Tre ponti a Pavia, le incursioni aeree del settembre
1944 e la distruzione del Ponte Vecchio di Pavia (1)
di Alberto Magnani
di Alberto Magnani
Negli ultimi decenni, la storiografia ha incominciato a occuparsi più a fondo dei bombardamenti cui furono sottoposte le città italiane durante la Seconda Guerra Mondiale. Maggiore attenzione è stata accordata ai bombardamenti strategici effettuati sulle grandi città tra il 1940 e il 1943, mentre meno trattato appare il periodo 1943-1945, quando vennero effettuate incursioni di portata più limitata, ma con conseguenze ugualmente drammatiche[2].
Le incursioni sulla città di Pavia dei giorni 4 e 5 settembre 1944, per esempio, compiute con l’obiettivo di rendere inagibili i ponti sul Ticino, lasciarono un’impronta profonda sulla memoria collettiva dei pavesi. Le bombe fuori bersaglio provocarono un elevato numero di vittime civili; tra l’altro, venne distrutto lo storico Ponte Vecchio, gioiello dell’architettura medievale e simbolo della città. Tuttavia, tali eventi non sono stati particolarmente analizzati in sede storiografica[3].
La recente possibilità di accedere, attraverso i mezzi informatici, a una vasta documentazione di provenienza statunitense, apre ora nuove prospettive alla ricerca, permettendo di tentare una ricostruzione dei fatti più completa, nella quale possano integrarsi le opposte prospettive di chi sganciava le bombe, e di chi le riceveva[4].
Di particolare interesse è il diario personale del caporale Irving Schaffer[5]: nato nel 1917 a New York da una famiglia ebraica, Schaffer volava come mitragliere a bordo di un B-25 ed era inoltre addetto alla radio, nonchè incaricato di scattare fotografie sugli obiettivi. Il suo diario si compone di una serie di annotazioni telegrafiche, che offrono una successione di immagini della sua giornata. Schaffer era appena stato assegnato al 321° BG e compì su Pavia, rispettivamente, la seconda e la terza missione della sua carriera, che giungerà ad annoverarne sessantacinque[6].
Le incursioni sulla città di Pavia dei giorni 4 e 5 settembre 1944, per esempio, compiute con l’obiettivo di rendere inagibili i ponti sul Ticino, lasciarono un’impronta profonda sulla memoria collettiva dei pavesi. Le bombe fuori bersaglio provocarono un elevato numero di vittime civili; tra l’altro, venne distrutto lo storico Ponte Vecchio, gioiello dell’architettura medievale e simbolo della città. Tuttavia, tali eventi non sono stati particolarmente analizzati in sede storiografica[3].
La recente possibilità di accedere, attraverso i mezzi informatici, a una vasta documentazione di provenienza statunitense, apre ora nuove prospettive alla ricerca, permettendo di tentare una ricostruzione dei fatti più completa, nella quale possano integrarsi le opposte prospettive di chi sganciava le bombe, e di chi le riceveva[4].
Di particolare interesse è il diario personale del caporale Irving Schaffer[5]: nato nel 1917 a New York da una famiglia ebraica, Schaffer volava come mitragliere a bordo di un B-25 ed era inoltre addetto alla radio, nonchè incaricato di scattare fotografie sugli obiettivi. Il suo diario si compone di una serie di annotazioni telegrafiche, che offrono una successione di immagini della sua giornata. Schaffer era appena stato assegnato al 321° BG e compì su Pavia, rispettivamente, la seconda e la terza missione della sua carriera, che giungerà ad annoverarne sessantacinque[6].
Perché Pavia?
In primo luogo, occorre collocare le incursioni contro i ponti di Pavia nel quadro della strategia della guerra aerea in Italia[7]. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, i grandi bombardamenti di carattere terroristico sulle città cessarono, sostituiti da una serie di incursioni contro obiettivi di interesse militare. I piani degli Alleati prevedevano di provocare il collasso delle forze tedesche in Italia paralizzando il flusso dei rifornimenti e i trasporti nelle retrovie: applicato nell’Italia Centrale, il piano, a partire dalla primavera del 1944, fu esteso alla Valle del Po[8].
Stazioni, ferrovie, strade, ponti venivano attaccati da bombardieri medi e/o cacciabombardieri. Questi ultimi, poi, liberatisi del carico di bombe, passavano alla <<caccia libera>>, mitragliando tutto ciò che si muoveva lungo le strade. Inevitabile, dunque, che, prima o poi, i ponti di Pavia entrassero nel mirino degli apparati di puntamento dei bombardieri. Il ponte ferroviario era collocato sulla importante linea Milano-Genova, mentre i due ponti stradali svolgevano un’altrettanto fondamentale funzione di collegamento tra Lombardia, Piemonte e Liguria, e poco importava che uno di quei ponti fosse un monumento risalente al 1354.
I comandi militari tanto statunitensi, quanto inglesi, si ponevano il problema di non infierire sul patrimonio storico-artistico della Penisola, ma <<non furono tuttavia mai disposti a mettere gli obiettivi militari in secondo piano rispetto alla salvaguardia dell’arte>>[9], come, del resto, avrebbe fatto qualsiasi esercito al loro posto. Le eccezioni, inoltre, potevano al limite valere per centri storico-artistici di fama mondiale, come Roma o Venezia. Non poteva certo beneficiarne il Ponte Vecchio, anzi il <<ponte stradale ovest>> di Pavia, come recitavano i rapporti dell’aviazione degli Stati Uniti.
Pavia si presentava vulnerabile di fronte all’imminente offensiva dal cielo. La protezione antiaerea era pressochè inesistente[10]: nessun bombardiere venne abbattuto sui cieli della città durante le incursioni di settembre. Le segnalazioni circa gli avvistamenti di aerei giungevano telefonicamente da Milano, e solo allora venivano azionate le sirene di allarme.
Nei mesi tra aprile e settembre si trattò quasi sempre di stormi di passaggio. Capitava che la sirena suonasse quando gli apparecchi stavano già sorvolando la città, oppure senza che si vedesse alcuna ala all’orizzonte. Ciò provocò una certa sfiducia nell’efficacia dei sistemi di allarme, mentre serpeggiavano voci circa una negligenza perseguita volontariamente dalle stesse autorità[11].
Intanto il tempo passava, senza che si verificassero incursioni gravi[12]. Caddero bombe soprattutto durante la notte, probabilmente sganciate da apparecchi che erano stati attirati da qualche luce[13]. Gli allarmi divenivano sempre più frequenti, ripetendosi più volte al giorno. La gente cominciava ad assuefarsi e molti rimanevano per le strade a osservare il passaggio degli aerei, fenomeno riscontrato un po’ dovunque in Italia, persino quando le incursioni avvenivano davvero.
I bombardamenti suscitavano <<un’insana curiosità>>[14], né mancava chi si procurava qualche scheggia di bomba da conservare alla stregua di un souvenir. Frequenti i casi di bambini e ragazzi che si ferivano maneggiando ordigni inesplosi, originando la leggenda – del tutto infondata[15] – di <<matite esplosive>> o bombe a forma di giocattolo, costruite appositamente per attirarli[16].
Chi erano gli uomini che bombardarono Pavia?
IL caporale Irving Schaffer il 4 settembre 1944 era membro dell'equipaggio a bordo del B-25 No. 43-27706 "Silver Belle", il suo compito era mitragliere e addetto alla radio, nonchè incaricato di scattare fotografie sugli obiettivi.
Foto a sinistra: Irving a fianco della sua mitraglia. Foto sopra: l'equipaggio prima di lasciare gli Stati Uniti nell'agosto 1944, da sinistra a destra: Schaffer, Smith, Taylor, Crisp, Difluvio e Fisher. Foto sotto: gli emblemi del 321st Bomb Group e degli Squadroni di volo che lo costituivano. |
La propaganda dell’epoca parlava genericamente di <<angloamericani>>, ma, più spesso, li definiva <<angloassassini>> o <<gangster dell’aria>>. Di fatto, gli aerei inglesi non ebbero alcuna parte nei bombardamenti del settembre 1944, condotti dall’aviazione degli Stati Uniti. Il colpo di grazia al Ponte Vecchio, infine, fu assestato dai francesi che combattevano nelle forze della Francia Libera di Charles De Gaulle.
Le incursioni del 4 e del 5 settembre vennero effettuate da bombardieri del 321° Bomber Group (BG), con base a Solenzara, in Corsica. Gli aviatori che volarono su Pavia erano giovani tra i venti e i venticinque anni, provenienti da tutte le classi sociali e da diversi Stati dell’Unione. Appartenevano alle più varie componenti etniche del melting pot americano, come rivelano i loro cognomi, di origine inglese, irlandese, slava, ispanica; né mancano oriundi italiani e tedeschi[17]. C’era il figlio del professionista e il meccanico, chi aveva frequentato il college e chi aveva lasciato la scuola per la fabbrica. Erano sorretti da quella sorta di religione di Stato che, negli USA, è il patriottismo, ma, più ancora, dalla vitalità giovanile e dallo spirito di avventura[18].
In generale, la loro condizione si poteva dire fortunata, in rapporto a quella di altri aviatori su altri fronti. Le loro basi erano in Corsica e in Sardegna: le missioni si succedevano a ritmo serrato, ma erano di breve durata e il rischio di vedersela con i caccia avversari era pressochè nullo: i tedeschi avevano ritirato in Germania quasi tutta la propria aviazione, lasciando il compito di difendere i cieli italiani all’Aeronautica della Repubblica Sociale, povera di mezzi e carburante. L’unico pericolo serio era rappresentato dalle batterie contraeree, appostate in prossimità degli obiettivi o sparpagliate lungo le possibili rotte.
I comandi cercavano di concedere momenti ricreativi agli aviatori, promuovendo attività sportive o escursioni sulle montagne della Corsica. Brevi licenze potevano essere utilizzate per compiere gite a Roma, Napoli o Capri. Gli aviatori erano certo consapevoli di condurre una vita differente, per esempio, dai loro commilitoni che, dalle Puglie, volavano per ore su quadrimotori sino in Germania, dove venivano accolti da barriere di fuoco contraereo e sciami di caccia. Tuttavia erano pur sempre uomini in guerra, esposti a rischi inferiori ma non inesistenti. Dalla documentazione emerge che, anche nei giorni delle incursioni su Pavia, le loro preoccupazioni principali erano cavarsela, sopravvivere se finivano in territorio nemico, ricongiungersi alle famiglie lasciate in un altro continente, e che la guerra finisse al più presto.
Quanto ai loro aerei, le incursioni del settembre 1944 vennero condotte da bimotori B-25 Mitchell. Senza entrare in dettagli tecnici, possiamo notare che il B-25 fu uno dei migliori bombardieri medi della guerra, in grado di trasportare un carico di 1340 chilogrammi di bombe. L’equipaggio previsto era di sette uomini (pilota, copilota, navigatore, puntatore e tre mitraglieri).
I francesi volarono invece su bimotori B-26 Marauder, tecnicamente simili ai B-25, ma in genere meno apprezzati dagli equipaggi. Le bombe utilizzate erano prevalentemente di tipo comune (GP, General Purpose), del peso di circa mezzo quintale; alcune, le RDX (Research Department Explosive), erano al plastico.
Gli aerei si disponevano in formazioni chiamate box, con un aereo-guida in posizione avanzata. La manovra d’attacco iniziava da un Punto d’Inizio (IP, initial point), a una certa distanza dall’obiettivo: nel caso specifico, a est di Pavia. Nel corso dell’attacco, il puntatore, dalla postazione di prua, indicava al pilota le correzioni di rotta per portarsi sull’obiettivo e impartiva l’ordine di sgancio. Per fare ciò, si serviva di un apparecchio di puntamento, chiamato, dal nome del suo ideatore, Norden; un apparecchio all’epoca piuttosto avanzato, ma, di fatto, in grado di assicurare una precisione relativa: si poteva considerare un buon risultato se almeno metà delle bombe finiva entro un raggio di quattrocento metri dal bersaglio.
L’incursione di lunedì 4 settembre 1944
Foto sopra: Pavia, riprese USAAF, lunedì 4 settembre 1944
La prima incursione sui ponti pavesi, quella che, forse, più rimase impressa nella cittadinanza, lasciò poche tracce nei ricordi degli aviatori americani. Si trattò di un milk run, una <<corsa per consegnare il latte>>, come in gergo si chiamava una missione rapida e tranquilla. La visibilità era ottima, nessun cannone contraereo si fece sentire.
L’incursione venne condotta da una cinquantina di B-25 appartenenti a tutti e quattro gli stormi del 321° BG[19] (445°, 446°, 447°, 448°). In base al diario di Irving Schaffer, sappiamo che la sveglia avvenne poco dopo le sei. Gli aviatori consumarono una colazione a base di <<pane francese tostato, marmellata d’arance, caffè>>, quindi ebbe luogo il briefing, la riunione in cui venivano impartite le istruzioni e indicati gli obiettivi: <<tre ponti a Pavia>>, annoterà Schaffer. Completate le operazioni preliminari, poco dopo le nove gli aerei decollarono. Giunsero a destinazione in un’ora e mezza. L’allarme suonò alle 10.37.
Un falso allarme, iniziato alle 8.45, si era appena concluso, alle 10.25. Non dovettero essere in molti a prendere sul serio la sirena, quandò suonò di nuovo dodici minuti dopo. Almeno sino a quando nel cielo limpido non si videro volteggiare gli aerei. Renzo Chiappini, un testimone che si trovava a Borgo Ticino, il sobborgo a sud del Ponte Vecchio, ricorderà che molti presenti sorridevano della sua paura. Chiappini vide <<un primo stormo, che, all’altezza di qualche migliaio di metri, iniziava a girare per la prima volta compiendo un’ampia circonferenza sulla città.>>[20]
Gli aerei, infatti, girarono attorno a Pavia e si allontanarono verso est, portandosi sino al Punto d’Inizio. Qui virarono di nuovo e puntarono in linea retta verso l’obiettivo. Poco dopo le 11.00, da un’altitudine intorno ai tremila metri, le ondate di B-25, una dietro l’altra, sganciarono circa duecento bombe. <<Vidi nel cielo brillare tante piccole luci>>, continua Chiappini, <<che scendevano secondo una linea piuttosto obliqua>>.
Chiappini corse immediatamente verso il più vicino rifugio. Alle sue spalle, <<un’esplosione, che fece tremare tutta l’area del Borgo e la città>>, sollevò un’immensa nube di polvere. Polvere e calcinacci raggiunsero Chiappini sull’entrata. Altri pavesi correvano verso i rifugi: molti si erano attardati, dubitando che avvenisse davvero un bombardamento[21]; qualcuno era rimasto a guardare gli aerei che calavano.
Avveniva anche che dai rifugi delle case private venissero esclusi i passanti che si trovavano nei pressi: accadde ad alcune donne in piazza del Municipio, che cercarono riparo nel rifugio di una palazzina e furono lasciate fuori[22]. Le persone accalcate nei rifugi, mentre si stringevano, si rannicchiavano, pregavano, udivano <<i sibili che accompagnavano le bombe nella loro caduta, prima lontani e mano a mano sempre più forti>>[23].
I B-25 completarono lo sgancio nel giro di pochi minuti. Gli aviatori erano riusciti a distinguere <<diversi colpi a segno>>[24]. Le successive ricognizioni accerteranno che una particolare concentrazione di bombe era finita <<sull’area d’accesso meridionale del ponte stradale est>>. Quest’area includeva una decina di case, poste sia a destra che a sinistra del ponte, in Borgo Ticino. Case abitate, che crollarono o si incendiarono[25].
Quando il rombo dei motori si spense in lontananza, la polvere avvolse ancora per un po’ di tempo i punti colpiti. Il ponte ferroviario era stato gravemente devastato, il Ponte dell’Impero era inagibile, in quanto un’intera arcata era crollata. Il Ponte Vecchio aveva subito gravi danni, ma era in piedi. Per quanto riguarda la zona di Borgo Ticino coinvolta, la stampa segnalò che <<le bombe hanno distrutto totalmente quattro case e parzialmente due altre in via Milazzo; totalmente: due case in via dei Mille, due in viale Bianca Visconti e due in via Ponte Vecchio. Inoltre lo spostamento d’aria ha provocato danni in alcuni casi molto gravi a tredici case di via dei Mille, a quattro di via Milazzo, a una di via Rocchetta, a una di viale Oberdan e a sette case di via Salara. Il vuoto d’aria verificatosi in conseguenza delle esplosioni ha pure provocato danni in alcuni appartamenti del centro, ove tra l’altro sono stati frantumati numerosi vetri, mentre in taluni luoghi vi è stata una pioggia di scheggie di bombe ancora infuocate.>>[26]
Le condizioni atmosferiche erano ottimali, infatti i <<danni collaterali>> erano rimasti entro il raggio di quattrocento metri dall’obiettivo. Lo spostamento d’aria aveva trascinato nel Ticino un venditore ambulante e suo figlio, che annegarono. Militi della Brigata Nera, vigili del fuoco, soldati di Sanità si portarono immediatamente a Borgo Ticino e negli altri punti coinvolti. Mentre fervevano i lavori di soccorso, alle 12.25, l’allarme suonò ancora. Pochi minuti dopo, calarono dal cielo alcuni cacciabombardieri.
Si trattava di otto P-47 Thunderbolt del 57° Fighter Group, incaricati di colpire chiatte e imbarcazioni fluviali con bombe e raffiche di mitragliatrice. Gli aerei calarono in picchiata, sganciarono, aprirono il fuoco, poi ripresero quota e scomparvero. Nel loro rapporto, i piloti affermeranno <<di non essere in grado di valutare i danni inferti>>. Molte bombe erano cadute fuori bersaglio, presso Porta Garibaldi, nella zona est della città. Altre case vennero colpite e si registrarono nuove vittime.
Mentre a Pavia suonava il secondo allarme, i B-25 avevano compiuto la rotta di ritorno e stavano ormai atterrando in Corsica. Schaffer annoterà nel suo diario di essersi <<sentito meglio alla seconda missione>>, dopo la tensione di quella precedente, che, per lui, era stata la prima. Gli aviatori furono immediatamente convocati per fare rapporto, in modo da utilizzare le immagini che avevano ancora negli occhi per stilare un primo bilancio dell’azione. La Croce Rossa distribuì loro ciambelle e caffè.
A Pavia, invece, si cominciava a contare i morti. Un primo bilancio ne indicò nove. Nel corso del pomeriggio, tuttavia, dalle macerie ne emersero altri, sino a salire a 26. I feriti, almeno una quarantina, vennero trasportati al Policlinico e all’Ospedale Militare allestito nel Collegio Borromeo. L’allarme suonò ancora quattro volte nel corso della giornata, ma non si ebbero altri attacchi: passò solo qualche ricognitore, a verificare l’effetto del bombardamento.
Gli aviatori reduci dalla missione trascorsero il resto della giornata nella consueta routine militare. Si svolsero alcune esercitazioni. Gli uomini del 445° Squadron ricevettero la posta da casa <<e i loro volti rispecchiavano i loro sentimenti di gioia>>[27]; nel circolo ufficiali del 447°, alle 18.30 si svolse una cerimonia, in cui vennero decorati numerosi aviatori[28]. In quella stessa ora, a Pavia, nella sede del Dopolavoro Forze Armate di Borgo Ticino venivano serviti pasti caldi ai senzatetto, che, successivamente, trascorsero la notte negli alloggi improvvisati nella scuola delle Canossiane di corso Garibaldi.
Irving Schaffer era montato di guardia alle 18 e vi rimase sino alle 22. C’era luna piena, la serata era fresca. Un commilitone gli portò un sandwich. Dopo essere smontato, Schaffer si trattenne un po’ con gli amici, quindi, verso le 23, si ritirò in branda. L’indomani lo attendeva un’altra missione.
Possiamo farci un’idea di come trascorsero la notte i senzatetto di Borgo Ticino, nei giacigli alle Canossiane, leggendo alcune righe della testimonianza di Chiappini: esse si riferiscono alla notte successiva al bombardamento del 12 settembre, a una situazione, cioè, del tutto uguale: <<quella notte nessuno dormì; sentivo molti che singhiozzavano e che cercavano di non fare sentire agli altri ciò che avevano nel cuore in quel momento: tristezza e sgomento.>>[29] L’indomani, li attendeva un altro bombardamento.
L’incursione di martedì 5 settembre 1944
Foto sopra: Pavia, riprese USAAF, martedì 5 settembre 1944
Il giorno seguente, il cielo era parzialmente nuvoloso e in Corsica cadeva una pioggia leggera. Irving Schaffer registra una colazione più sostanziosa, con succhi di frutta, uova strapazzate, pane e caffè. Dopo il briefing, il nostro mitragliere seppe che gli sarebbe toccato tornare su Pavia, mentre parte degli equipaggi era destinata a una missione su Legnago. Tra gli aviatori correva voce che la radio belga avesse annunciato la resa della Germania: la diceria, accolta con un misto di scetticismo e speranza, si spegnerà solo nel pomeriggio. All’incursione parteciparono ventiquattro bombardieri[30]
Contemporaneamente all’incursione su Pavia, ne doveva avvenire un’altra contro il Ponte della Becca, a sud-est della città, alla confluenza fra il Ticino e il Po, affidata a una trentina di aerei B-26 del 320° BG. Questi ultimi, sorvolando il Po all’altezza di Torreberetti, incapparono in una batteria contraerea, che li investì con un intenso fuoco di sbarramento. Una decina di aerei fu raggiunta da schegge di granate. Uno di essi, soprannominato Baby Shoes dall’equipaggio, perse l’uso di un motore. Il pilota, il capitano Luther Moyer, proveniente da un ranch della Pennsylvania, ordinò di sganciare le bombe per mantenere la quota. I portelloni erano bloccati. Allora Moyer diede ordine di abbandonare l’aereo. Prima si lanciarono i mitraglieri, poi il puntatore e il secondo pilota. Moyer, rimasto a bordo, tentò, da solo, di arrivare in Svizzera, ma l’aereo non resse e precipitò nella campagna novarese. Le bombe esplosero nell’impatto. Moyer rimase ucciso[31].
Le due formazioni, quella del 321° e quella del 320° BG, sorvolarono entrambe Pavia nel giro di pochi minuti, tanto che riuscirono a scorgersi. I B-26, giunti a Mortara, virarono e tracciarono un ampio semicerchio, passando a sud della città e portandosi a ovest di Piacenza, da dove iniziarono la manovra d’attacco verso il Ponte della Becca[32]. I B-25, invece, investirono in due ondate il Ponte Vecchio. Gli aviatori distinsero numerose esplosioni al centro e a sud dell’obiettivo. Schaffer scattò alcune fotografie.
I colpi al centro distrussero la cappella di San Giovanni Nepomuceno, costruita proprio in mezzo al ponte: <<la statua del Santo cadeva nell’acqua, la pietra sacra dell’altare cadeva ai piedi di questo>>, scriverà don Faustino Gianani[33]. La popolazione era stata resa più cauta dall’esperienza del giorno prima e molte bombe caddero su case già colpite ed evacuate; tuttavia, si registrarono ancora vittime.
Il rientro dei B-25 si svolse senza problemi, a parte la comparsa di uno sparuto caccia avversario, accolto dal fuoco dei mitraglieri, che ebbero l’impressione di averlo abbattuto. A sparare era anche il mitragliere Schaffer, che riteneva fosse un FW 190, mentre i suoi compagni sostenevano si trattasse di un Me 109. Il nostro diarista annotò che anche quella missione era stata un milk run.
L’opinione era condivisa da un veterano come Edmund Butch Rogowski, alla sua cinquantaduesima missione, un anziano richiamato (aveva ben trentadue anni, molto sopra la media degli aviatori), che prima lavorava nelle industrie automobilistiche di Detroit[34]. Butch annotò: <<bombardato ponte stradale di Pavia, bel bombardamento, nessuna opposizione>>[35]. Schaffer trascorse il resto della giornata leggendo un manuale di sopravvivenza, diffuso dai servizi d’informazione, su come cavarsela in caso ci si dovesse paracadutare in territorio nemico.
Il libro circolava tra gli aviatori. I reduci da Legnago riferirono di aver incontrato quattro caccia nemici, mentre si stava certo diffondendo la notizia del B-26 abbattuto sul Po. In serata Schaffer consumò un rancio a base di spaghetti e legumi, e si concesse un dolce al cioccolato. Si sentiva stanco e si ritirò abbastanza presto in branda. Tra le varie annotazioni sul suo diario, scrisse: <<vista la neve che copre le Alpi. Tutto sembra pieno di pace dall’alto.>>
Le altre incursioni di settembre
Foto sopra: da sinistra a destra: uno stormo di North American B-25 Mitchell al "lavoro"; bombe rilasciate da un Marauder; Marauder in azione; squadriglia di Marauder; Marauder visto da sopra. Archivio USAAF, riprese durante le azioni sulla Pianura Padana.
Dopo le incursioni del 4 e del 5 di settembre, gli obiettivi degli Alleati sembravano raggiunti. Il generale Knapp inviò un messaggio di congratulazioni agli equipaggi per la precisione dimostrata nel colpire i bersagli durante le ultime missioni. La stampa fascista diede ampio risalto al numero delle vittime civili e alla distruzione del Ponte Vecchio (trascurando, invece, la sorte degli altri due ponti). La perdita di un monumento di forte valore identitario colpì certo la cittadinanza, ma, forse, il rimpianto si avvertirà più con il trascorrere del tempo che nelle contingenze di guerra. Soprattutto nei quartieri maggiormente esposti, prevalevano preoccupazioni immediate e contingenti. Come scrive Guderzo, non pochi <<devono anche essersi, probabilmente, rallegrati per l’esito finale dell’operazione, atto a distogliere, presumibilmente, dalla città l’attenzione degli incursori>>[36].
Il vecchio ponte era in condizioni pietose. <<Dislivelli paurosi, speroni distaccati in blocco, piloni distorti nell’alveo loro mostravano il ponte tutto scosso, sconvolto, snodato, fiaccato>>, scriverà don Gianani[37]. Ma gli archi resistevano in piedi; e, dopo lo sgombero delle macerie, risultò che si poteva ancora attraversare il Ticino, persino a bordo di veicoli. A riprova dei sentimenti esposti in precedenza, si registra la richiesta di alcuni pavesi <<che noi stessi>> spiega Gianoni, <<interrompessimo di nostra mano uno degli archi>>, prima che ci riprovassero i bombardieri[38].
La ricognizione aerea non tardò a verificare la situazione e il martedì successivo, 12 settembre, i bombardieri tornarono. Questa volta furono impiegati i B-25 del 310° BG, che sganciarono molte bombe fuori bersaglio, ancora a Borgo Ticino, ma anche verso l’accesso nord del ponte, <<nella zona di Porta Salara, delimitata da viale Fiume, via S. Ennodio, via dei Longobardi e via della Rocchetta.>>[39]
Gli archi reggevano ancora. La circolazione venne temporaneamente vietata ai veicoli, ma era ancora possibile <<ai pedoni ed ai ciclisti>>[40] Per una decina di giorni non accadde nulla. Infine entrarono in scena i B-26 del 34° GBM, un’unità francese, già sciolta dopo l’invasione tedesca della Francia, ricostituita in Nordafrica nel 1944. Equipaggiato con materiale americano, il 34° GBM era stato integrato nel dispiegamento aereo del settore mediterraneo.
I francesi compirono una prima incursione il 23 settembre, sganciando bombe fuori bersaglio, a un chilometro dal ponte, e oltre: il cosiddetto <<tombone>>, una cantina di via Acquanegra, all’estrema periferia di Borgo Ticino, crollò, uccidendo una trentina di persone che vi si erano rifugiate[41]. <<Il loro riconoscimento fu molto arduo e pietoso, in quanto la maggior parte dei corpi risultavano completamente straziati o addirittura a pezzi>>, ricorda Renzo Chiappini[42]. Nuovo tentativo due giorni dopo: <<l’arcata prima verso il Borgo crollò, ed una scossa paurosa fece tremare le poche case rimaste ancora in piedi.>>[43]. Il ponte, ormai, cessava praticamente di esistere.
L’atteggiamento della popolazione civile
La stampa dell’epoca registra i nomi di quasi novanta vittime delle cinque incursioni sui ponti di Pavia (47 le prime due, 8 la terza, 30 la quarta e 2 l’ultima). La cifra è probabilmente esatta: il numero totale di cittadini pavesi caduti nei bombardamenti della città (comprensivo delle vittime dei mitragliamenti e delle incursioni minori) è di 119[44]. Si trattava di persone di ogni età: da alcuni neonati di pochi mesi, ad anziani di oltre ottant’anni.
Tali cifre non possono certo essere paragonate con gli effetti dei bombardamenti strategici di quegli stessi anni, nei quali il calcolo delle vittime si misura sull’ordine della migliaia: da uno dei primi esperimenti, il bombardamento compiuto dagli italiani su Barcellona (1938: vittime prossime al migliaio), alla famosa incursione tedesca su Coventry (1940: oltre il migliaio), agli apocalittici bombardamenti alleati sulle città tedesche (Dresda, oltre ventimila; Amburgo, circa cinquantamila).
L’aspetto, forse, più sconcertante è che il bilancio di Pavia rientrava nei <<danni collaterali>> normalmente previsti per questo genere di missioni. L’incursione dell’11 febbraio 1945 su Piacenza – altra città con obiettivi di interesse militare – produsse 112 morti[45]. Poche bombe sganciate su Binasco, il 30 gennaio 1945, fecero 25 vittime[46].
La propaganda fascista fece ampio uso dell’argomento, ma l’opinione pubblica non sviluppò un odio diffuso verso gli Alleati e rimase sostanzialmente ostile al regime della Repubblica di Mussolini. Ciò si può spiegare con il fatto che la popolazione tendeva ad attribuire la responsabilità oggettiva dei bombardamenti al fascismo, che aveva voluto la guerra e si ostinava a proseguirla a fianco dei tedeschi, pur non avendo nemmeno i mezzi per proteggere le città dal cielo. Va notato, inoltre, che la lettura dei dati sui bombardamenti impressiona di più a distanza di tempo: la società dell’epoca era più assuefatta alla realtà della guerra, propagandata dal regime di Mussolini come un valore fondante, combattuta per anni fuori dall’Italia (Etiopia, Spagna, Albania) per raggiungere infine il territorio nazionale.
E’ significativo il fatto che, quando un aereo era abbattuto, i superstiti trovassero spesso aiuto da parte della popolazione. Abbiamo lasciato il Baby Shoes, l’aereo colpito dalla contraerea il 5 settembre, in fiamme nella campagna novarese. Morto il pilota, il suo secondo, ferito, e il puntatore furono catturati. Dei quattro mitraglieri calati con il paracadute presso a Mortara, invece, uno solo fu fatto prigioniero, gli altri scomparvero. Erano i sergenti Donald Lundgren, del Massachussetts, John McGowan, di New York e Leonard Hoyne, di Chicago. Si sparse la voce che un vigile del fuoco e una guardia municipale li avessero disarmati e catturati[47], ma più tardi giunse la smentita: erano stati ritrovati solo alcuni paracadute[48].
Malgrado circolassero le notizie dei bombardamenti, malgrado un caccia notturno, probabilmente attirato da una luce, sganciasse una bomba su Mortara, uccidendo una donna[49], i tre aviatori non vennero denunciati, né trovati. Probabilmente ricevettero assistenza da parte dei civili e riuscirono a raggiungere la Valsesia, dove si unirono ai partigiani delle formazioni di Cino Moscatelli, rimanendovi alcune settimane.
La vicenda ebbe poi un seguito drammatico: i tre aviatori, per iniziativa della missione britannica Cherokee, vennero inclusi in un gruppo di una ventina di ex prigionieri di guerra, destinati ad essere avviati in Svizzera attraverso le Alpi[50]. Il gruppo passò il confine il 19 gennaio 1945, ma, il 20, le guardie di frontiera svizzere intercettarono una parte dei profughi e li scortarono verso i propri baraccamenti. Una tempesta di neve disperse la colonna, provocando la morte di un militare britannico e di due americani, Lundgren e McGowan. Solo Leonard Hoyne riuscì a salvarsi e a essere rimpatriato[51].
Il 22 settembre, alla vigilia della quarta incursione sul Ponte Vecchio, due cacciabombardieri P-47 del 526° Squadron dell’86° FG, venivano abbattuti dalla contraerea mentre attaccavano la ferrovia tra Mede e Lomello. Uno dei piloti, Ardell Klemme, si lanciò con il paracadute e finì presso Breme[52]. In questa località viveva, nascosto da una famiglia, un ex prigioniero britannico, che poi si sarebbe stabilito definitivamente in Italia (suo figlio vive ancora a Breme e conserva le cuffie radio di Klemme). Anche il pilota americano venne nascosto, e iniziò quindi una lunga odissea, che lo avrebbe portato alla salvezza attraverso le formazioni partigiane del Piemonte e della Liguria[53].
Il 23 Settembre un B-26 precipitò presso Binasco: due aviatori vennero tenuti nascosti da giovani della zona e aiutati a passare in Svizzera[54]. Il 3 ottobre il secondo pilota di un B-25, John Martin di Pittsburgh, atterrò con il paracadute presso Montebello: venne soccorso da una famiglia di sfollati e aiutato a raggiungere le formazioni di Luchino Dal Verme, che lo avviarono a Milano e, da lì, in Svizzera[55]. Il 20 ottobre, un mitragliere di un B-25, William Mabbutt, dell’Idaho, disceso nella zona di Pieve Albignola, fu aiutato da un contadino, che lo mise in contatto con le formazioni di Giustizia e Libertà[56]. E si potrebbe continuare.
Epilogo
L’offensiva aerea contro le linee di comunicazione terrestri non produsse i risultati sperati. I genieri tedeschi erano in grado di riattivare ponti e ferrovie in pochi giorni. Strutture provvisorie vennero realizzate sul Ponte dell’Impero e persino il ponte ferroviario fu rimesso in funzione. Le linee tedesche non collassarono. L’avanzata alleata si spense sulla Linea Gotica nell’autunno del 1944.
Il Ponte Vecchio venne rimpiazzato da un traghetto. Nei mesi successivi non si ebbero più bombardamenti massicci, ma solo incursioni di entità relativamente modesta, non senza ulteriori, ma più sporadiche, vittime. Le ultime bombe caddero nella notte tra il 23 e il 24 aprile, ma non si lamentarono danni alle persone.
Nel dopoguerra il Ponte Vecchio venne ricostruito, in un clima caratterizzato da scarsa sensibilità verso il patrimonio storico-urbanistico, come spesso accade nei periodi di trasformazione e rinnovamento, quando si crede che per costruire il futuro sia necessario distruggere le tracce del passato. Tra i numerosi interventi infelici realizzati in quegli anni, scrive Giulio Guderzo, quello sul Ponte Vecchio fu <<il primo fra tutti>>. Consistette infatti nella <<sostituzione di un falso ponte coperto all’antico in parte crollato, in luogo della possibile, da molti auspicata, ricostruzione di questo, dov’era e com’era, come nel caso di Santa Trìnita a Firenze>>[57].
I basamenti ancora in piedi degli archi, infatti, vennero fatti saltare con la dinamite. Il ponte, quindi, venne ricostruito, spostato di asse e con due archi in meno rispetto all’originale.
Con il passare del tempo, la cittadinanza sembra aver metabolizzato la perdita dell’antico monumento. Le immagini del finto Ponte Vecchio cominciarono ad affiancare quelle dell’originale come simbolo di Pavia, e a sostituirle. Probabilmente, sono ben pochi coloro in grado di distinguere le une dalle altre.
Note
[1] L’autore desidera esprimere la sua gratitudine al Professor Giulio Guderzo, che lo ha avviato alla ricerca e gliene ha insegnato la pratica e i segreti.
[2] Una valida trattazione dell’argomento è: Andrea Villa, Guerra aerea sull’Italia (1943-1945), Milano, Guerini e associati, 2009.
[3] Il testo Bombardamenti di Pavia e provincia 1943-1945, a cura di Mario Scala, Pavia, Emi, 1997 è una preziosa raccolta di fonti, ma parziale e priva di un inquadramento critico.
[4] Oltre a tali fonti, che verranno specificate, è stato utilizzato un file dell’ Air Force Historical Research Agency, (d’ora in avanti: AFHRA) relativo alle missioni nell’Italia Settentrionale, messo cortesemente a disposizione dal professor Agostino Alberti, che ringrazio.
[5] Le pagine del diario di Schaffer sono riportate nel sito web 57bombwing.com/321stBombGroupHistory, seguendo cronologicamente il calendario generale delle missioni. Rimasto per decenni in un cassetto, il diario è stato pubblicato dallo stesso Schaffer nel 2005 (curiosamente, il 4 settembre, anniversario della prima incursione su Pavia) con il titolo Red Skies at Night, Daochi Media, New York.
[6] Notizie su Irving Schaffer nel sito fold3.com/personal page/Irving J. Schaffer.
[7] Per un inquadramento generale: Andrew Brookes, Air War Over Italy, London, Allen, 2000.
[8] Villa, Guerra aerea sull’Italia cit., pp. 171 sgg.
[9] Villa, Guerra aerea sull’Italia cit., p. 178.
[10] La protezione antiaerea era stata carente in tutta Italia sin dall’inizio della guerra: <<L’antiaerea italiana non ostacolò mai seriamente i bombardamenti alleati, neppure di giorno>>, scrive Stephen Harvey, The Italian War Effort and the Strategic Bombing of Italy, <<History 70>>, p. 38. La situazione era peggiorata ulteriormente dopo l’8 settembre, nonostante l’intero apparato fosse interamente controllato dalle forze tedesche.
[11] “Il Popolo Repubblicano”, 2, 11 e 25 agosto 1944.
[12] Bombe caddero su Pavia il 25 aprile 1944, provocando otto vittime. “Il Popolo Repubblicano”, 26 agosto 1944.
[13] Secondo il “Popolo Repubblicano”, 6 e 25 agosto 1944, questi spezzonamenti notturni provocarono altrettante vittime.
[14] Cesarino [Cesare Cis], Incoscienza e rifugi, “Il Popolo Repubblicano”, 2 agosto 1944.
[15] Filippo Colombara, Penne, bambole e farfalle: la guerra ai bambini. Immaginario e realtà dei giocattoli esplosivi, “L’Impegno”, dicembre 2012. Cfr.: Cesare Bermani: L’immaginario collettivo di guerra: il mito di <<Pippo>>, in L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, Milano, Angeli, 2004, pp. 231-234.
[16] Ne parla esplicitamente il “Popolo Repubblicano”, in un appello pubblicato il 13 aprile 1945.
[17] Volarono anche aviatori di colore, non senza scontrarsi con pregiudizi di ogni genere, concentrati nel 99° Fighter Group e soprannominati i Tuskegee, dal nome della base dove erano stati addestrati.
[18] Un ritratto degli aviatori americani in Villa, Guerra aerea sull’Italia cit., pp. 113-118. Essi sono rappresentati efficacemente anche da Stephen Ambrose, Wild Blue. 741 Squadron. On a wing and a prayer over occupied Europe, London, Simon and Schuster, 2001, che però si occupa degli equipaggi dei quadrimotori che si spingevano sulle città tedesche.
[19] Il War Diary di ogni Squadron si può leggere in rete nel sito: 57thbombwing.com cit. Secondo tale fonte, il 445° Squadron fornì nove aerei, il 446° quindici, il 447° tredici, il 448° undici (totale: quarantotto).
[20] Renzo Chiappini, Il mio borgo (I bombardamenti del ’44), Pavia, Terzhobby, 1978. Testimonianza riportata in I bombardamenti di Pavia e Provincia cit., p. 219.
[21] Chiappini cita, nella sua testimonianza, un gruppo di persone che accolsero con ironia e scetticismo le sue preoccupazioni all’apparire degli aerei.
[22] “Il Popolo Repubblicano”, 6 settembre 1944.
[23] Renzo Chiappini, testimonianza citata.
[24] 57thbombwing.com cit., 446th BS Mission 379; 380. 447th BS War Diary.
[25] “Il Popolo Repubblicano”, edizione straordinaria del 4 settembre 1944, riportata in Scala, Bombardamenti su Pavia cit., p. 77.
[26] “Il Popolo Repubblicano”, 6 settembre 1944.
[27] 57thbombwing.com cit., 445 BS War Diary.
[28] Ibidem, 447 BS War Diary.
[29] Renzo Chiappini, testimonianza cit., p. 220.
[30] Secondo i War Diaries, sette del 445° Squadron, sei del 446°, sei del 447 e cinque del 448°.
[31] Missing Air Crew Report 8090, consultabile in fold3.com.
[32] Tale incursione non è menzionata dal “Popolo Repubblicano”. Gran parte delle bombe finirono fuori bersaglio, a quanto sembra, senza provocare vittime.
[33] Faustino Gianani, Al pont ad dsei, <<Ticinum>>, numero unico, dicembre 1945, testimonianza riportata in Bombardamenti di Pavia e Provincia cit., p. 91.
[34] Edward E. Rogowski, Personal Page in fold3.com.
[35] Le annotazioni diaristiche di Rogowski sono inserite nella cronologia generale delle missioni del 321° BG in 57thbombwing.com cit.
[36] Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia, 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 578.
[37] Gianani, Al pont ad dsei cit., p. 91.
[38] Ibidem.
[39] “Il Popolo Repubblicano”, 13 settembre 1944. Cfr. 380°SquadronWarDiary in 310thBombGroup.history: <<buona concentrazione di bombe a nord est del ponte>>.
[40] “Il Popolo Repubblicano”, 15 settembre 1944.
[41] C. [Cesare Cis], Barbarie senza confronti, “Il Popolo Repubblicano”, 24 settembre 1944.
[42] Testimonianza citata, p. 222.
[43] Ibidem.
[44] Bombardamenti di Pavia e provincia cit., pp. 217-218.
[45] Giulio Cattivelli, Il giorno più lungo di Piacenza, in La guerra di Cat, a cura di Stefano Pareti, Bobbio, Pontegobbo, 2012, p. 95.
[46] Archivio di Stato di Milano, Gabinetto di Prefettura, II serie, busta 326, raporto in data 14 gennaio 1945.
[47] “Il Popolo Repubblicano”, 13 settembre 1944, corrispondenza da Sant’Angelo Lomellina.
[48] “Il Popolo Repubblicano”, 22 settembre 1944, corrispondenza da Sant’Angelo Lomellina.
[49] “Il Popolo Repubblicano”, 6 settembre 1944.
[50] Massimiliano Tenconi, Prigionia, sopravvivenza e Resistenza. Storie di australiani e neozelandesi in provincia di Vercelli (1943-1945), <<L’Impegno>>, giugno 2008, p. 47.
[51] Ibidem, p. 48.
[52] “Il Popolo Repubblicano”, 24 settembre 1944, corrispondenza da Breme. AFHRA, 22 september 1944.
[53] Vicenda rievocata nel sito 340thBG489thBS.com.
[54] Paolo Migliavacca, Gaggiano 1943-1946, Abbiategrasso 1996, pp. 235-36.
[55] MACR 9037. Cfr. Bombardamenti di Pavia e provincia cit., p. 159.
[56] MACR 9442.
[57] Giulio Guderzo, Amore di Pavia, Milano, Unicopli, 2011, p. 294.
[1] L’autore desidera esprimere la sua gratitudine al Professor Giulio Guderzo, che lo ha avviato alla ricerca e gliene ha insegnato la pratica e i segreti.
[2] Una valida trattazione dell’argomento è: Andrea Villa, Guerra aerea sull’Italia (1943-1945), Milano, Guerini e associati, 2009.
[3] Il testo Bombardamenti di Pavia e provincia 1943-1945, a cura di Mario Scala, Pavia, Emi, 1997 è una preziosa raccolta di fonti, ma parziale e priva di un inquadramento critico.
[4] Oltre a tali fonti, che verranno specificate, è stato utilizzato un file dell’ Air Force Historical Research Agency, (d’ora in avanti: AFHRA) relativo alle missioni nell’Italia Settentrionale, messo cortesemente a disposizione dal professor Agostino Alberti, che ringrazio.
[5] Le pagine del diario di Schaffer sono riportate nel sito web 57bombwing.com/321stBombGroupHistory, seguendo cronologicamente il calendario generale delle missioni. Rimasto per decenni in un cassetto, il diario è stato pubblicato dallo stesso Schaffer nel 2005 (curiosamente, il 4 settembre, anniversario della prima incursione su Pavia) con il titolo Red Skies at Night, Daochi Media, New York.
[6] Notizie su Irving Schaffer nel sito fold3.com/personal page/Irving J. Schaffer.
[7] Per un inquadramento generale: Andrew Brookes, Air War Over Italy, London, Allen, 2000.
[8] Villa, Guerra aerea sull’Italia cit., pp. 171 sgg.
[9] Villa, Guerra aerea sull’Italia cit., p. 178.
[10] La protezione antiaerea era stata carente in tutta Italia sin dall’inizio della guerra: <<L’antiaerea italiana non ostacolò mai seriamente i bombardamenti alleati, neppure di giorno>>, scrive Stephen Harvey, The Italian War Effort and the Strategic Bombing of Italy, <<History 70>>, p. 38. La situazione era peggiorata ulteriormente dopo l’8 settembre, nonostante l’intero apparato fosse interamente controllato dalle forze tedesche.
[11] “Il Popolo Repubblicano”, 2, 11 e 25 agosto 1944.
[12] Bombe caddero su Pavia il 25 aprile 1944, provocando otto vittime. “Il Popolo Repubblicano”, 26 agosto 1944.
[13] Secondo il “Popolo Repubblicano”, 6 e 25 agosto 1944, questi spezzonamenti notturni provocarono altrettante vittime.
[14] Cesarino [Cesare Cis], Incoscienza e rifugi, “Il Popolo Repubblicano”, 2 agosto 1944.
[15] Filippo Colombara, Penne, bambole e farfalle: la guerra ai bambini. Immaginario e realtà dei giocattoli esplosivi, “L’Impegno”, dicembre 2012. Cfr.: Cesare Bermani: L’immaginario collettivo di guerra: il mito di <<Pippo>>, in L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, Milano, Angeli, 2004, pp. 231-234.
[16] Ne parla esplicitamente il “Popolo Repubblicano”, in un appello pubblicato il 13 aprile 1945.
[17] Volarono anche aviatori di colore, non senza scontrarsi con pregiudizi di ogni genere, concentrati nel 99° Fighter Group e soprannominati i Tuskegee, dal nome della base dove erano stati addestrati.
[18] Un ritratto degli aviatori americani in Villa, Guerra aerea sull’Italia cit., pp. 113-118. Essi sono rappresentati efficacemente anche da Stephen Ambrose, Wild Blue. 741 Squadron. On a wing and a prayer over occupied Europe, London, Simon and Schuster, 2001, che però si occupa degli equipaggi dei quadrimotori che si spingevano sulle città tedesche.
[19] Il War Diary di ogni Squadron si può leggere in rete nel sito: 57thbombwing.com cit. Secondo tale fonte, il 445° Squadron fornì nove aerei, il 446° quindici, il 447° tredici, il 448° undici (totale: quarantotto).
[20] Renzo Chiappini, Il mio borgo (I bombardamenti del ’44), Pavia, Terzhobby, 1978. Testimonianza riportata in I bombardamenti di Pavia e Provincia cit., p. 219.
[21] Chiappini cita, nella sua testimonianza, un gruppo di persone che accolsero con ironia e scetticismo le sue preoccupazioni all’apparire degli aerei.
[22] “Il Popolo Repubblicano”, 6 settembre 1944.
[23] Renzo Chiappini, testimonianza citata.
[24] 57thbombwing.com cit., 446th BS Mission 379; 380. 447th BS War Diary.
[25] “Il Popolo Repubblicano”, edizione straordinaria del 4 settembre 1944, riportata in Scala, Bombardamenti su Pavia cit., p. 77.
[26] “Il Popolo Repubblicano”, 6 settembre 1944.
[27] 57thbombwing.com cit., 445 BS War Diary.
[28] Ibidem, 447 BS War Diary.
[29] Renzo Chiappini, testimonianza cit., p. 220.
[30] Secondo i War Diaries, sette del 445° Squadron, sei del 446°, sei del 447 e cinque del 448°.
[31] Missing Air Crew Report 8090, consultabile in fold3.com.
[32] Tale incursione non è menzionata dal “Popolo Repubblicano”. Gran parte delle bombe finirono fuori bersaglio, a quanto sembra, senza provocare vittime.
[33] Faustino Gianani, Al pont ad dsei, <<Ticinum>>, numero unico, dicembre 1945, testimonianza riportata in Bombardamenti di Pavia e Provincia cit., p. 91.
[34] Edward E. Rogowski, Personal Page in fold3.com.
[35] Le annotazioni diaristiche di Rogowski sono inserite nella cronologia generale delle missioni del 321° BG in 57thbombwing.com cit.
[36] Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia, 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 578.
[37] Gianani, Al pont ad dsei cit., p. 91.
[38] Ibidem.
[39] “Il Popolo Repubblicano”, 13 settembre 1944. Cfr. 380°SquadronWarDiary in 310thBombGroup.history: <<buona concentrazione di bombe a nord est del ponte>>.
[40] “Il Popolo Repubblicano”, 15 settembre 1944.
[41] C. [Cesare Cis], Barbarie senza confronti, “Il Popolo Repubblicano”, 24 settembre 1944.
[42] Testimonianza citata, p. 222.
[43] Ibidem.
[44] Bombardamenti di Pavia e provincia cit., pp. 217-218.
[45] Giulio Cattivelli, Il giorno più lungo di Piacenza, in La guerra di Cat, a cura di Stefano Pareti, Bobbio, Pontegobbo, 2012, p. 95.
[46] Archivio di Stato di Milano, Gabinetto di Prefettura, II serie, busta 326, raporto in data 14 gennaio 1945.
[47] “Il Popolo Repubblicano”, 13 settembre 1944, corrispondenza da Sant’Angelo Lomellina.
[48] “Il Popolo Repubblicano”, 22 settembre 1944, corrispondenza da Sant’Angelo Lomellina.
[49] “Il Popolo Repubblicano”, 6 settembre 1944.
[50] Massimiliano Tenconi, Prigionia, sopravvivenza e Resistenza. Storie di australiani e neozelandesi in provincia di Vercelli (1943-1945), <<L’Impegno>>, giugno 2008, p. 47.
[51] Ibidem, p. 48.
[52] “Il Popolo Repubblicano”, 24 settembre 1944, corrispondenza da Breme. AFHRA, 22 september 1944.
[53] Vicenda rievocata nel sito 340thBG489thBS.com.
[54] Paolo Migliavacca, Gaggiano 1943-1946, Abbiategrasso 1996, pp. 235-36.
[55] MACR 9037. Cfr. Bombardamenti di Pavia e provincia cit., p. 159.
[56] MACR 9442.
[57] Giulio Guderzo, Amore di Pavia, Milano, Unicopli, 2011, p. 294.