Dall’ITI di Piacenza alla SIT Siemens di Milano con un collega di lavoro e di azione sindacale che diventerà il capo delle Brigate Rosse.
di Romano Repetti
di Romano Repetti
Foto sopra: Via Campagna, Piacenza. Qui fu scoperto un covo delle Brigate Rosse, dove trovarono rifugio Renato Curcio e Mara Cagol (foto archivio Libertà)
GRAC ospita alcuni miei saggi frutto di ricerche su episodi e figure della storia piacentina nel Novecento, ricerche effettuate in funzione di convegni o conferenze. Questo è invece uno scritto di carattere anche autobiografico, ma di una biografia che si può considerare tipica di tanti giovani diplomati piacentini che negli anni qui considerati trovavano uno sbocco lavorativo principalmente a Milano – cosa peraltro ancora attuale – e che in quegli anni s’incontrarono in quella città con la Storia, quella dei grandi movimenti sociali che tanta incidenza hanno avuto sulla successiva evoluzione della società italiana. La mia biografia registra però anche una singolare esperienza di azione sindacale in comune con quello che sarebbe poi diventato il capo delle Brigate Rosse nel periodo in cui sequestrarono e uccisero anche uno dei maggiori esponenti della politica italiana del tempo, Aldo Moro.
Il testo che segue è una riduzione e in parte rielaborazione del mio saggio pubblicato nel volume collettaneo “ANNI OPERAI. Piacenza 1969-1972. Memorie di un lungo autunno caldo”, a cura di Gianfranco Dragoni e Eugenio Gazzola, Ed. Scritture, 2019.
Il testo che segue è una riduzione e in parte rielaborazione del mio saggio pubblicato nel volume collettaneo “ANNI OPERAI. Piacenza 1969-1972. Memorie di un lungo autunno caldo”, a cura di Gianfranco Dragoni e Eugenio Gazzola, Ed. Scritture, 2019.
1 - Dall’ITI di Piacenza ad impiegati-tecnici in aziende milanesi
La contestazione studentesca nelle università che caratterizzò l’anno 1968 e l“autunno caldo” sindacale del ’69, nonché le vicende dei movimenti politici di estrema sinistra che in parte ne scaturirono, costituiscono uno snodo ed un capitolo fondamentale in tutte le ricostruzioni storiche dell’Italia contemporanea. Il titolo che meglio definisce tale fase è quello che ha dato Paul Ginsborg al relativo capitolo della sua “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi”: L’epoca dell’azione collettiva, 1968-’73.
Di quel passagio della società italiana vi fu anche una componente in genere trascurata dagli storici, nonostante avesse alcuni caratteri comuni con la contestazione studentesca e avesse poi contribuito alla caratterizzazione dell’autunno sindacale del ’69, sia per le forme di lotta che per le stesse piattaforme contrattuali. Mi riferisco alla discesa in campo, fra la primavera del ’68 e l’estate del ’69, dei tecnici ed impiegati della grandi aziende in vertenze rivendicative dalle originali forme di organizzazione e lotta, nate all’inizio generalmente all’esterno delle strutture sindacali di CGIL, CISL e UIL.
La discesa in campo sul terreno sindacale di tecnici ed impiegati coinvolse pure diversi piacentini, lavoratori pendolari in aziende milanesi o che, residenti in comuni della provincia, per quell’impiego si erano dovuti trasferire, come lo scrivente, a vivere nell’area milanese, da cui generalmente tornavano alle loro famiglie nei fine settimana.
All’inizio degli anni sessanta del secolo scorso la scuola media superiore di Piacenza con il maggior numero di allievi era diventato l’Istituto Tecnico Industriale “G. Marconi”, nella nuova sede di via Nasolini, che formava periti meccanici, elettrotecnici e, come nel mio caso, in telecomunicazioni.
Anche nelle famiglie degli operai, dei lavoratori agricoli e dei piccoli coltivatori diretti del nostro territorio appenninico, in quegli anni si cominciava a mandare i figli nelle scuole superiori e l’ITI appariva come l’istituto più idoneo a promuoverne il miglioramento sociale in sbocchi professionali più disponibili e accessibili di altri. Ma appunto, mentre i piacentini diplomati nei licei di norma proseguivano gli studi all’università, e i ragionieri, geometri e periti agrari potevano avere sbocco nella professione privata o nell’impiego pubblico anche locale, la gran parte dei periti l’impiego lo trovavano in grandi aziende lombarde.
A quel tempo i giovani dovevano espletare il servizio militare di quindici mesi e per un diplomato prima di aver adempiuto a quell’obbligo era ben raro che venisse assunto da un’impresa industriale. Io, diplomato nel 1963 a 19 anni, feci il mio servizio per lo Stato nel 1965-’66 e finalmente venni assunto, a parire dal 2 gennaio ’67, dalla Società Italiana Telecomunicazioni Siemens di Milano, che oggi, dopo alcuni cambiamenti di nome, di proprietà e di attività non esiste più.
La Sit Siemens era nata nel 1945 dall’esproprio delle strutture presenti in Italia dell’omonima industria tedesca, come azienda delle Partecipazioni Statali addetta alla produzione degli apparati per la telefonia. Nel periodo a cui qui si fa riferimento provvedeva alla produzione ed installazione delle centrali di commutazione telefonica ancora a sistema elettromeccanico e dei diversi altri apparati per le telecomunicazioni, come i ponti radio, nonché alla produzione e vendita degli apparecchi telefonici e di altre apparecchiature elettroacustiche. Aveva la sede, il palazzo uffici, i laboratori e lo stabilimento principale appunto a Milano, in piazzale Zavattari. I dipendenti erano oltre 6.000, di cui circa 2.000 quelli inquadrati nelle categorie impiegatizie, il resto operai ma sopratutto operaie addette in particolare, con prestazioni a cottimo, all’avvolgimento delle piccole bobine dei selettori della commutazione telefonica.
Io venni collocato nel palazzo uffici in un reparto addetto alla progettazione e vendita di piccoli impianti. Stipendio molto modesto: 80.000 lire mensili, che mi venivano in gran parte assorbite dal soggiorno a Milano, inizialmente pigionante presso una famiglia di pensionati. Nel 1968 mi concessi l’acquisto di una FIAT 500, tramite 30 rate mensili addebitate sulla busta paga.
Di quel passagio della società italiana vi fu anche una componente in genere trascurata dagli storici, nonostante avesse alcuni caratteri comuni con la contestazione studentesca e avesse poi contribuito alla caratterizzazione dell’autunno sindacale del ’69, sia per le forme di lotta che per le stesse piattaforme contrattuali. Mi riferisco alla discesa in campo, fra la primavera del ’68 e l’estate del ’69, dei tecnici ed impiegati della grandi aziende in vertenze rivendicative dalle originali forme di organizzazione e lotta, nate all’inizio generalmente all’esterno delle strutture sindacali di CGIL, CISL e UIL.
La discesa in campo sul terreno sindacale di tecnici ed impiegati coinvolse pure diversi piacentini, lavoratori pendolari in aziende milanesi o che, residenti in comuni della provincia, per quell’impiego si erano dovuti trasferire, come lo scrivente, a vivere nell’area milanese, da cui generalmente tornavano alle loro famiglie nei fine settimana.
All’inizio degli anni sessanta del secolo scorso la scuola media superiore di Piacenza con il maggior numero di allievi era diventato l’Istituto Tecnico Industriale “G. Marconi”, nella nuova sede di via Nasolini, che formava periti meccanici, elettrotecnici e, come nel mio caso, in telecomunicazioni.
Anche nelle famiglie degli operai, dei lavoratori agricoli e dei piccoli coltivatori diretti del nostro territorio appenninico, in quegli anni si cominciava a mandare i figli nelle scuole superiori e l’ITI appariva come l’istituto più idoneo a promuoverne il miglioramento sociale in sbocchi professionali più disponibili e accessibili di altri. Ma appunto, mentre i piacentini diplomati nei licei di norma proseguivano gli studi all’università, e i ragionieri, geometri e periti agrari potevano avere sbocco nella professione privata o nell’impiego pubblico anche locale, la gran parte dei periti l’impiego lo trovavano in grandi aziende lombarde.
A quel tempo i giovani dovevano espletare il servizio militare di quindici mesi e per un diplomato prima di aver adempiuto a quell’obbligo era ben raro che venisse assunto da un’impresa industriale. Io, diplomato nel 1963 a 19 anni, feci il mio servizio per lo Stato nel 1965-’66 e finalmente venni assunto, a parire dal 2 gennaio ’67, dalla Società Italiana Telecomunicazioni Siemens di Milano, che oggi, dopo alcuni cambiamenti di nome, di proprietà e di attività non esiste più.
La Sit Siemens era nata nel 1945 dall’esproprio delle strutture presenti in Italia dell’omonima industria tedesca, come azienda delle Partecipazioni Statali addetta alla produzione degli apparati per la telefonia. Nel periodo a cui qui si fa riferimento provvedeva alla produzione ed installazione delle centrali di commutazione telefonica ancora a sistema elettromeccanico e dei diversi altri apparati per le telecomunicazioni, come i ponti radio, nonché alla produzione e vendita degli apparecchi telefonici e di altre apparecchiature elettroacustiche. Aveva la sede, il palazzo uffici, i laboratori e lo stabilimento principale appunto a Milano, in piazzale Zavattari. I dipendenti erano oltre 6.000, di cui circa 2.000 quelli inquadrati nelle categorie impiegatizie, il resto operai ma sopratutto operaie addette in particolare, con prestazioni a cottimo, all’avvolgimento delle piccole bobine dei selettori della commutazione telefonica.
Io venni collocato nel palazzo uffici in un reparto addetto alla progettazione e vendita di piccoli impianti. Stipendio molto modesto: 80.000 lire mensili, che mi venivano in gran parte assorbite dal soggiorno a Milano, inizialmente pigionante presso una famiglia di pensionati. Nel 1968 mi concessi l’acquisto di una FIAT 500, tramite 30 rate mensili addebitate sulla busta paga.
2 - Una generazione ribelle
Per comprendere il carattere inedito e sorprendente del movimento rivendicativo e di lotta fra tecnici e impiegati, di cui feci parte, nel 1968-’69, e che nell’area milanese riguardò non solo la Sit Siemens ma le maggiori aziende industriali con una forte presenza di tecnici e impiegati – in particolare Alfa Romeo, Dalmine, Breda, Falk, Olivetti, Philips, Ibm, Snam Progetti – va tenuto presente che in precedenza tecnici ed impiegati erano categorie di lavoratori generalmente non sindacalizzate ed estranee alle vertenze e lotte condotte dalla maestranze operaie con direzione sindacale. Pochissimi fra di essi erano gli iscritti alle organizzazioni sindacali ed in specifico alla Cgil. Tradizionalmente i tecnici e gli impiegati erano visti e vedevano se stessi all’interno dell’azienda in una collocazione diversa da quella degli operai, in un rapporto di lealtà con la proprietà e la direzione, dalle quali, e non da conquiste collettive, era fatta dipendere la loro progressione retributiva e di carriera.
Ma verso la fine degli anni sessanta molte cose erano cambiate e stavano cambiando nella società italiana.
L’università, con la crescita degli iscritti, giunti a mezzo milione nell’anno accademico ’67-’68, non era più il luogo solo dei figli della borghesia e la prospettiva di gran parte di quegli studenti non era più quella di diventare la futura classe dirigente del Paese come naturale conseguenza delle famiglie di provenienza. A sua volta, il numero dei tecnici ed impiegati, in conseguenza degli sviluppi tecnologici e dei mutamenti nelle strutture aziendali, aveva avuto nel secondo dopoguerra un ritmo d’incremento molto forte, più di quello degli operai: al censimento del 1971 gli impiegati in aziende private costituivano l’8,9% delle forze lavoro del Paese, quelli del settore pubblico l’8,2%. Le famiglie di origine non erano più solo quelle della piccola borghesia e del ceto medio ma, come già rilevato per i diplomati all’ITI di Piacenza, anche famiglie operaie e contadine.
Nelle grandi aziende, che assorbivano la gran parte dei nuovi tecnici e diplomati, questi, seppur preposti a svolgere funzioni tecniche e commerciali qualificate, non erano in gran parte più destinati a diventare i quadri aziendali intermedi, stretti collaboratori dei dirigenti. Le loro prospettive di miglioramento economico e di valorizzazione professionale non erano più legate a carriere personali all’interno dell’azienda ma dipendevano da avanzamenti collettivi della propria categoria. Il movimento che si sviluppò tra di essi fra il ’68 ed il ’69 rappresentò la presa di coscienza di tale condizione.
Gli studenti universitari e i tecnici/impiegati protagonisti dei movimenti di quel biennio facevano inoltre parte della stessa generazione, perché protagonisti delle lotte nelle aziende furono infatti soprattutto i giovani diplomati nei primi anni sessanta che invece di proseguire gli studi all’università avevano dovuto entrare subito nel modo del lavoro. A Milano una parte di essi aveva anche assunto la duplice figura di lavoratore/studente, con l’iscrizione in particolare alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica, unica facoltà ad offrire anche un corso serale.
Una generazione ribelle - possiamo definirla - innanzitutto a convinzioni e convenzioni che non corrispondeva più in quegli anni alla realtà sociale dell’Italia.
Il movimento di tecnici/mpiegati ebbe, come accennato, forme di organizzazione, di partecipazione e di lotta che rieccheggiavano quelle del movimento studentesco: gruppi e “comitati di base”, generalmente estranei alle organizzazioni sindacali, che all’interno delle aziende mettevano a fuoco aspetti critici della condizone di lavoro della loro categoria e ne determinavano fra i colleghi la consapevolezza; la messa in campo di rivendicazioni e l’apertura di vertenze unificanti per tutti quei lavoratori; assemblee molto partecipate e formalmente decisionali su ogni passaggio significativo delle vertenze, anche se erano i leaders nel frattempo emersi a condizionare l’orientamento dei partecipanti; forme di lotta non troppo economicamente dispendiose ma incisive nel mettere in difficoltà le direzioni aziendali, quali astensione dal lavoro solo per qualche ora al giorno combinate però con iniziative inedite e tali da avere grande risonanza pubblica.
Quello che si sviluppò alla Sit Siemens fu alquanto rappresentativo delle dinamiche dei movimenti in altre aziende milanesi, nonché dei loro esiti, compreso certi percorsi personali di vita che ne scaturirono. Perché con i movimenti sociali e le lotte sindacali del ’68 e ’69 si avviarono profondi e positivi cambiamenti nella condizione dei lavoratori ma prese anche piede fra alcuni dei protagonisti una grande utopia, quella di poter rivoltare dalle radici la società, utopia che fece smarrire il senso della realtà e produsse funeste conseguenze.
Ma verso la fine degli anni sessanta molte cose erano cambiate e stavano cambiando nella società italiana.
L’università, con la crescita degli iscritti, giunti a mezzo milione nell’anno accademico ’67-’68, non era più il luogo solo dei figli della borghesia e la prospettiva di gran parte di quegli studenti non era più quella di diventare la futura classe dirigente del Paese come naturale conseguenza delle famiglie di provenienza. A sua volta, il numero dei tecnici ed impiegati, in conseguenza degli sviluppi tecnologici e dei mutamenti nelle strutture aziendali, aveva avuto nel secondo dopoguerra un ritmo d’incremento molto forte, più di quello degli operai: al censimento del 1971 gli impiegati in aziende private costituivano l’8,9% delle forze lavoro del Paese, quelli del settore pubblico l’8,2%. Le famiglie di origine non erano più solo quelle della piccola borghesia e del ceto medio ma, come già rilevato per i diplomati all’ITI di Piacenza, anche famiglie operaie e contadine.
Nelle grandi aziende, che assorbivano la gran parte dei nuovi tecnici e diplomati, questi, seppur preposti a svolgere funzioni tecniche e commerciali qualificate, non erano in gran parte più destinati a diventare i quadri aziendali intermedi, stretti collaboratori dei dirigenti. Le loro prospettive di miglioramento economico e di valorizzazione professionale non erano più legate a carriere personali all’interno dell’azienda ma dipendevano da avanzamenti collettivi della propria categoria. Il movimento che si sviluppò tra di essi fra il ’68 ed il ’69 rappresentò la presa di coscienza di tale condizione.
Gli studenti universitari e i tecnici/impiegati protagonisti dei movimenti di quel biennio facevano inoltre parte della stessa generazione, perché protagonisti delle lotte nelle aziende furono infatti soprattutto i giovani diplomati nei primi anni sessanta che invece di proseguire gli studi all’università avevano dovuto entrare subito nel modo del lavoro. A Milano una parte di essi aveva anche assunto la duplice figura di lavoratore/studente, con l’iscrizione in particolare alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica, unica facoltà ad offrire anche un corso serale.
Una generazione ribelle - possiamo definirla - innanzitutto a convinzioni e convenzioni che non corrispondeva più in quegli anni alla realtà sociale dell’Italia.
Il movimento di tecnici/mpiegati ebbe, come accennato, forme di organizzazione, di partecipazione e di lotta che rieccheggiavano quelle del movimento studentesco: gruppi e “comitati di base”, generalmente estranei alle organizzazioni sindacali, che all’interno delle aziende mettevano a fuoco aspetti critici della condizone di lavoro della loro categoria e ne determinavano fra i colleghi la consapevolezza; la messa in campo di rivendicazioni e l’apertura di vertenze unificanti per tutti quei lavoratori; assemblee molto partecipate e formalmente decisionali su ogni passaggio significativo delle vertenze, anche se erano i leaders nel frattempo emersi a condizionare l’orientamento dei partecipanti; forme di lotta non troppo economicamente dispendiose ma incisive nel mettere in difficoltà le direzioni aziendali, quali astensione dal lavoro solo per qualche ora al giorno combinate però con iniziative inedite e tali da avere grande risonanza pubblica.
Quello che si sviluppò alla Sit Siemens fu alquanto rappresentativo delle dinamiche dei movimenti in altre aziende milanesi, nonché dei loro esiti, compreso certi percorsi personali di vita che ne scaturirono. Perché con i movimenti sociali e le lotte sindacali del ’68 e ’69 si avviarono profondi e positivi cambiamenti nella condizione dei lavoratori ma prese anche piede fra alcuni dei protagonisti una grande utopia, quella di poter rivoltare dalle radici la società, utopia che fece smarrire il senso della realtà e produsse funeste conseguenze.
3 - Protagonisti di una inedita vertenza aziendale
Per l’anno accademico 1967-’68 m’iscrissi anch’io al corso serale di Economia e Commercio della Cattolica. Da subito mi trovai quindi dentro la contestazione studentesca, iniziata a Milano proprio in quella università, con le prime assemblee degli studenti già nell’ottobre ‘67 e la prima occupazione della sede il 17 novembre - nella quale emerse la figura di Mario Capanna - seguita dallo sgombero disposto dal rettore e attuata con l’intervento delle forze di polizia.
All’inizio del ’68, con due giovani colleghi di lavoro, che vivevano anche loro precariamente a Milano, condivisi l’affitto di un bilocale che attrezzammo con mobili usati. Condividemmo così anche le esperienze sindacali e politiche di quel periodo.
Assieme avemmo il primo contatto con l’organizzazione sindacale: un volantino distribuito all’uscita dal lavoro che annunciava lo sciopero provinciale per il 6 marzo contro la riforma, giudicata troppo limitata, del sistema pensionistico italiano, in approvazione alle Camere. In ufficio nessuno ne aveva parlato, pareva che nessuno avesse intenzione di aderirvi. Anche uno dei miei due compagni, che proveniva da un comune mantovano, era incerto, ma il secondo, reggiano, figlio di un salariato agricolo, esclamò subito: Ohe, ragasoli, io non sono venuto da Sant’Ilario d’Enza a Milano per fare il crumiro!”. E cosi tutti e tre il 6 ci astenemmo dal lavoro e andammo ad assistere al comizio sindacale in P.za Castello, fieri del nostro atto di libertà.
Il giorno dopo constatammo che della trentina d’impiegati della nostra ala del palazzo uffici eravamo gli unici ad aver scioperato. Sembrava il nostro un gesto veramente fuori dall’ordinario. Fummo addirittura chiamati dal dirigente del reparto a spiegare il perché di quell’atto: eravamo scontenti dell’azienda? Ce la cavammo dicendo che avevamo i genitori vicino all’età della pensione e c’importava molto un miglioramento dei trattamenti pensionistici.
Questo era lo stato della sindacalizzazione fra i miei colleghi della Sit Siemens nel marzo del ’68 e l’atteggiamento dei dirigenti nei confronti di chi fra di essi si permetteva di aderire a scioperi.
Ma proprio in quei giorni fu distribuito all’uscita dal lavoro un’altro volantino nel quale era scritto che un gruppo di impiegati dell’azienda proponeva a tutti un incontro nei locali di un vicino circolo cooperativo “per compiere assieme un analisi della posizione degli impiegati, dei rapporti di potere all’interno dell’azienda, della logica della politica aziendale … visto che siamo sottoposti ad un declassamento del lavoro e a un ridimensionamento della nostra posizione”.
A quel primo incontro ne seguirono altri con frequenza di norma settimanale. I partecipanti da una decina iniziali salirono ad una ventina. Nacque cosi il “Gruppo di Studio della Sit Siemens” (GdS), la cui notorietà si diffuse in seguito a Milano, suscitando la nascita di GdS fra i tecnici e gli impiegati di altre aziende. Io e i miei due amici fummo fra i primi aderenti. Tutti i componenti erano abbastanza giovani, trentenni al massimo.
Nelle riunioni teneva banco un nostro collega proveniente dal mondo cattolico e componente della Commissione Interna sindacale, eletto nella lista della Fim-Cisl, Gaio Di Silvestro: a lui si doveva l’idea di quella iniziativa. A volte partecipava anche il capo della C.I., lui della Fiom e comunista, ma i suoi interventi, sempre misurati, tradivano un po’ di diffidenza nei confronti di quella iniziativa degli impiegati. Lo sapevamo molto ascoltato dagli operai dell’azienda, popolarissimo fra le operaie: nel settembre del 1970 sarà licenziato con l’accusa di averne costretta una ad aderire allo sciopero del suo reparto, la magistratura annullerà il provvedimento e la direzione della Sit Siemens, pur di impedirgli la presenza nella fabbrica gli verserà la retribuzione senza prestazioni di lavoro, per due anni, cioè fino a quando non venne assunto dalla AEM del Comune di Milano.
Fra i partecipanti al GdS anche un perito, come me, in telecomunicazioni, ma di due anni più giovane, che proveniva dal marchigiano San Benedetto del Tronto, assunto alla Sit Siemens come me nel gennaio ’67 (verrà trovata nell’azienda una lettera di raccomandazione del suo parroco) ed iscritto anche lui alla facoltà serale dell’Università Cattolica. Si chiamava Mario Moretti.
La sua figura mi tornò in mente anni dopo quando i giornali ne diffusero la foto ed il nome assieme a quelli di altri tre ricercati quali membri delle Brigate Rosse, accusati fra l’altro del sequestro di dirigenti industriali, compreso uno della Sit Siemens. In quella fase Moretti era molto legato all’esponente della Fim-Cisl e nelle sue memorie ricorderà di aver partecipato ad un convegno di quel sindacato a San Pellegrino Terme (BG) presieduto da segretario nazione Pierre Carniti. Non ricordo particolari suoi contributi alle discussioni, piuttosto una certa insofferenza a chi negli interventi la faceva troppo lunga.
In quelle riunioni si cercò di mettere a fuoco gli aspetti critici della condizione dei tecnici ed impiegati nella vita dell’azienda e furono fissate alcune possibili richieste da avanzare alla direzione. Riguardavano l’aggiornamento professionale, i passaggi di categoria, la trasparenza nelle decisioni aziendale riguardo al personale (i periodici giudizi di merito dei dirigenti su tecnici e impiegati avrebbero dovuti essere loro comunicati e gli aumenti economici di merito resi pubblici). Si pose anche il tema retribuzioni, ipotizzando l’alternativa fra un aumento mensile di 10.000 lire uguali per tutti o in percentuale sulla busta paga.
Nel settembre di quel 1968 quanto definito dal GdS fu sottoposto a referendum fra tutti i tecnici ed impiegati, con distribuzione al loro ingresso nel palazzo uffici di un apposito questionario e raccolta all’uscita.
Era un referendum su una piattaforma moderata e che venne indicata non come apertura di un conflitto con l’azienda ma come responsabile ricerca di una collocazione più appropriata e gratificante degli impiegati al suo interno, per il bene dell’azienda stessa.
Il referendum ebbe molto successo, per l’interesse suscitato e il numero di questionari restituiti. Riguardo la richiesta retributiva prevalse la preferenza per un aumento uguale per tutti.
Sulla base delle risposte e attraverso nuove riunioni che videro una crescente partecipazione anche se non ancora di massa, nel GdS mettemmo a punto la piattaforma delle richieste, presentate poi alla Direzione dell’azienda, nel novembre di quel 1968, formalmente tramite le organizzazioni sindacali Fiom, Fim e Uilm, con richiesta di un incontro fra le parti.
Nel frattempo alla Sit Siemens si era aperta una vertenza pure in tre reparti di produzione. Dopo due ore di sciopero i rappresentanti sindacali furono invitati a trattare e conclusero l’accordo sulle questioni poste. L’azienda continuava invece a rifiutarsi di prendere in considerazione le richieste dei tecnici/impiegati. In quel tempo infatti il mondo delle imprese, mentre considerava normale che gli operai attraverso i sindacati avanzassero richieste ed entrassero in sciopero e ritenesse quindi opportuno trattare ed arrivare ad un compromesso, considerava un precedente pericoloso cedere alle rivendicazioni di tecnici ed impiegati, riconoscere anche questi quale controparte degli interessi aziendali.
Infastidiva in particolare quel GdS che si era posto come voce diretta degli impiegati e continuava a mettere il naso nell' organizzazione e la vita degli uffici. A esempio, in un volantino distribuito in gennaio dal titolo “L’impiegata in Siemens: una macchina da scrivere?” si denunciava che alle donne erano ufficialmente attribuite solo mansioni esecutiva e che le stesse venivano “tutte sbrigativamente qualificate con il termine di ‘dattilografe’ anche se diplomate e impiegate quali ragioniere, interpreti e segretarie d’azienda, solo perché, a differenza degli uomini, sapevano anche scrivere a macchina”.
La Direzione accettò infine, nel gennaio del nuovo anno, 1969, un incontro con una rappresentanza sindacale (si era opposta alla presenza in essa di esponenti del GdS), ma solo per comunicare che rigettava tutte le richieste degli impiegati, con la motivazione che a questi nella Sit Siemens era già assicurato un trattamento migliore che in altre aziende.
La risposta suscitò lo sdegno generale degli impiegati e da allora si ebbe una partecipazione di massa alle riunioni e alle iniziative del GdS, tanto che l’assemblea per discutere quell’esito e decidere come procedere si dovette tenere nel Palazzo dello sport - il PalaLido - di piazza Stuparich, e cosi quelle successive, tanto numerosi erano i partecipanti.
L’assemblea decise la proclamazione dello sciopero, ma, affinché le persone non rimanessero semplicemente a casa dal lavoro, l’astensione fu prevista per due ore al giorno in diversi giorni successivi e combinata con iniziative esterne
Una iniziativa originale, architettata dai componenti del GdS e messa in atto l’11 febbraio ‘69 “per richiamare l’attenzione sui nostri problemi e sulla nostra lotta, visto il silenzio della stampa cosiddetta indipendente”, consisté nella occupazione in massa, ma muniti di regolare biglietto, di un convoglio della metropolitana (era in funzione a Milano dal ’64 la prima linea) sul tragitto andata e ritorno Piazzale Lotto - Sesto Marelli, determinando un prolungamento delle soste alle ventuno fermate per la distribuzione di un volantino agli utenti in attesa lungo i binari che arrivasse il successivo convoglio. Un’altra iniziativa fu quella di circondare il vasto isolato in cui stava il complesso aziendale con la catena umana degli impiegati in sciopero, muniti di una miriade di “dazibao”.
A quel punto gli organi d’informazione furono costretti a parlare della inedita discesa in campo degli impiegati e le vertenza dei tecnici/impiegati si allargarono ancora più dalla Sit Siemens ad altre aziende. E finalmente la Direzione, il 7 marzo, dopo un nuovo incontro e breve trattativa con la rappresentanza sindacale, sottoscrisse l’accordo integrativo aziendale che accoglieva quasi integralmente le richieste di noi tecnici e impiegati, accordo che approvammo in una ultima assemblea al PalaLido gestita dal GdS.
All’inizio del ’68, con due giovani colleghi di lavoro, che vivevano anche loro precariamente a Milano, condivisi l’affitto di un bilocale che attrezzammo con mobili usati. Condividemmo così anche le esperienze sindacali e politiche di quel periodo.
Assieme avemmo il primo contatto con l’organizzazione sindacale: un volantino distribuito all’uscita dal lavoro che annunciava lo sciopero provinciale per il 6 marzo contro la riforma, giudicata troppo limitata, del sistema pensionistico italiano, in approvazione alle Camere. In ufficio nessuno ne aveva parlato, pareva che nessuno avesse intenzione di aderirvi. Anche uno dei miei due compagni, che proveniva da un comune mantovano, era incerto, ma il secondo, reggiano, figlio di un salariato agricolo, esclamò subito: Ohe, ragasoli, io non sono venuto da Sant’Ilario d’Enza a Milano per fare il crumiro!”. E cosi tutti e tre il 6 ci astenemmo dal lavoro e andammo ad assistere al comizio sindacale in P.za Castello, fieri del nostro atto di libertà.
Il giorno dopo constatammo che della trentina d’impiegati della nostra ala del palazzo uffici eravamo gli unici ad aver scioperato. Sembrava il nostro un gesto veramente fuori dall’ordinario. Fummo addirittura chiamati dal dirigente del reparto a spiegare il perché di quell’atto: eravamo scontenti dell’azienda? Ce la cavammo dicendo che avevamo i genitori vicino all’età della pensione e c’importava molto un miglioramento dei trattamenti pensionistici.
Questo era lo stato della sindacalizzazione fra i miei colleghi della Sit Siemens nel marzo del ’68 e l’atteggiamento dei dirigenti nei confronti di chi fra di essi si permetteva di aderire a scioperi.
Ma proprio in quei giorni fu distribuito all’uscita dal lavoro un’altro volantino nel quale era scritto che un gruppo di impiegati dell’azienda proponeva a tutti un incontro nei locali di un vicino circolo cooperativo “per compiere assieme un analisi della posizione degli impiegati, dei rapporti di potere all’interno dell’azienda, della logica della politica aziendale … visto che siamo sottoposti ad un declassamento del lavoro e a un ridimensionamento della nostra posizione”.
A quel primo incontro ne seguirono altri con frequenza di norma settimanale. I partecipanti da una decina iniziali salirono ad una ventina. Nacque cosi il “Gruppo di Studio della Sit Siemens” (GdS), la cui notorietà si diffuse in seguito a Milano, suscitando la nascita di GdS fra i tecnici e gli impiegati di altre aziende. Io e i miei due amici fummo fra i primi aderenti. Tutti i componenti erano abbastanza giovani, trentenni al massimo.
Nelle riunioni teneva banco un nostro collega proveniente dal mondo cattolico e componente della Commissione Interna sindacale, eletto nella lista della Fim-Cisl, Gaio Di Silvestro: a lui si doveva l’idea di quella iniziativa. A volte partecipava anche il capo della C.I., lui della Fiom e comunista, ma i suoi interventi, sempre misurati, tradivano un po’ di diffidenza nei confronti di quella iniziativa degli impiegati. Lo sapevamo molto ascoltato dagli operai dell’azienda, popolarissimo fra le operaie: nel settembre del 1970 sarà licenziato con l’accusa di averne costretta una ad aderire allo sciopero del suo reparto, la magistratura annullerà il provvedimento e la direzione della Sit Siemens, pur di impedirgli la presenza nella fabbrica gli verserà la retribuzione senza prestazioni di lavoro, per due anni, cioè fino a quando non venne assunto dalla AEM del Comune di Milano.
Fra i partecipanti al GdS anche un perito, come me, in telecomunicazioni, ma di due anni più giovane, che proveniva dal marchigiano San Benedetto del Tronto, assunto alla Sit Siemens come me nel gennaio ’67 (verrà trovata nell’azienda una lettera di raccomandazione del suo parroco) ed iscritto anche lui alla facoltà serale dell’Università Cattolica. Si chiamava Mario Moretti.
La sua figura mi tornò in mente anni dopo quando i giornali ne diffusero la foto ed il nome assieme a quelli di altri tre ricercati quali membri delle Brigate Rosse, accusati fra l’altro del sequestro di dirigenti industriali, compreso uno della Sit Siemens. In quella fase Moretti era molto legato all’esponente della Fim-Cisl e nelle sue memorie ricorderà di aver partecipato ad un convegno di quel sindacato a San Pellegrino Terme (BG) presieduto da segretario nazione Pierre Carniti. Non ricordo particolari suoi contributi alle discussioni, piuttosto una certa insofferenza a chi negli interventi la faceva troppo lunga.
In quelle riunioni si cercò di mettere a fuoco gli aspetti critici della condizione dei tecnici ed impiegati nella vita dell’azienda e furono fissate alcune possibili richieste da avanzare alla direzione. Riguardavano l’aggiornamento professionale, i passaggi di categoria, la trasparenza nelle decisioni aziendale riguardo al personale (i periodici giudizi di merito dei dirigenti su tecnici e impiegati avrebbero dovuti essere loro comunicati e gli aumenti economici di merito resi pubblici). Si pose anche il tema retribuzioni, ipotizzando l’alternativa fra un aumento mensile di 10.000 lire uguali per tutti o in percentuale sulla busta paga.
Nel settembre di quel 1968 quanto definito dal GdS fu sottoposto a referendum fra tutti i tecnici ed impiegati, con distribuzione al loro ingresso nel palazzo uffici di un apposito questionario e raccolta all’uscita.
Era un referendum su una piattaforma moderata e che venne indicata non come apertura di un conflitto con l’azienda ma come responsabile ricerca di una collocazione più appropriata e gratificante degli impiegati al suo interno, per il bene dell’azienda stessa.
Il referendum ebbe molto successo, per l’interesse suscitato e il numero di questionari restituiti. Riguardo la richiesta retributiva prevalse la preferenza per un aumento uguale per tutti.
Sulla base delle risposte e attraverso nuove riunioni che videro una crescente partecipazione anche se non ancora di massa, nel GdS mettemmo a punto la piattaforma delle richieste, presentate poi alla Direzione dell’azienda, nel novembre di quel 1968, formalmente tramite le organizzazioni sindacali Fiom, Fim e Uilm, con richiesta di un incontro fra le parti.
Nel frattempo alla Sit Siemens si era aperta una vertenza pure in tre reparti di produzione. Dopo due ore di sciopero i rappresentanti sindacali furono invitati a trattare e conclusero l’accordo sulle questioni poste. L’azienda continuava invece a rifiutarsi di prendere in considerazione le richieste dei tecnici/impiegati. In quel tempo infatti il mondo delle imprese, mentre considerava normale che gli operai attraverso i sindacati avanzassero richieste ed entrassero in sciopero e ritenesse quindi opportuno trattare ed arrivare ad un compromesso, considerava un precedente pericoloso cedere alle rivendicazioni di tecnici ed impiegati, riconoscere anche questi quale controparte degli interessi aziendali.
Infastidiva in particolare quel GdS che si era posto come voce diretta degli impiegati e continuava a mettere il naso nell' organizzazione e la vita degli uffici. A esempio, in un volantino distribuito in gennaio dal titolo “L’impiegata in Siemens: una macchina da scrivere?” si denunciava che alle donne erano ufficialmente attribuite solo mansioni esecutiva e che le stesse venivano “tutte sbrigativamente qualificate con il termine di ‘dattilografe’ anche se diplomate e impiegate quali ragioniere, interpreti e segretarie d’azienda, solo perché, a differenza degli uomini, sapevano anche scrivere a macchina”.
La Direzione accettò infine, nel gennaio del nuovo anno, 1969, un incontro con una rappresentanza sindacale (si era opposta alla presenza in essa di esponenti del GdS), ma solo per comunicare che rigettava tutte le richieste degli impiegati, con la motivazione che a questi nella Sit Siemens era già assicurato un trattamento migliore che in altre aziende.
La risposta suscitò lo sdegno generale degli impiegati e da allora si ebbe una partecipazione di massa alle riunioni e alle iniziative del GdS, tanto che l’assemblea per discutere quell’esito e decidere come procedere si dovette tenere nel Palazzo dello sport - il PalaLido - di piazza Stuparich, e cosi quelle successive, tanto numerosi erano i partecipanti.
L’assemblea decise la proclamazione dello sciopero, ma, affinché le persone non rimanessero semplicemente a casa dal lavoro, l’astensione fu prevista per due ore al giorno in diversi giorni successivi e combinata con iniziative esterne
Una iniziativa originale, architettata dai componenti del GdS e messa in atto l’11 febbraio ‘69 “per richiamare l’attenzione sui nostri problemi e sulla nostra lotta, visto il silenzio della stampa cosiddetta indipendente”, consisté nella occupazione in massa, ma muniti di regolare biglietto, di un convoglio della metropolitana (era in funzione a Milano dal ’64 la prima linea) sul tragitto andata e ritorno Piazzale Lotto - Sesto Marelli, determinando un prolungamento delle soste alle ventuno fermate per la distribuzione di un volantino agli utenti in attesa lungo i binari che arrivasse il successivo convoglio. Un’altra iniziativa fu quella di circondare il vasto isolato in cui stava il complesso aziendale con la catena umana degli impiegati in sciopero, muniti di una miriade di “dazibao”.
A quel punto gli organi d’informazione furono costretti a parlare della inedita discesa in campo degli impiegati e le vertenza dei tecnici/impiegati si allargarono ancora più dalla Sit Siemens ad altre aziende. E finalmente la Direzione, il 7 marzo, dopo un nuovo incontro e breve trattativa con la rappresentanza sindacale, sottoscrisse l’accordo integrativo aziendale che accoglieva quasi integralmente le richieste di noi tecnici e impiegati, accordo che approvammo in una ultima assemblea al PalaLido gestita dal GdS.
Foto sopra: Milano, 11 febbraio 1969, gli impiegati della SIT Siemens manifestano occupando la metropolitana
Foto sopra: PalaLido (Mi), 11 dicembre 1969: l’assemblea dei lavoratori della SIT Siemens approva il nuovo CCLN dei metalmeccanici per il triennio 1970-‘71
4 - L“autunno caldo” del ‘69 e la nascita delle BR
Ho detto prima di certe affinità fra movimento studentesco e movimento dei tecnici ed impiegati, ma se simili furono le forme di agitazione – gruppi di studio e comitati di base, assemblee, cortei, dazibao – va però precisato che mentre il movimento degli studenti non riuscì a definire una propria piattaforma di cambiamento dell’università e già nella seconda metà del ’68 l’abbandonò come terreno di lotta e si frantumò in una serie di gruppi politici impegnati, in concorrenza fra di loro, a contestare nel suo complesso il sistema economico, sociale e politico dell’italia e le stesse tradizionali organizzazioni sindacali dei lavoratori, il movimento dei tecnici e degli impiegati si pose e conseguì alcuni risultati concreti per la propria categoria e contribuì anche al rinnovamento delle organizzazioni sindacali. La stessa piattaforma rivendicativa di Fiom-Fim-Uilm per il rinnovo del Contratto Nazionale di Lavoro dei metalmeccanici che, a fronte della resistenze delle aziende del settore, produsse l“autunno caldo” del ’69, ebbe contenuti nuovi quali la richiesta di aumenti salariali uguali per tutti, eliminazione o stretto controllo del cottimo, diritto delle assemblee sui luoghi di lavoro. E anche gli impiegati e tecnici “sindacalizzati” dalla loro vertenza di categoria, furono protagonisti di quell“autunno caldo”.
E’ peraltro vero che, per certi tratti intellettuali comuni con i quadri del movimento studentesco, alcuni dei componenti i “comitati di base” finirono per confuire nei nuovi gruppi policiti radicali e concorsero a contestare le organizzazioni sindacali e a condurre la lotta al “sistema” nelle forme anche più estreme, come avverrà appunto alla Sit Siemens.
Fra i dipendenti della Sit Siemens aveva un buon numero di iscritti il Pci che in quel periodo cominciò a pubblicare un giornaletto specifico per i lavoratori dell’azienda, "Il nuovo centralino". Ma anche i nuovi gruppi politici cosiddetti extraparlamentari - Avanguadia Operaia, Potere Operaio, Lotta continua e Movimento Studentesco con leader Mario Capanna – iniziarono a volantinare sitematicamente agli ingressi dell’azienda, a cercare contatti con i lavoratori per farli aderire alle proprie idee e al proprio gruppo politico. Che qualche risultato lo avessero ottenuto fra i tecnici/impiegati, marginalmente fra gli operai, lo si constatò in occasione delle lotte dell“autunno caldo” per il rinnovo del CNL dei metalmeccanici.
Alla Sit Siemens rinacque il GdS, che ora si definì però “Gruppo di studio operai impiegati” (GdS OI). Io ed i miei due compagni d’appartamento ci sentivamo ora essenzialmente impegnati con la sezione sindacale della Fiom, ma avevamo nei primi tempi cercato di partecipare anche a riunioni di quel gruppo. Però la sua composizione era cambiata, anche se ci ritrovammo Moretti e Di Silvestro, ma soprattutto erano cambiate gli atteggiamenti, diventati polemici nei confronti della gestione sindacale della vertenza contrattuale. Noi non li condividavamo e quindi cessammo di frequentare il gruppo.
Già il 17 settembre, dopo il primo riuscitissimo sciopero per il contratto, quel gruppo in cui non mi riconoscevo più, distribuì un volantino nel quale, in riferimento all’iniziativa assunta dalle Sezioni sindacali aziendali Fiom-Fim-Uilm di far eleggere reparto per reparto dei delegati per la costituzione di un Comitato Unitario di Lotta, si affermava: “No alla delega… occorre realizzare l’autorganizzazione dei lavoratori… anche perché “si dovrà continuare la lotta anche dopo la firma del contratto”. Più avanti, un loro volantino sosteneva che “lo sciopero è solo una forma di lotta … spesso per ottenere certe cose basta solo prenderle”
Ricordo che mentre nell’ambito della Fiom eravamo inoltre preoccupati di evitare durante le manifestazioni sindacali atti violenti - quali la rottura di vetrate - questi venivano giustificati dai nuovi “comitati di base” e gruppi della nuova sinistra.
Alla Sit Siemens un episodio deprecato in un volantino sindacale fu invece pubblicizzato e portato ad esempio in un volantino del GdS O.I.: “Durante l’ultimo sciopero un corteo di lavoratori, salito all’ottavo piano del palazzo uffici per dare la caccia ai crumiri si è scontrato nel suo ufficio con l’amministratore delegato dell’azienda che, pressato fra la scrivania ed il muro, è sgusciato fuori e si è rifugiato in un altro ufficio. Divelta la porta i lavoratori lo hanno costretto a scendere dabbasso e ad intervenire nell’assemblea dei lavoratori che si stava svolgendo”.
Un altro episodio consisté nel far trovare a quell’amninistratore dell’azienda, nel momento in cui usciva la mattina dal suo appartamento, un cappio appeso sopra la porta, “fatto a regola d’arte” secondo quanto lo stesso comunicò con una circolare affissa sulle bacheche aziendali, nella quale era anche lamentato che diversi dirigenti avevano ricevuto minacciose lettere anonime.
Atti che possono essere considerati il primo segno della futura strategia delle Brigate Rosse: tramite intimidazioni, sequestri e omicidi, paralizzare la “classe padronale” e soprattutto provocare il collasso dello Stato, definito nei loro proclami “lo Stato imperialista delle multinazionali”.
Chi ha ricostruito la storia delle BR racconta che verso la fine dell’estate ’69 Renato Curcio e la moglie Margherita Cagol si erano trasferiti da Trento a Milano, attratti in particolare dall’esperienza del “comitato di base” della Pirelli, e avevano poi preso contatto con gli esponenti anche di altre formazione “di base” delle aziende.
Curcio lo ricordo personalmente - grassoccio a quel tempo, seduto con le gambe incrociate sopra un banco di un’aula dell’Università Cattolica, un tardo pomeriggio all’inizio dell’anno accademico ’69/’70 - rivolgere ad un gruppo di studenti ragionamenti che a quel tempo mi suonavano nuovi e strani: che le lotte fatte fino ad allora nelle università e nelle stesse fabbriche finivano per essere funzionali al sistema, che era necessario costruire una vera organizzazione rivoluzionaria e portare la lotta più complessivamente nella città, uscendo anche dal terreno della legalità.
Nel settembre ’69, in una riunione a Milano presso un vecchio teatro in disuso, Renato Curcio aveva infatti costituito il Collettivo Politico Metropolitano (CPM) fra esponenti dei comitati di base della Sit Siemens (fra cui Mario Moretti e Gaio di Silvestro) della IBM, Alfa Romeo, Marelli, e di qualche collettivo del movimento studentesco. Le prese di posizione ed i comportamenti di chi, nell’autunno ’69, alla Sit Siemens si firmava GdS O.I., riflettevano quelle maturate in quel CPM, secondo il quale le lotte in corso non dovevano essere solo finalizzate alla conquista di un migliore contratto di lavoro ma rappresentare la base per una lotta continua contro il “sistema”, trasferendole quindi anche fuori dalle fabbriche per investire l’intera area metropolitana.
Ho conservato in particolare il ricordo di Mario Moretti perché quando, anche tramite la mediazione del ministro del lavoro Donat Cattin, si arrivò all’accordo sul CLN dei metalmeccanici - il 9 dicembre di quel 1969 per la aziende a partecipazione statale, il 21 per le aziende aderenti alla Confindustria - e tutti i dipendenti della Sit Siemens furono dai sindacati convocati in assemblea al solito PalaLido per l’esame e la messa in votazione dell’accordo, Moretti, a nome del suddetto nuovo GdS O.I., ne diede un giudizio negativo ed invitò i lavoratori a respingerlo. Io allora fui pregato da esponenti della Fiom di replicare quale componente dell’originale GdS. Lo feci sottolineando che i contenuti del nuovo contratto non rispondevano a tutte le aspettative di noi lavoratori impiegati ed operai, ma che la firma dell’accordo sanciva importanti conquiste, sulla base delle quali nel futuro potevamo porci più avanzati obiettivi.
Allora non prevedevo che dopo pochi mesi, nell’aprile del ’70, avrei invece lasciato quell’azienda e, a malincuore, i miei legami milanesi, per ritornare e assumere a Piacenza un nuovo impegno politico-ammnistrativo.
Nel frattempo, l’11 novembre del ’69, mentre era ancora in corso la lotta dei metalmeccanici per il contratto, una settantina di aderenti al CPM si ritrovarono in un convegno riservato presso una pensione di Chiavari. Presente Moretti e probabilmente Di Silvestro e altri dell’ultimo GdS O.I. della Sit Siemens. In quella occasione comiciarono a discutere apertamente di lotta armata proletaria, ma con valutazioni ancora diversificate. Poi, mentre forze eversive di destra, con la strage di Piazza Fontana del 20 dicembre ’69, avviavano la “strategia della tensione”, anche una parte del CPM si mise apertamente sul terreno della illegalità e della violenza, per approdare infine, con nuovi aderenti, alla lotta armata e all’assassinio di “nemici del popolo”.
Alcuni del nucleo storico delle BR risultarono essere stati tecnici ed impiegati della Sit Siemens. I nomi che sono venuti alla luce negli anni successivi sono quelli del Moretti che, dopo l’arresto di Curcio, delle BR diverrà l’esponente più autorevole e lo stratega, Corrado Alunni, altro perito in telecomunicazioni, Paola Besuchio, che da Trento si era trasferita a fare l’impiegata alla Sit Siemens, Pierluigi Zuffada, Giuliano Isa e Umberto Farioli. Invece Gaio Di Silvestro seguì inizialmente i compagni di cui era stato alla Sit Siemens un leader ma poi, secondo una dichiarazione di Moretti, si allontanò.
La prima operazione a mano armata a cui partecipò Moretti fu la rapina ad una banca, per finanziare l’organizzazione, mentre la prima azione in cui comparirà il simbolo delle BR, la stella a cinque punte, sarà, il 17 settembre 1970, quella dell’incendio dell’auto e dell’autorimessa di un dirigente della Sit Siemens, Giuseppe Leoni. Il primo sequestrato, il 3 marzo 1972, sarà ancora un dirigente delle Sit Siemens, Idalgo Macchiarini. Quell’azione costituì il momento del debutto pubblico delle BR, perché dalle stesse fu diffusa l’immagine del sequestrato, su un furgone, con due pistole puntate alla tempia, sullo sfondo la stella a cinque punte, e al collo un cartello con la scritta che delle BR rappresentava la strategia “antipadronale” di quella fase e l’ambizione finale: “Brigate Rosse - Mordi e fuggi - Niente resterà impunito - Colpiscine uno per educarne cento! - Tutto il potere al popolo armato!”
E’ peraltro vero che, per certi tratti intellettuali comuni con i quadri del movimento studentesco, alcuni dei componenti i “comitati di base” finirono per confuire nei nuovi gruppi policiti radicali e concorsero a contestare le organizzazioni sindacali e a condurre la lotta al “sistema” nelle forme anche più estreme, come avverrà appunto alla Sit Siemens.
Fra i dipendenti della Sit Siemens aveva un buon numero di iscritti il Pci che in quel periodo cominciò a pubblicare un giornaletto specifico per i lavoratori dell’azienda, "Il nuovo centralino". Ma anche i nuovi gruppi politici cosiddetti extraparlamentari - Avanguadia Operaia, Potere Operaio, Lotta continua e Movimento Studentesco con leader Mario Capanna – iniziarono a volantinare sitematicamente agli ingressi dell’azienda, a cercare contatti con i lavoratori per farli aderire alle proprie idee e al proprio gruppo politico. Che qualche risultato lo avessero ottenuto fra i tecnici/impiegati, marginalmente fra gli operai, lo si constatò in occasione delle lotte dell“autunno caldo” per il rinnovo del CNL dei metalmeccanici.
Alla Sit Siemens rinacque il GdS, che ora si definì però “Gruppo di studio operai impiegati” (GdS OI). Io ed i miei due compagni d’appartamento ci sentivamo ora essenzialmente impegnati con la sezione sindacale della Fiom, ma avevamo nei primi tempi cercato di partecipare anche a riunioni di quel gruppo. Però la sua composizione era cambiata, anche se ci ritrovammo Moretti e Di Silvestro, ma soprattutto erano cambiate gli atteggiamenti, diventati polemici nei confronti della gestione sindacale della vertenza contrattuale. Noi non li condividavamo e quindi cessammo di frequentare il gruppo.
Già il 17 settembre, dopo il primo riuscitissimo sciopero per il contratto, quel gruppo in cui non mi riconoscevo più, distribuì un volantino nel quale, in riferimento all’iniziativa assunta dalle Sezioni sindacali aziendali Fiom-Fim-Uilm di far eleggere reparto per reparto dei delegati per la costituzione di un Comitato Unitario di Lotta, si affermava: “No alla delega… occorre realizzare l’autorganizzazione dei lavoratori… anche perché “si dovrà continuare la lotta anche dopo la firma del contratto”. Più avanti, un loro volantino sosteneva che “lo sciopero è solo una forma di lotta … spesso per ottenere certe cose basta solo prenderle”
Ricordo che mentre nell’ambito della Fiom eravamo inoltre preoccupati di evitare durante le manifestazioni sindacali atti violenti - quali la rottura di vetrate - questi venivano giustificati dai nuovi “comitati di base” e gruppi della nuova sinistra.
Alla Sit Siemens un episodio deprecato in un volantino sindacale fu invece pubblicizzato e portato ad esempio in un volantino del GdS O.I.: “Durante l’ultimo sciopero un corteo di lavoratori, salito all’ottavo piano del palazzo uffici per dare la caccia ai crumiri si è scontrato nel suo ufficio con l’amministratore delegato dell’azienda che, pressato fra la scrivania ed il muro, è sgusciato fuori e si è rifugiato in un altro ufficio. Divelta la porta i lavoratori lo hanno costretto a scendere dabbasso e ad intervenire nell’assemblea dei lavoratori che si stava svolgendo”.
Un altro episodio consisté nel far trovare a quell’amninistratore dell’azienda, nel momento in cui usciva la mattina dal suo appartamento, un cappio appeso sopra la porta, “fatto a regola d’arte” secondo quanto lo stesso comunicò con una circolare affissa sulle bacheche aziendali, nella quale era anche lamentato che diversi dirigenti avevano ricevuto minacciose lettere anonime.
Atti che possono essere considerati il primo segno della futura strategia delle Brigate Rosse: tramite intimidazioni, sequestri e omicidi, paralizzare la “classe padronale” e soprattutto provocare il collasso dello Stato, definito nei loro proclami “lo Stato imperialista delle multinazionali”.
Chi ha ricostruito la storia delle BR racconta che verso la fine dell’estate ’69 Renato Curcio e la moglie Margherita Cagol si erano trasferiti da Trento a Milano, attratti in particolare dall’esperienza del “comitato di base” della Pirelli, e avevano poi preso contatto con gli esponenti anche di altre formazione “di base” delle aziende.
Curcio lo ricordo personalmente - grassoccio a quel tempo, seduto con le gambe incrociate sopra un banco di un’aula dell’Università Cattolica, un tardo pomeriggio all’inizio dell’anno accademico ’69/’70 - rivolgere ad un gruppo di studenti ragionamenti che a quel tempo mi suonavano nuovi e strani: che le lotte fatte fino ad allora nelle università e nelle stesse fabbriche finivano per essere funzionali al sistema, che era necessario costruire una vera organizzazione rivoluzionaria e portare la lotta più complessivamente nella città, uscendo anche dal terreno della legalità.
Nel settembre ’69, in una riunione a Milano presso un vecchio teatro in disuso, Renato Curcio aveva infatti costituito il Collettivo Politico Metropolitano (CPM) fra esponenti dei comitati di base della Sit Siemens (fra cui Mario Moretti e Gaio di Silvestro) della IBM, Alfa Romeo, Marelli, e di qualche collettivo del movimento studentesco. Le prese di posizione ed i comportamenti di chi, nell’autunno ’69, alla Sit Siemens si firmava GdS O.I., riflettevano quelle maturate in quel CPM, secondo il quale le lotte in corso non dovevano essere solo finalizzate alla conquista di un migliore contratto di lavoro ma rappresentare la base per una lotta continua contro il “sistema”, trasferendole quindi anche fuori dalle fabbriche per investire l’intera area metropolitana.
Ho conservato in particolare il ricordo di Mario Moretti perché quando, anche tramite la mediazione del ministro del lavoro Donat Cattin, si arrivò all’accordo sul CLN dei metalmeccanici - il 9 dicembre di quel 1969 per la aziende a partecipazione statale, il 21 per le aziende aderenti alla Confindustria - e tutti i dipendenti della Sit Siemens furono dai sindacati convocati in assemblea al solito PalaLido per l’esame e la messa in votazione dell’accordo, Moretti, a nome del suddetto nuovo GdS O.I., ne diede un giudizio negativo ed invitò i lavoratori a respingerlo. Io allora fui pregato da esponenti della Fiom di replicare quale componente dell’originale GdS. Lo feci sottolineando che i contenuti del nuovo contratto non rispondevano a tutte le aspettative di noi lavoratori impiegati ed operai, ma che la firma dell’accordo sanciva importanti conquiste, sulla base delle quali nel futuro potevamo porci più avanzati obiettivi.
Allora non prevedevo che dopo pochi mesi, nell’aprile del ’70, avrei invece lasciato quell’azienda e, a malincuore, i miei legami milanesi, per ritornare e assumere a Piacenza un nuovo impegno politico-ammnistrativo.
Nel frattempo, l’11 novembre del ’69, mentre era ancora in corso la lotta dei metalmeccanici per il contratto, una settantina di aderenti al CPM si ritrovarono in un convegno riservato presso una pensione di Chiavari. Presente Moretti e probabilmente Di Silvestro e altri dell’ultimo GdS O.I. della Sit Siemens. In quella occasione comiciarono a discutere apertamente di lotta armata proletaria, ma con valutazioni ancora diversificate. Poi, mentre forze eversive di destra, con la strage di Piazza Fontana del 20 dicembre ’69, avviavano la “strategia della tensione”, anche una parte del CPM si mise apertamente sul terreno della illegalità e della violenza, per approdare infine, con nuovi aderenti, alla lotta armata e all’assassinio di “nemici del popolo”.
Alcuni del nucleo storico delle BR risultarono essere stati tecnici ed impiegati della Sit Siemens. I nomi che sono venuti alla luce negli anni successivi sono quelli del Moretti che, dopo l’arresto di Curcio, delle BR diverrà l’esponente più autorevole e lo stratega, Corrado Alunni, altro perito in telecomunicazioni, Paola Besuchio, che da Trento si era trasferita a fare l’impiegata alla Sit Siemens, Pierluigi Zuffada, Giuliano Isa e Umberto Farioli. Invece Gaio Di Silvestro seguì inizialmente i compagni di cui era stato alla Sit Siemens un leader ma poi, secondo una dichiarazione di Moretti, si allontanò.
La prima operazione a mano armata a cui partecipò Moretti fu la rapina ad una banca, per finanziare l’organizzazione, mentre la prima azione in cui comparirà il simbolo delle BR, la stella a cinque punte, sarà, il 17 settembre 1970, quella dell’incendio dell’auto e dell’autorimessa di un dirigente della Sit Siemens, Giuseppe Leoni. Il primo sequestrato, il 3 marzo 1972, sarà ancora un dirigente delle Sit Siemens, Idalgo Macchiarini. Quell’azione costituì il momento del debutto pubblico delle BR, perché dalle stesse fu diffusa l’immagine del sequestrato, su un furgone, con due pistole puntate alla tempia, sullo sfondo la stella a cinque punte, e al collo un cartello con la scritta che delle BR rappresentava la strategia “antipadronale” di quella fase e l’ambizione finale: “Brigate Rosse - Mordi e fuggi - Niente resterà impunito - Colpiscine uno per educarne cento! - Tutto il potere al popolo armato!”
Foto sopra da sinistra a destra: Mario Moretti e Corrado Alunni, già p.i. impiegati alla SIT Siemens
Foto sopra: il primo sequestro effettuato dalle BR: il dirigente Idalgo Macchiarini della SIT Siemens
A Milano anche Moretti, dopo l’assunzione alla Sit Siemes, era andato ad abitare un appartamento in comune con amici, si era sposato nel settembre ’69 e l’anno dopo aveva avuto un figlio, rimanendo però in quel grande appartamento diventato una vera e propria “comune” fra più coppie. Rimase dipendente della Sit Siemens fino al settembre del ’71. Alle elezione della Commissione Interna sindacale del maggio ’70, pur già aderente al CPM di Curcio si era era candidato con la Fim-Cisl ma non fu eletto mentre lo fu ancora il Di Silvestro, ma anche la Fiom ebbe per la prima volta un componente nella C.I. eletto dai tecnici/impiegati
Nel settembre ’71 Moretti si licenziò dall’azienda per diventare un “regolare” a tempo pieno delle BR, ma non ancora clandestino. Fu costretto ad entrare in clandestinità dopo che, il 2 maggio 1972, la polizia scoprì un covo delle BR a Milano in via Boiardo, presso il quale fu trovato l’auto di sua moglie. Si risalì a lui e nei suoi confronti fu emesso un mandato di cattura, ma solo nel maggio del ’74 le forze inquirenti diffusero pubblicamente il suo nome e la sua immagine con quelle di altri tre ricercati, fa cui Renato Curcio. Come è noto, si riuscì ad arrestarlo solo nel marzo del 1981 a Milano. Riconobbe fra l’altro di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Aldo Moro.
Piacenza non fu coinvolta da azioni terroristiche ma, come città appunto tranquilla e rapidamente raggiungibie dai maggiori centri urbani del Nord Italia in cui operavano le BR, fu sede di un loro “covo”. Era un piccolo appartamento in un edificio a quattro piani di via Campagna, composto da due stanze, una arredato come ufficio, l’altro da camera da letto. I carabinieri, che vi fecero irruzione dopo un lungo appostamento, non vi trovarono persone ma appunto volantini e documenti delle BR, nastri registrati, abiti e parrucche per travestimenti.
A mettere i carabinieri del generale Dalla Chiesa su quella pista era stata una ricevuta di 40.000 lire per spese condominiali, trovata in un altro covo delle BR scoperto poco prima nel milanese. Si risalì che l’appartamento era stato acquistato in contanti nel ’73 sotto falso nome – professoressa Moroni – da Margherita (Mara) Cagol, compagna di Renato Curcio, il quale aveva parteciato alle trattativa. Gli inquirenti ritennero che in quel covo fosse stato tenuto per qualche giorno il giudice Mario Sossi, sequestrato il 18 aprile di quel 1974 a Genova e liberato il 23 maggio a Milano. In quei 36 giorni la sua custodia era stata appunto affidata alla Cagol coadiuvata da altri due brigatisti.
Dopo l’arresto di Curcio nel settembre ’74 e della morte della Cagol nel giugno ’75 in uno scontro a fuoco con i carabinieri, la direzione delle operazioni passò a Mario Moretti che rappresentava, si è scritto, la componente più dura delle BR. Iniziò allora la fase più sanguinosa della loro storia. Gli omicidi da loro stessi riconosciuti alla fine sommarono a 88.
Che convinzioni mi sono fatto sul Moretti e il sanguinoso percorso di vita suo e degli altri componenti delle BR, dopo averlo conosciuto come un giovane sradicato, per motivi di lavoro, dall’ambiente in cui era cresciuto ed immerso in quel fermento d’idee, di aspettative, di protagonismi, di illusioni che negli ultimi anni sessanta a Milano produsse oltre a grandi movimenti sociali-sindacali anche i diversi gruppi politici estremistici della cosiddetta “nuova sinistra”?
La convinzione innanzitutto che per spiegare la storia sua e delle BR, compreso il sequestro e l’uccisione dell’on. Moro, non è necessario ricorrere alla tesi che fossero ad un certo punto diventati strumento di potenze straniere e dei loro servizi segreti i quali ne avrebbero ispirato e agevolato le azioni.
La convinzione invece che in una determinata situazione sociale, politica e culturale, quale fu quella in Italia degli anni settata, caratterizzata fra l’altro dal “terrorismo nero” delle stragi, possa si avvenire che, dalla critica alla società in cui vivevano e dall’idea che le tradizionali organizzazioni sindacali e politiche del mondo del lavoro tradissero i loro compiti, dei giovani lavoratori e studenti, certamente non privi di una buona dose di personale presunzione e montandosi la testa reciprocamente, da atti facili da compiere e senza gravi conseguenze, quale l'incendio dell’auto di un dirigente “nemico dei lavoratori”, passo passo, incoraggiati dal successo e dalla risonanza pubblica, giungano ad attentare alla stessa vita dei “nemici”. Con pistole e mitra a disposizione si saranno anche sentiti onnipotenti.
Non sono però in grado di dire se, per giungere a programmare ed attuare freddamente l’uccisione di una persona, occorra avere anche un’originaria predisposizione al crimine.
Nel settembre ’71 Moretti si licenziò dall’azienda per diventare un “regolare” a tempo pieno delle BR, ma non ancora clandestino. Fu costretto ad entrare in clandestinità dopo che, il 2 maggio 1972, la polizia scoprì un covo delle BR a Milano in via Boiardo, presso il quale fu trovato l’auto di sua moglie. Si risalì a lui e nei suoi confronti fu emesso un mandato di cattura, ma solo nel maggio del ’74 le forze inquirenti diffusero pubblicamente il suo nome e la sua immagine con quelle di altri tre ricercati, fa cui Renato Curcio. Come è noto, si riuscì ad arrestarlo solo nel marzo del 1981 a Milano. Riconobbe fra l’altro di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Aldo Moro.
Piacenza non fu coinvolta da azioni terroristiche ma, come città appunto tranquilla e rapidamente raggiungibie dai maggiori centri urbani del Nord Italia in cui operavano le BR, fu sede di un loro “covo”. Era un piccolo appartamento in un edificio a quattro piani di via Campagna, composto da due stanze, una arredato come ufficio, l’altro da camera da letto. I carabinieri, che vi fecero irruzione dopo un lungo appostamento, non vi trovarono persone ma appunto volantini e documenti delle BR, nastri registrati, abiti e parrucche per travestimenti.
A mettere i carabinieri del generale Dalla Chiesa su quella pista era stata una ricevuta di 40.000 lire per spese condominiali, trovata in un altro covo delle BR scoperto poco prima nel milanese. Si risalì che l’appartamento era stato acquistato in contanti nel ’73 sotto falso nome – professoressa Moroni – da Margherita (Mara) Cagol, compagna di Renato Curcio, il quale aveva parteciato alle trattativa. Gli inquirenti ritennero che in quel covo fosse stato tenuto per qualche giorno il giudice Mario Sossi, sequestrato il 18 aprile di quel 1974 a Genova e liberato il 23 maggio a Milano. In quei 36 giorni la sua custodia era stata appunto affidata alla Cagol coadiuvata da altri due brigatisti.
Dopo l’arresto di Curcio nel settembre ’74 e della morte della Cagol nel giugno ’75 in uno scontro a fuoco con i carabinieri, la direzione delle operazioni passò a Mario Moretti che rappresentava, si è scritto, la componente più dura delle BR. Iniziò allora la fase più sanguinosa della loro storia. Gli omicidi da loro stessi riconosciuti alla fine sommarono a 88.
Che convinzioni mi sono fatto sul Moretti e il sanguinoso percorso di vita suo e degli altri componenti delle BR, dopo averlo conosciuto come un giovane sradicato, per motivi di lavoro, dall’ambiente in cui era cresciuto ed immerso in quel fermento d’idee, di aspettative, di protagonismi, di illusioni che negli ultimi anni sessanta a Milano produsse oltre a grandi movimenti sociali-sindacali anche i diversi gruppi politici estremistici della cosiddetta “nuova sinistra”?
La convinzione innanzitutto che per spiegare la storia sua e delle BR, compreso il sequestro e l’uccisione dell’on. Moro, non è necessario ricorrere alla tesi che fossero ad un certo punto diventati strumento di potenze straniere e dei loro servizi segreti i quali ne avrebbero ispirato e agevolato le azioni.
La convinzione invece che in una determinata situazione sociale, politica e culturale, quale fu quella in Italia degli anni settata, caratterizzata fra l’altro dal “terrorismo nero” delle stragi, possa si avvenire che, dalla critica alla società in cui vivevano e dall’idea che le tradizionali organizzazioni sindacali e politiche del mondo del lavoro tradissero i loro compiti, dei giovani lavoratori e studenti, certamente non privi di una buona dose di personale presunzione e montandosi la testa reciprocamente, da atti facili da compiere e senza gravi conseguenze, quale l'incendio dell’auto di un dirigente “nemico dei lavoratori”, passo passo, incoraggiati dal successo e dalla risonanza pubblica, giungano ad attentare alla stessa vita dei “nemici”. Con pistole e mitra a disposizione si saranno anche sentiti onnipotenti.
Non sono però in grado di dire se, per giungere a programmare ed attuare freddamente l’uccisione di una persona, occorra avere anche un’originaria predisposizione al crimine.
Bibliografia e fonti
- Piero Craveri, La crisi del 1968 e l’autunno caldo, in La storia d’Italia, vol. 22, Dal centrismo all’esperienza di centrosinistra, Utet/La biblioteca di Repubblica, 2005.
- Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, 2006.
- Marco Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Einaudi, 1995.
- Autori vari, Le lotte dei tecnici, Quaderni di Sindacato Moderno, n. 4, Roma 1970.
- P. Balzani, I tecnici verso una coscienza di classe, in “Quaderni piacentini” n. 39, 1969.
- B. Casati, 2010: Fiat-Sata di Melfi / 1970: Sit-Siemens di Milano. Il lato oscuro dell’impresa fra rappresaglie e repressioni, Aurora, 2011.
- Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Compton, 2007.
- Alberto Franceschini, Mara, Renato e io - Storia dei fondatori delle BR, Mondadori, 1988.
- Mario Moretti (intervistato da C. Mosca e R. Rossanda), Una storia italiana, Anabasi, 1994.
- Soccorso Rosso, Brigate Rosse, Feltrinelli, 1976.
- Archivio del Lavoro (Sesto San Giovanni), Fondo Siemens Telecomunicazioni (Commissione interna e Consiglio di fabbrica) e Tribuna sindacale, periodico della Sezione sindacale Fiom SIT Siemens.
- Raccolta di volantini, fogli e giornaletti politici distribuiti alla Sit Siemens fra il marzo del 1968 e l’aprile del 1970, conservata dall’autore del presente scritto.
- Piero Craveri, La crisi del 1968 e l’autunno caldo, in La storia d’Italia, vol. 22, Dal centrismo all’esperienza di centrosinistra, Utet/La biblioteca di Repubblica, 2005.
- Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, 2006.
- Marco Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Einaudi, 1995.
- Autori vari, Le lotte dei tecnici, Quaderni di Sindacato Moderno, n. 4, Roma 1970.
- P. Balzani, I tecnici verso una coscienza di classe, in “Quaderni piacentini” n. 39, 1969.
- B. Casati, 2010: Fiat-Sata di Melfi / 1970: Sit-Siemens di Milano. Il lato oscuro dell’impresa fra rappresaglie e repressioni, Aurora, 2011.
- Pino Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Compton, 2007.
- Alberto Franceschini, Mara, Renato e io - Storia dei fondatori delle BR, Mondadori, 1988.
- Mario Moretti (intervistato da C. Mosca e R. Rossanda), Una storia italiana, Anabasi, 1994.
- Soccorso Rosso, Brigate Rosse, Feltrinelli, 1976.
- Archivio del Lavoro (Sesto San Giovanni), Fondo Siemens Telecomunicazioni (Commissione interna e Consiglio di fabbrica) e Tribuna sindacale, periodico della Sezione sindacale Fiom SIT Siemens.
- Raccolta di volantini, fogli e giornaletti politici distribuiti alla Sit Siemens fra il marzo del 1968 e l’aprile del 1970, conservata dall’autore del presente scritto.
Pagina pubblicata il 12 gennaio 2021