Debre Libanos
Anno XV E.F., il più grande massacro di cristiani in Africa
di Pierlino Bergonzi
Anno XV E.F., il più grande massacro di cristiani in Africa
di Pierlino Bergonzi
Immagine sopra: monaci di Debre Libanos in attesa per essere trasportati con gli autocarri sul luogo della fucilazione. Foto scattata il 20 maggio 1937 dal tenente Virgilio Cozzani del 45° battaglione e presa dal sito del quotidiano Avvenire che ringrazio. (Il documento fotografico originale è di proprietà dell’avvocato Luigi Pannella, appassionato di storia del colonialismo italiano in Africa).
Edmund Burke, filosofo inglese del ’700, ci ha lasciato questo monito: «Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla!». Il Qoelet invece è lapidario: «Tutto ciò che è già avvenuto accadrà ancora; tutto ciò che è successo in passato succederà anche in futuro. Non c’è niente di nuovo sotto il sole!». Secondo il testo biblico dell’Antico Testamento sembra scontato che in ogni caso si ripeteranno gli stessi errori del passato; sia che si conoscano sia che si ignorino.
Per educazione personale sono portato a dar maggior credito al Qoelet, ma vorrei tanto che avesse qualche ragione anche Burke, ed è con questo desiderio nel cuore che suggerisco il ricordo della più grande strage di cristiani in Africa, avvenuta nel secolo scorso a opera di altri cristiani: noi. Nel mese di maggio ricorre l’anniversario di quell’orrenda carneficina che, ahimè, è ancora poco conosciuta. Anche nelle scuole mi risulta che siano pagine non troppo discusse, quando non addirittura assenti.
Forse, come comunità, non abbiamo ancora la maturità e il coraggio di ammettere che anche noi italiani in fatto di atrocità non siamo secondi a nessuno. E semmai credessimo che noi “evoluti” non saremmo mai più capaci di tali infamie, inganneremmo solamente noi stessi: «Fin dalla sua giovinezza l’uomo ha in cuor suo solo inclinazioni malvagie.».
Tommaso da Kempis, monaco cristiano del ’300, che di anime e comportamenti umani se ne intendeva assai, ci ha donato un pensiero che attraversa i secoli senza perdere d’efficacia: «Anche se tu vedessi un altro cadere manifestamente in peccato, o commettere alcunché di grave, pur tuttavia non dovresti crederti migliore di lui; infatti non sai per quanto tempo tu possa persistere nel bene. Tutti siamo fragili; ma tu non devi ritenere nessuno più fragile di te!».
I fatti che seguono si svolsero in Etiopia durante la dominazione italiana, nel maggio del 1937, in uno dei luoghi più sacri per gli etiopi: il monastero di Debre Libanos.
«Situato nello Scioà del Nord, il grande monastero di Debre Libanos era stato fondato nel secolo XIII dal santo tigrino Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese in muratura, un migliaio di tucul abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un centinaio di tombe di illustri capi abissini, a guardia delle quali stavano i monaci e cashì (sacerdoti).».
Per ordine del generale Rodolfo Graziani dal 21 al 29 maggio 1937 vennero passati per le armi oltre 2000 cristiani, tra monaci, diaconi (tra questi anche ragazzi di 12-13 anni), disabili che vivevano nel monastero e numerosi pellegrini che si trovavano là per la festività religiosa di San Michele, la più importante dell’anno.
Il viceré italiano si era auto-convinto che il clero era stato l’ispiratore della resistenza etiope e pertanto andava duramente represso. Graziani trasmise quindi l’ordine luciferino di uccidere tutti i presenti nel santuario al suo sottoposto generale Maletti.
Per dirla tutta il buon Maletti era già al lavoro nel campo dei religiosi: il 13 maggio aveva distrutto il convento di Gulteniè Ghedem Micael e ucciso i suoi monaci.
Inoltre il solerte esecutore d’ordini aveva anche già incendiato con i suoi uomini 115.422 tucul, altre due chiese oltre quella di Gualteniè e sterminato 2.523 Arbegnouc.
Attorno al nome del generale Maletti vi era un alone di terrore tale che sapendo del suo arrivo tutta la popolazione cercava di mettersi in salvo fuggendo e nascondendosi. Ad ogni buon conto il “disciplinato” generale prontamente eseguì l’ordine del suo superiore, anche in vista del “meritato” compenso offerto nero su bianco dallo stesso Graziani: «Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze.».
Chissà se il poveretto usufruirà tuttora di quelle “preziose” riconoscenze.
Il generale senz’anima fece circondare quindi il villaggio religioso di Debre Libanos già qualche giorno prima della festa di San Michele. E siccome voleva “ben figurare” con i suoi superiori diretti, quelli che gli assicuravano promozioni e intime soddisfazioni, una volta disposto i suoi uomini tutt’attorno alla cittadella conventuale, ai posti di blocco dette disposizioni di lasciar passare tutti i pellegrini diretti al santuario mentre erano da fermare coloro che volevano allontanarsi da esso. Il suo intento era chiarissimo: prendere il maggior numero di cristiani, quelli stanziali e quelli che si recavano in pellegrinaggio alla più solenne festività annuale.
Maletti, per mettere in atto la carneficina, farà ricorso alle truppe coloniali di fede mussulmana: “i feroci eviratori galla della banda Mohamed Sultan, 1500 uomini armati di pugnale, di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati dal loro istinto infallibile.”. Quella soldataglia era ben disposta, se non addirittura contenta di uccidere cristiani, mentre poteva non essere così certo se lo avesse ordinato ai soldati italiani di fede cattolica.
Italiani però erano gli ufficiali che li comandavano.
Uno di questi ufficiali subalterni, il tenente Virgilio Cozzani del 45° battaglione, scattò anche delle fotografie, dietro alle quali poi scrisse alcune annotazioni. In particolare una, ripresa il giorno che precede l’inizio della mattanza, fa accapponare la pelle, non tanto per la crudezza dell’immagine, che riprende i monaci in attesa di essere caricati sugli autocarri per essere trasportati nel luogo del supplizio, ma per il commento scritto a tergo dal giovassimo ufficiale: “20 maggio 1937, monaci prigionieri in attesa della partenza. 21 maggio 1937 (giorno della loro fucilazione), ciao neh!”.
Da notare che questa persona non era un alieno, ma un giovane brillante, che sapeva ridere e scherzare con gli amici e godere della vita (ci sono foto di lui che lo testimoniano). Subito dopo era in grado di ordinare il fuoco al suo plotone d’esecuzione e magari tirare decine e decine di colpi di grazia alle persone ferite ma ancora vive. Mentre le fucilazioni erano di “competenza” dei soldati, il controllo se qualcuno respirasse ancora era devoluto all’ufficiale, il quale nel caso lo doveva finire con «il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio.».
Eseguito il “lavoro di routine” il buon tenente poteva ritornare alla vita normale: mangiare, bere, dormire, leggere, scrivere alla mamma, raccontare facezie al circolo ufficiali con gli amici, vivere allegramente la sua età insomma.
Ma come si fa, senza il “sostegno morale” di Satana in persona a portare simili carichi?
Continua...
Per educazione personale sono portato a dar maggior credito al Qoelet, ma vorrei tanto che avesse qualche ragione anche Burke, ed è con questo desiderio nel cuore che suggerisco il ricordo della più grande strage di cristiani in Africa, avvenuta nel secolo scorso a opera di altri cristiani: noi. Nel mese di maggio ricorre l’anniversario di quell’orrenda carneficina che, ahimè, è ancora poco conosciuta. Anche nelle scuole mi risulta che siano pagine non troppo discusse, quando non addirittura assenti.
Forse, come comunità, non abbiamo ancora la maturità e il coraggio di ammettere che anche noi italiani in fatto di atrocità non siamo secondi a nessuno. E semmai credessimo che noi “evoluti” non saremmo mai più capaci di tali infamie, inganneremmo solamente noi stessi: «Fin dalla sua giovinezza l’uomo ha in cuor suo solo inclinazioni malvagie.».
Tommaso da Kempis, monaco cristiano del ’300, che di anime e comportamenti umani se ne intendeva assai, ci ha donato un pensiero che attraversa i secoli senza perdere d’efficacia: «Anche se tu vedessi un altro cadere manifestamente in peccato, o commettere alcunché di grave, pur tuttavia non dovresti crederti migliore di lui; infatti non sai per quanto tempo tu possa persistere nel bene. Tutti siamo fragili; ma tu non devi ritenere nessuno più fragile di te!».
I fatti che seguono si svolsero in Etiopia durante la dominazione italiana, nel maggio del 1937, in uno dei luoghi più sacri per gli etiopi: il monastero di Debre Libanos.
«Situato nello Scioà del Nord, il grande monastero di Debre Libanos era stato fondato nel secolo XIII dal santo tigrino Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese in muratura, un migliaio di tucul abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un centinaio di tombe di illustri capi abissini, a guardia delle quali stavano i monaci e cashì (sacerdoti).».
Per ordine del generale Rodolfo Graziani dal 21 al 29 maggio 1937 vennero passati per le armi oltre 2000 cristiani, tra monaci, diaconi (tra questi anche ragazzi di 12-13 anni), disabili che vivevano nel monastero e numerosi pellegrini che si trovavano là per la festività religiosa di San Michele, la più importante dell’anno.
Il viceré italiano si era auto-convinto che il clero era stato l’ispiratore della resistenza etiope e pertanto andava duramente represso. Graziani trasmise quindi l’ordine luciferino di uccidere tutti i presenti nel santuario al suo sottoposto generale Maletti.
Per dirla tutta il buon Maletti era già al lavoro nel campo dei religiosi: il 13 maggio aveva distrutto il convento di Gulteniè Ghedem Micael e ucciso i suoi monaci.
Inoltre il solerte esecutore d’ordini aveva anche già incendiato con i suoi uomini 115.422 tucul, altre due chiese oltre quella di Gualteniè e sterminato 2.523 Arbegnouc.
Attorno al nome del generale Maletti vi era un alone di terrore tale che sapendo del suo arrivo tutta la popolazione cercava di mettersi in salvo fuggendo e nascondendosi. Ad ogni buon conto il “disciplinato” generale prontamente eseguì l’ordine del suo superiore, anche in vista del “meritato” compenso offerto nero su bianco dallo stesso Graziani: «Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze.».
Chissà se il poveretto usufruirà tuttora di quelle “preziose” riconoscenze.
Il generale senz’anima fece circondare quindi il villaggio religioso di Debre Libanos già qualche giorno prima della festa di San Michele. E siccome voleva “ben figurare” con i suoi superiori diretti, quelli che gli assicuravano promozioni e intime soddisfazioni, una volta disposto i suoi uomini tutt’attorno alla cittadella conventuale, ai posti di blocco dette disposizioni di lasciar passare tutti i pellegrini diretti al santuario mentre erano da fermare coloro che volevano allontanarsi da esso. Il suo intento era chiarissimo: prendere il maggior numero di cristiani, quelli stanziali e quelli che si recavano in pellegrinaggio alla più solenne festività annuale.
Maletti, per mettere in atto la carneficina, farà ricorso alle truppe coloniali di fede mussulmana: “i feroci eviratori galla della banda Mohamed Sultan, 1500 uomini armati di pugnale, di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati dal loro istinto infallibile.”. Quella soldataglia era ben disposta, se non addirittura contenta di uccidere cristiani, mentre poteva non essere così certo se lo avesse ordinato ai soldati italiani di fede cattolica.
Italiani però erano gli ufficiali che li comandavano.
Uno di questi ufficiali subalterni, il tenente Virgilio Cozzani del 45° battaglione, scattò anche delle fotografie, dietro alle quali poi scrisse alcune annotazioni. In particolare una, ripresa il giorno che precede l’inizio della mattanza, fa accapponare la pelle, non tanto per la crudezza dell’immagine, che riprende i monaci in attesa di essere caricati sugli autocarri per essere trasportati nel luogo del supplizio, ma per il commento scritto a tergo dal giovassimo ufficiale: “20 maggio 1937, monaci prigionieri in attesa della partenza. 21 maggio 1937 (giorno della loro fucilazione), ciao neh!”.
Da notare che questa persona non era un alieno, ma un giovane brillante, che sapeva ridere e scherzare con gli amici e godere della vita (ci sono foto di lui che lo testimoniano). Subito dopo era in grado di ordinare il fuoco al suo plotone d’esecuzione e magari tirare decine e decine di colpi di grazia alle persone ferite ma ancora vive. Mentre le fucilazioni erano di “competenza” dei soldati, il controllo se qualcuno respirasse ancora era devoluto all’ufficiale, il quale nel caso lo doveva finire con «il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio.».
Eseguito il “lavoro di routine” il buon tenente poteva ritornare alla vita normale: mangiare, bere, dormire, leggere, scrivere alla mamma, raccontare facezie al circolo ufficiali con gli amici, vivere allegramente la sua età insomma.
Ma come si fa, senza il “sostegno morale” di Satana in persona a portare simili carichi?
Continua...
Per leggere l'intero scritto basta scaricarlo in formato pdf al sottostante link
2402110953_fil.pdf | |
File Size: | 5407 kb |
File Type: |
Articolo pubblicato sul sito wwwgracpiacenza.com in data 24 maggio 2023