] Stefano Masi-Enrico Lancia, I film di Roberto Rossellini, Roma, Gremese, 1987, pp. 14-15.
[14] Elso Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza, Sesto Calende, ANPI, 1985, p. 66. L’autore cita in particolare il nome di Antonio Brusa, riferendosi poi genericamente ad <<altri>>. E’ comunque da ritenere che Moggi non accettasse troppi passeggeri a bordo, per non appesantire l’apparecchio e garantire una maggior manovrabilità.
[15] Se l’aereo in origine portava i contrassegni dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana, si può pensare che questi fossero coperti da fasce rosse, un po’ come avevano fatto i repubblicani spagnoli con gli emblemi nazionali nel 1931 (e le fasce rosse rimasero poi come contrassegno repubblicano). Le testimonianze parlano anche di una tinteggiatura di rosso sulla coda: qui, gli aerei dei fascisti di Salò non portavano simboli del Fascio, ma solo una bandiera tricolore; potrebbe però essere stato dipinto di rosso il timone, dove, tradizionalmente, la Regia Aeronautica poneva la croce bianca della monarchia.
[16] Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza cit., p. 66.
[17] Archivio Istituto “Piero Fornara”, Fondo Ciro, 39, f. 27, Relazione operativa dal 20 aprile 1945 al 4 maggio 1945.
[18] Testimonianze e ricordi. Dormelletto. 60° anniversario della Liberazione (1945-2005), a cura di Giovanni Di Bella, Comune di Dormelletto 2005, p. 69.
[19] Salvatori, A posto siamo cit., p. 111. Nei magazzini della SIAI vi erano alcune mitragliatrici, come riferisce Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza cit., p. 66, ma il trimotore non era adatto ad azioni di attacco al suolo, che potevano risultare estremamente rischiose.
[20] Vi si trovava il Gruppo Aerosiluranti <<Faggioni>>, comandato da Marino Marini. Colgo l’occasione per citare un curioso episodio: Luigi Puricelli, un comandante partigiano delle formazioni di pianura, aveva lavorato come operaio nella base, compiendo azioni di sabotaggio; individuato dai tedeschi, rischiò l’arresto, ma fu aiutato a mettersi in salvo proprio da Marino Marini. Questo, almeno, secondo quanto raccontò lo stesso Puricelli in un’intervista resa nell’aprile del 1994.
[21] E’ stato più volte dimostrato che i contrassegni degli aerei non venivano identificati facilmente né da terra, né in cielo, e comunque le fasce rosse non corrispondevano ad alcun emblema ufficiale. Gli stessi partigiani non vi fecero infatti caso, prima del lancio dei volantini. Gli aviatori alleati, poi, non riconoscevano neppure i contrassegni dell’Aviazione Nazionale Repubblicana, credendo sempre si trattasse di aerei tedeschi.
[22] Può darsi che qualcuno pensasse di utilizzare l’aereo contro la colonna; tuttavia, per le stesse ragioni già in precedenza richiamate (cfr. nota 19), è improbabile che un’azione del genere si concretizzasse.
[23] Fortina, Uomini liberi cit., p. 68.
[24] Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza cit., pp. 67-68. Nella stessa giornata, i tedeschi avevano fucilato altri due partigiani, anch’essi, sembra, avvicinatisi per parlamentare.
[25] Cesare Roda, partigiano nei GAP milanesi, aveva combattuto in Spagna con i repubblicani, prestando servizio in aviazione come mitragliere. La tradizione ne fece un pilota: cfr. Cesare Roda: un leggendario pilota dell’aviazione repubblicana spagnola, <<La Gazzetta di Mantova>>, 12 dicembre 1980.
[26] Il comando della zona Valsesia al comando generale CVL, relazione in data 4 maggio 1945, in Le Brigate Garibaldi cit., p. 708. Cfr. Relazione operativa dal 20 aprile 1945 al 4 maggio cit.
[27] Testimonianze e ricordi. Dormelletto cit., pp. 30-31.
[28] Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 333. Il volo sarebbe avvenuto il 28 aprile.
L’impresa del trimotore <<dalle ali tinte di rosso>> e la tragica fine del giovane Ramelli avevano certo suggestionato i partigiani della brigata e gli abitanti della zona. La notizia dell’episodio giunse alle orecchie anche di Cino Moscatelli e di Pietro Secchia, che, nel Monterosa è sceso a Milano, menzionano il volo di <<un trimotore Saiman 202>>, addirittura sui cieli di Milano[3]. In realtà, il Saiman 202 non è un trimotore, ma un piccolo aereo da turismo con una sola elica: evidentemente, nella memoria il volo di Ramelli si era sovrapposto a un avvenimento distinto.
Da sempre, la tradizione orale modifica le circostanze reali. Il volo del trimotore e la morte di Ramelli sono fatti autentici, ma non si svolsero esattamente nei termini descritti da Pier Salvatori: ciò non ha impedito che la sua versione sopravviva tuttora nella storiografia[4] e sia approdata persino ai siti web[5]. Solo negli ultimi anni, grazie soprattutto alle ricerche dello storico Giovanni Di Bella, sono emersi elementi che permettono una più precisa ricostruzione dei fatti.
In primo luogo, va notato che il protagonista dell’episodio si chiamava Alberto Ramelli e non Alfredo. Era nato a Cunardo, un paese situato fra il Lago Maggiore e quello di Lugano, il 15 marzo 1923. Abitava a Sesto Calende, insieme alla madre, Angela Lanfranconi; il padre, Luigi, era morto[6]. Ramelli apparteneva alla Servadei da due mesi, durante i quali era stato <<uno dei più attivi partigiani di questo periodo>>[7]. Da una fotografia, scattata forse a Sesto Calende il 25 aprile, appare che Ramelli era stato ferito a una mano.
Quel giorno, Alberto Ramelli partecipò, probabilmente, alla liberazione della città. A Sesto Calende si insediò un Comitato di Liberazione Nazionale e un analogo organismo assunse il controllo delle industrie aeronautiche della SIAI-Marchetti. L’idea di organizzare il <<volo della Liberazione>> prese forma, presumibilmente, in queste ore.
Lo scopo era evidente: celebrare la Liberazione e dimostrare che i partigiani assumevano persino il controllo del cielo. Ciò aveva precise implicazioni ideologiche, in quanto infrangeva il mito, caro al Regime, del dominio dei cieli assicurato dall’aviazione, creatura e arma prediletta del fascismo[8]. Dunque si ricollegava, pur in una dimensione minore e indipendentemente dalla consapevolezza che potevano averne gli ideatori, alla tradizione dei raid antifascisti degli anni Trenta, quando Bassanesi e De Bosis avevano sorvolato Milano e Roma, lasciandovi cadere volantini antifascisti[9].
Non sappiamo chi ideò l’impresa. Di certo, vi diede un contributo decisivo l’ingegner Alessandro Marchetti, consigliere delegato unico della SIAI e progettista aeronautico tra i più importanti del Novecento. Marchetti collaborava da tempo con la Resistenza, che, da parte sua, tutelava la sicurezza della sua fabbrica[10]. Marchetti, del resto, aveva a sua disposizione tutti i mezzi necessari all’impresa: l’aereo, la pista e il pilota.
La tradizione vuole che quest’ultimo fosse, appunto, Ramelli. Tale versione appare però poco convincente: un volo del genere esigeva un pilota consumato, in grado di valutare rischi e pericoli, nonché di padroneggiare un apparecchio, difficile da pilotare, quale il trimotore S.79. Si tratta di caratteristiche che mal si adattano a Ramelli, descritto come un giovane coraggioso e generoso, ma impulsivo e inesperto[11], mentre corrispondono al profilo di chi realmente era ai comandi dell’aereo: il capitano Aldo Moggi.
Moggi aveva trentasette anni ed era un professionista del volo: ferito di guerra, pluridecorato, nel 1943 era stato in forza presso la Direzione costruzioni aeronautiche di Bologna come collaudatore, passando poi alla SIAI: tra il 1943 e il 1944, aveva pilotato i prototipi degli S.M. 91 e 92, apparecchi di concezione più avanzata tra quanti progettati dall’ingegner Marchetti. Ma Moggi si era fatto conoscere anche in altri ambienti, in particolare in quello del cinema. Nel 1938 era sul set della celebre pellicola Luciano Serra pilota, con Amedeo Nazzari, trasportando in aereo la troupe durante le riprese girate in Etiopia[12]; nel 1942 era stato consulente di Roberto Rossellini per la realizzazione del film di propaganda Un pilota ritorna[13]. Dunque, paradossalmente, Moggi aveva impersonato e contribuito ad alimentare il mito dell’aeronautica fascista.
Alberto Ramelli, comunque, era a bordo dell’S.79 e a lui, forse, s’aggiunse qualche altro partigiano[14], con il compito di lanciare i volantini, operazione che non poteva essere svolta dal pilota. Tutte le testimonianze concordano sul fatto che l’aereo fosse un trimotore S.79, il più celebre, forse, tra i quarantuno progetti realizzati dall’ingegner Marchetti. Alcune parti del trimotore – le ali o la coda – era state verniciate in rosso, per chiarirne l’appartenenza alle forze della Resistenza[15].
L’aereo potrebbe aver spiccato un primo volo già nella giornata del 25 aprile, dirigendosi verso Arona, come afferma Elso Varalli, per controllare i movimenti dei tedeschi in ritirata[16]. Tale notizia è plausibile: forse, dopo questo tentativo iniziale, conclusosi positivamente, maturò l’idea di organizzare un secondo volo, con il lancio di volantini: il <<volo della Liberazione>> vero e proprio.
Le truppe forse osservate dall’S.79 provenivano dall’Ossola, dal Cusio e dall’alto Verbano. Avevano costituito una colonna – chiamata, dal nome del comandante <<Colonna Stamm>>-, che, quel giorno, si trovava a Meina. Tale colonna, forte di circa milleottocento uomini, con armi pesanti e alcuni mezzi corazzati, includeva militi della Repubblica Sociale, guidati da Ajmone Finestra e trascinava con sé partigiani catturati e civili in qualità di ostaggi. Il 26 aprile, la colonna occupò Arona. I partigiani della Servadei, allora, si schierarono sulla linea Tre Strade-Dormelletto-Comignago per fonteggiarla[17].
A questo punto, durante la mattinata, secondo la testimonianza del partigiano Ermanno Grisoni Italo, nel cielo piovoso comparve l’S.79:
Quella stessa mattina del 26 aprile è passato a volo radente un S.79, con la coda dipinta di rosso, pilotato dal capitano Moggi, ma i partigiani, non avendo capito che si trattava di un aereo amico, lo hanno inizialmente mitragliato, sforacchiandolo, fortunatamente senza abbatterlo, vista la sua struttura poco consistente. Solo dopo aver visto che lanciava volantini si sono accorti che era dei nostri[18].
Questa testimonianza si riferisce allo stesso volo ricordato da Pier Salvatori, che, dunque, potrebbe essere stato il secondo. Salvatori aggiunge che i partigiani avrebbero esposto un tricolore alle Tre Strade, per segnalare la loro posizione. L’aereo avrebbe poi sorvolato la Colonna Tedesca, sparando alcune raffiche di mitragliatrice – particolare poco convincente, che non trova ulteriori conferme[19]. Lanciati i volantini, l’S.79 rientrò a Vergiate. Presumibilmente Moggi compì un volo di breve durata: i rischi di essere preso di mira dalla contraerea erano consistenti, e aggravati dalla possibilità del <<fuoco amico>>. Un trimotore era subito associato all’aviazione fascista (che aveva una base di S.79 proprio nelle vicinanze, a Lonate Pozzolo[20]) e il peggio sarebbe stato incappare in qualche caccia angloamericano[21].
Poche ore dopo, si consumava la tragedia di Alberto Ramelli. Secondo Salvatori, il giovane partigiano sarebbe rientrato nei ranghi della Servadei ritornando a piedi da Vergiate. Il comando della brigata avrebbe avuto intenzione di utilizzare l’aereo per bombardare la Colonna Stamm e il giovane doveva ricevere istruzioni in merito[22]; intercettato dai tedeschi, sarebbe caduto in un conflitto a fuoco.
In realtà, pare non vi siano dubbi sul fatto che Ramelli venne fucilato. Nel corso della mattinata, la Colonna Stamm era avanzata oltre Arona. I partigiani tentarono allora di parlamentare: don Luigi Madonini, parroco di Sesto Calende, si offrì come mediatore e Ramelli volle accompagnarlo. I due partirono in auto verso le posizioni tedesche. Più tardi, don Madonini tornò, solo. Il sacerdote, scrive il Fortina, <<comunica, con voce commossa, che il povero Ramelli è stato fucilato dai tedeschi.>>[23]
Secondo quanto riferì don Madonini, Ramelli aveva commesso l’errore di presentarsi alla trattativa armato. I tedeschi trovarono anche un mitra sull’automobile e ordinarono subito di passarlo per le armi. Lo stesso sacerdote fu minacciato, ma rimediò solo qualche ceffone; poi gli venne concesso di assistere il giovane prima dell’esecuzione. Ramelli si confessò e rivelò a don Madonini che la propria fidanzata era incinta: lo pregava di intervenire perché la sua paternità venisse riconosciuta. La condanna fu eseguita intorno alle 15[24].
Il sacrificio di Ramelli fece di lui l’eroe di quell’impresa; e l’esser stato a bordo dell’aereo bastò perché, nella memoria collettiva, lo si identificasse direttamente con chi lo aveva pilotato, secondo un meccanismo già notato in altre situazioni simili[25].
Naufragata ogni possibile trattativa, la Brigata Servadei arretrò, portandosi verso Novara per congiungersi alle altre formazioni di Moscatelli. Questi, tuttavia, ordinò che ritornasse a nord, in modo da non offrire un fianco scoperto alla Colonna Stamm[26]. Le forze della Resistenza, intanto, assumevano progressivamente il controllo del territorio, mentre i reparti tedeschi sempre più spesso negoziavano o, addirittura, si arrendevano. Il morale dei soldati della colonna cominciava a cedere. A ciò aveva contribuito certamente anche l’apparizione dell’aereo: se i partigiani prendevano persino il dominio dell’aria, voleva dire che era proprio finita!
La Colonna Stamm, infatti, si sfaldò. Il grosso attraversò il Ticino a Oleggio e prese la strada per Milano, ma la metropoli, ormai, era stata liberata. I tedeschi si fermarono a Busto Arsizio, dove, il 28, deposero le armi. L’altro troncone, invece, raggiunse Novara e riparò in una caserma periferica, in cui si erano arroccati altri reparti; e qui attese l’arrivo degli Alleati[27].
Anche la Servadei attraversò il Ticino, insieme ad altre formazioni, che, il 27, occuparono l’aeroporto di Lonate Pozzolo. In questo contesto dovrebbe collocarsi l’episodio che Moscatelli e Secchia confonderanno poi con il volo di Moggi e Ramelli, cioè il decollo di un altro aereo (presumibilmente un Saiman 202) <<sotto le cui ali era scritto Valsesia e che successivamente lancerà manifestini con il saluto dei garibaldini valsesiani ai milanesi.>>[28]
L’autore desidera ringraziare quanti hanno contribuito alla ricerca: Giovanni Di Bella, Angelo Emiliani, Sara Lorenzetti, Patrizia Marini e l’ANPI di Arona, Lorenzo Morganti.
[1] Pier Salvatori, A posto siamo, Milano, Vitagliano, 1945.
[2] Salvatori, A posto siamo cit., p. 111.
[3] Pietro Secchia-Vincenzo Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, Torino, Einaudi, 1958, pp. 644-45.
[4] Per esempio in Enrico Massara, Antologia dell’Antifascismo e della Resistenza novarese. Uomini ed episodi della guerra di Liberazione, Novara, Grafica Novarese, 1984, p. 557.
[5] L’ho ritrovata in resistenzaunita.ism.it e www.puntaemazzetta.net ove compare una foto di Ramelli.
[6] Archivio Istituto Piero Fornara, elenco nominativo partigiani, Brigata Servadei.
[7] Gian Antonio Fortina, Uomini liberi, Bellinzago, La Grafica, 1965.
[8] Una sintesi della questione in Marco Di Giovanni, L’aviazione e i miti del fascismo, in L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, a cura di Paolo Ferrari, Milano, Franco Angeli, 2004.
[9] Franco Fucci, Ali contro Mussolini. I raid antifascisti degli anniTtrenta, Milano, Mursia, 1978, p. 7. Le motivazioni di Bassanesi e De Bosis coincidevano, sostanzialmente, con quelle del volo di cui ci stiamo occupando. Ai loro raid, Fucci aggiunge quello, non realizzato, di Giordano Viezzoli, che si collegò a un analogo progetto in Spagna, promosso da Ramòn Franco, fratello del futuro dittatore, all’epoca fervente repubblicano. Su tale vicenda, mi permetto di rinviare a: Alberto Magnani, Ramòn Franco e gli antifascisti italiani, <<I sentieri della ricerca>>, dicembre 2007.
[10] Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, vol. 3, a cura di Claudio Pavone, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 364.
[11] Fortina, Uomini liberi cit., p. 69.
[12] Come abbiamo fatto Luciano Serra pilota, <<Film>>, 6 agosto 1938.
[13] Stefano Masi-Enrico Lancia, I film di Roberto Rossellini, Roma, Gremese, 1987, pp. 14-15.
[14] Elso Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza, Sesto Calende, ANPI, 1985, p. 66. L’autore cita in particolare il nome di Antonio Brusa, riferendosi poi genericamente ad <<altri>>. E’ comunque da ritenere che Moggi non accettasse troppi passeggeri a bordo, per non appesantire l’apparecchio e garantire una maggior manovrabilità.
[15] Se l’aereo in origine portava i contrassegni dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana, si può pensare che questi fossero coperti da fasce rosse, un po’ come avevano fatto i repubblicani spagnoli con gli emblemi nazionali nel 1931 (e le fasce rosse rimasero poi come contrassegno repubblicano). Le testimonianze parlano anche di una tinteggiatura di rosso sulla coda: qui, gli aerei dei fascisti di Salò non portavano simboli del Fascio, ma solo una bandiera tricolore; potrebbe però essere stato dipinto di rosso il timone, dove, tradizionalmente, la Regia Aeronautica poneva la croce bianca della monarchia.
[16] Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza cit., p. 66.
[17] Archivio Istituto “Piero Fornara”, Fondo Ciro, 39, f. 27, Relazione operativa dal 20 aprile 1945 al 4 maggio 1945.
[18] Testimonianze e ricordi. Dormelletto. 60° anniversario della Liberazione (1945-2005), a cura di Giovanni Di Bella, Comune di Dormelletto 2005, p. 69.
[19] Salvatori, A posto siamo cit., p. 111. Nei magazzini della SIAI vi erano alcune mitragliatrici, come riferisce Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza cit., p. 66, ma il trimotore non era adatto ad azioni di attacco al suolo, che potevano risultare estremamente rischiose.
[20] Vi si trovava il Gruppo Aerosiluranti <<Faggioni>>, comandato da Marino Marini. Colgo l’occasione per citare un curioso episodio: Luigi Puricelli, un comandante partigiano delle formazioni di pianura, aveva lavorato come operaio nella base, compiendo azioni di sabotaggio; individuato dai tedeschi, rischiò l’arresto, ma fu aiutato a mettersi in salvo proprio da Marino Marini. Questo, almeno, secondo quanto raccontò lo stesso Puricelli in un’intervista resa nell’aprile del 1994.
[21] E’ stato più volte dimostrato che i contrassegni degli aerei non venivano identificati facilmente né da terra, né in cielo, e comunque le fasce rosse non corrispondevano ad alcun emblema ufficiale. Gli stessi partigiani non vi fecero infatti caso, prima del lancio dei volantini. Gli aviatori alleati, poi, non riconoscevano neppure i contrassegni dell’Aviazione Nazionale Repubblicana, credendo sempre si trattasse di aerei tedeschi.
[22] Può darsi che qualcuno pensasse di utilizzare l’aereo contro la colonna; tuttavia, per le stesse ragioni già in precedenza richiamate (cfr. nota 19), è improbabile che un’azione del genere si concretizzasse.
[23] Fortina, Uomini liberi cit., p. 68.
[24] Varalli, Sesto Calende dal fascismo alla Resistenza cit., pp. 67-68. Nella stessa giornata, i tedeschi avevano fucilato altri due partigiani, anch’essi, sembra, avvicinatisi per parlamentare.
[25] Cesare Roda, partigiano nei GAP milanesi, aveva combattuto in Spagna con i repubblicani, prestando servizio in aviazione come mitragliere. La tradizione ne fece un pilota: cfr. Cesare Roda: un leggendario pilota dell’aviazione repubblicana spagnola, <<La Gazzetta di Mantova>>, 12 dicembre 1980.
[26] Il comando della zona Valsesia al comando generale CVL, relazione in data 4 maggio 1945, in Le Brigate Garibaldi cit., p. 708. Cfr. Relazione operativa dal 20 aprile 1945 al 4 maggio cit.
[27] Testimonianze e ricordi. Dormelletto cit., pp. 30-31.
[28] Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 333. Il volo sarebbe avvenuto il 28 aprile.
Nota: il presente saggio è stato pubblicato sulla rivista di storia contemporanea "L'Impegno" nel giugno 2013.
Il Grac ringrazia l'Autore e l'Editore per la gentile concessione.
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