"Il mio posto era là, e là ero rimasto"
Sono le parole che don Giuseppe Borea disse al giudice durante il "processo" in risposta all'accusa di non aver abbandonato la sua parrocchia caduta in mano ai "banditi" (Cfr. "Relazione C. Borea). Don Borea quindi poteva aver salva la vita lasciando la sua chiesa di Obolo quando in paese arrivarono i partigiani. Poteva ancora salvarsi fuggendo con i partigiani quando fu avvisato che stavano arrivando i fascisti per arrestarlo. Ma lui era "soldato" di un'altra "milizia" e aveva da obbedire a un altro "Comandante"... Un comportamento che nè giudici nè fascisti nè partigiani potevano comprendere.
Per condannare un innocente da che mondo e mondo, a cominciare da Gesù e per il resto dei giorni, le prove di colpevolezza vanno costruite a tavolino. Il caso Don Borea non ha fatto eccezione. Per poterlo assassinare "legittimamente" bisognava costruire capi d'accusa falsi e trovare un "giudice" che lo condannasse a morte. E così fu fatto. Non è mai stato un problema per il potere trovare "uomini" capaci di tanto. In nessuna epoca il Maligno ha fatto mancare il supporto ai suoi seguaci...
Il cappellano della Divisione Val d'Arda
di Giuseppe Zurla
di Giuseppe Zurla
Questa è una storia di 70 anni fa che si svolse interamente nella nostra provincia e principalmente su quella parte di Appennino a sud del territorio comunale di Gropparello dove dai monti Santa Franca, Menegosa e Lama nascono torrenti che poi formeranno le valli del Chero e dell’Arda. Posti di una bellezza unica che è impossibile non amare, posti per vivere, ma dove, all’epoca di quei fatti, poteva capitare di morire giovani, sul ciglio di una strada come al passo dei Guselli, ai margini di un bosco come a Montelana o fucilati in gruppo come alla Rocchetta di Morfasso. Colpa della guerra, di quella follia collettiva di cui nonostante ricorrenti propositi l’umanità non riesce ad emendarsi e che ancora oggi continua a mietere vittime in diverse parti del mondo. E’ la storia di un prete di montagna che svolgeva il suo ministero ad Obolo, una frazione di Gropparello con poche case a 900 metri d’altezza. Il nucleo del paese un po’ defilato alle pendici del monte omonimo, poi sulla strada provinciale, la vecchia osteria qualche abitazione, e una bella chiesetta dedicata a San Bartolomeo con annessa canonica.
E’ qui che Don Giuseppe fu mandato dalla Curia nell’estate del 1937 dove si mosse con l’impegno di un buon pastore. Non si dedicava solo alla cura delle anime, ma, giovane e pieno di energie, tanto s’impegnò che riuscì a far arrivare in quel posto sperduto la corrente elettrica partecipando fisicamente ai lavori di scavo per la posa della linea. In un secondo tempo riuscì pure a far restaurare la chiesa e la canonica. Ma ecco incombere il conflitto mondiale che, almeno all’inizio, non riguardava il piccolo paese di montagna, gli accadimenti sembravano lontanissimi , arrivavano notizie frammentarie, spesso contraddittorie. Ma poi il coinvolgimento arriva ed è totale dopo l’otto settembre del 1943 con l’armistizio che l’Italia firma con gli alleati e che non venne accettato dal binomio Mussolini Hitler che volevano continuare la guerra. Nella stragrande maggioranza i giovani rifiutarono di arruolarsi, non rispondendo ai bandi di leva ma dandosi alla macchia perché non esistevano alternative, o con i fascisti o con i partigiani. Chi non si consegnava era passibile di fucilazione. Di colpo la montagna si animò di un’umanità varia come mai era capitato. C’era di tutto, disertori, prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento, inglesi, slavi, russi, polacchi, cittadini, campagnoli, operai ed impiegati.
Basta poco per catalogare i Borea come antifascisti, poiché già dopo l’otto settembre i suoi fratelli Carlo e Camillo scelsero di andare in montagna. Don Giuseppe invece, con spirito di fratellanza, continuava il suo apostolato con uguale fervore tra le parti, la parola di Dio era per tutti, spesso non portava la tonaca ma vestiti da montanaro, nessuno mai lo vide armato e sulla camicia aveva una vistosa croce rossa, simbolo e grado dei cappellani militari. A differenza di altri sacerdoti indubbiamente si espose. Fu lui ad occuparsi dei primi caduti della divisione Val d’Arda uccisi a Montelana che nonostante i divieti vennero portati al cimitero di Obolo per la composizione e la sepoltura e fu sempre che lui che accorse ai Guselli dopo la strage del 4 Dicembre. Andava al preventorio per confortare e distribuire immaginette sacre, ma uguale fervore usava al Colombello o a Groppo Ducale dove i partigiani tenevano dei prigionieri. A volte portava lettere a volte anche libri. L’ordine del suo arresto partì dal capitano della milizia Filippo Zanoni ma certo non fu solo lui a decidere. Forse qualcuno più in alto volle dare una lezione al clero piacentino colpendo severamente uno dei suoi esponenti. Ancora prima dell’arresto la sentenza era già scritta. Che tribunale mai sarà quello che non ascolta i testi, rimprovera il difensore per eccesso di zelo, si rifiuta di ascoltare militari repubblichini che volevano testimoniare a favore di Don Giuseppe mentre da via libera all’anonimo che l’accusa di aver ucciso un milite fascista con tre colpi in testa davanti al preventorio! E poi la montatura circa una deposizione scritta della sorella che lo accusava di attenzioni morbose. Una deposizione che la ragazza non aveva mai scritto e che per altro nessuno vide. In compenso non venne ammessa la sua deposizione a favore del fratello. Don Giuseppe affrontò il processo farsa con estrema dignità ma i giudici restarono sordi e non esitarono a mettersi sulla coscienza un ulteriore delitto quando doveva esser ormai chiaro che si era agli ultimi giorni di guerra. Al di la della più bieca propaganda che vaneggiava di armi capaci di ribaltare la situazione era noto a tutti che la Linea Gotica aveva ceduto in più punti e i tanks americani stavano risalendo la via Emilia. Non si capisce il motivo di tanto accanimento verso un sacerdote colpevole di aver sempre professato la sua fede. Le cronache ci riportano quel commoventissimo, straziante incontro con la madre e le parole di pace e di perdono rivolte al plotone d’esecuzione.
Qualche mese dopo i suoi carnefici ebbero dall’Italia libera la pietà che loro gli avevano negato. Il presidente del tribunale Angelo Poggesi e i 6 giudici che lo condannarono furono arrestati e poi liberati perché assolti in istruttoria il 6 Luglio 1946 per sopraggiunta amnistia. Amnistiato pure il Generale Raffaele De Logu capo del comando territoriale di Alessandria che respinse con granitica fermezza la domanda di grazia inoltrata dal vescovo di Piacenza rifiutandosi anche di sottoporla al Duce. Sempre sua la responsabilità di trasmettere l’ordine di eseguire subito la sentenza. Delatori, testimoni mendaci, comandante e componenti del plotone d’esecuzione e tutti coloro coinvolti a diversi gradi ebbero l’amnistia o sentenze lievi. I famigliari avrebbero potuto ricorrere ma non lo fecero per onorare la memoria del loro congiunto che aveva perdonati i suoi carnefici ancora prima che l’avessero ucciso. Questa abissale differenza di comportamenti onora il martire e squalifica i suoi aguzzini.
Tanto tempo è ormai passato, ma, a Obolo, pare sia tutto rimasto come prima. Sul prato antistante la chiesetta un cartello c’informa di quei lontani avvenimenti. In un angolo in fondo c’è una foto di Don Giuseppe che ci guarda con il suo viso di bambino. Se dobbiamo attenerci alle sacre scritture forse sarà uno di quei giusti che potranno riscattare tutto il male del mondo.
"Giuseppe Borea, martire della Resistenza"
di Lucia Romiti
di Lucia Romiti
Your browser does not support viewing this document. Click here to download the document.
Si ringraziano l'Autrice Lucia Romiti e l'Editore "Il Nuovo Giornale" per aver autorizzato la pubblicazione del presente volume sul sito del Grac.
Era troppo anche per le Compagnie della Morte
Per il processo a Don Borea, il prefetto Graziani non accettò che l'avvocato fosse scelto dall'imputato, ma affidò il compito al dottor Ambrogio Ginanneschi, maggiore della milizia, Comandante del Centro di Arruolamento delle Compagnie della Morte.
Dal diario di monsignor Francesco Castagnetti: Mercoledì, 7 febbraio* "... sono chiamato al telefono dal dottor Ginanneschi che mi dice: -La sentenza era ormai scontata. Mi avevano consigliato di sbrigarmi in cinque minuti; ho parlato invece per mezz'ora... Durante il processo ho sostenuto che non si poteva addivenire a una condanna qualsiasi per i presunti reati di immoralità e sevizie poichè i testi invocati a difesa, e la stessa sorella del reverendo Don Borea, non erano stati chiamati a deporre-. -Purtroppo, conclude il dottor Ginanneschi, -ogni mia richesta è stata respinta-." * Cfr. "Relazione Camillo Borea" |
I motivi di tanto odio*
Your browser does not support viewing this document. Click here to download the document.
* Tratto dalla "Relazione Camillo Borea"
Prati chiede la Medaglia d'Oro per "Pius", il suo Cappellano*
Your browser does not support viewing this document. Click here to download the document.
* Tratto dalla "Relazione Camillo Borea"
Fotografie e documenti
|
|
I documenti, i ritagli di giornale, i manifesti e le fotografie provengono dagli archivi di: Gianpaolo Chinosi, Comune di Gropparello, Maria Schiavi, Monica Angiolini, Cristiano Maggi, Giuseppe Borea, Luigi Buratti, Anna Alberici, Pierlino Bergonzi. Il Grac ringrazia tutti sentitamente per la collaborazione.
Pagina pubblicata il 4 agosto 2017