Groppo Ducale tra storia e gastronomia di Giuseppe Zurla
Vagando per la nostra provincia fin nel cuore dell'Appennino non è raro arrivare a posti che conservano intatto un fascino singolare, luoghi del cuore e della memoria come quelli superbamente descritti da Paolo Rumiz nei suoi viaggi alla scoperta di un'Italia frettolosamente definita minore. E sufficiente lasciare la viabilità del fondo valle e non stancarsi nel risalire i versanti su strade sempre più tortuose ricalcanti antiche mulattiere, spesso maltenute e devastate da frane, che infine, come premio a tanta tenacia, consentono di raggiungere mete amene spazianti su panorami che si credevano perduti.
Uno di questi posti e' Groppo Ducale, nel comune di Bettola a 760 metri, piccolo borgo fra boschi di castagni, con le caratteristiche case in pietra e tetti a ciappe. Situato alle pendici del monte La Penna tra le valli del Nure e del Chero ha attorno una collana di piccole frazioni fra le quali, Costa, Forlini, Cordani. Di origini antichissime ha una bella chiesetta dotata di uno svettante campanile situata sul fianco di un'altura dov'è il castello che fu feudo dapprima di Branca Fulgosio signore di Fiorenzuola, alla cui morte, senza eredi, si succedettero nei secoli diversi rami della potente famiglia dei Nicelli. Ora dopo un recente restauro e' adibito a scopi sociali.
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Il paesino fino al 1900 era abitato da più di 500 anime, ma già nel periodo tra le due guerre mondiali ebbe inizio una lenta ma costante emigrazione che assunse un ritmo sempre più vorticoso nel secondo dopoguerra. Ora i residenti, quelli veri sono solo 7 ma spiccano tra le case restauri in abitazioni chiuse, segno che i proprietari non vogliono lasciare andare in rovina i posti dove sono le loro radici e dove ogni tanto amano tornare.
Uno che non se ne è mai andato resistendo alle sirene francesi o americane e' il signor Franco Alberici la cui famiglia gestisce l'omonima trattoria da ben 5 generazioni. Ora, a districarsi tra i fornelli, è il turno della moglie, la signora Rosa aiutata dalla figlia Loretta. Dalla cucina alla saletta ristorante c'è un dislivello di un metro e mezzo colmato da sei ripidi scalini che, per il servizio ai tavoli, devono essere scalati infinite volte. In un posto così i menù non possono che ricalcare quelli della cucina tradizionale e popolare dove occorre attenzione alla genuinità degli ingredienti, una dispensa rifornita di salumi e formaggi di montagna e la passione di farsi i dolci in casa. Vi si mangia sempre bene con varietà di menù, ma al venerdì e' un giorno speciale, dedicato esclusivamente al merluzzo che viene cucinato in maniera classica, in umido con cipolla e pomodoro e fritto con aglio.
Il risultato e' un piatto degno della "Supera d'argint". Il tutto viene accompagnato da quella polenta che si ottiene a fatica perché menata sulla stufa per un'ora fino a farle assumere quella consistenza necessaria per poterla servire a fette. Qui non hanno nessuna cittadinanza prodotti istantanei o precotti, si cucina con cura lo stesso cibo di base che consentì la vita a generazioni di montanari. Da solo il programma del venerdì ripaga l'usura del viaggio, ci si sente immersi nella civiltà contadina con odori di bosco, di funghi e calore di stufa a legna. Si diventa presto consapevoli di essere capitati in uno dei sempre più rari santuari dello slow food. Posti da salvaguardare e tramandare. L'Italia era questa, la pizza non c'era e i Mc Donald con gli hamburger e la coca cola non avevano ancora inquinato il palato dei nostri figli... che ora preferiscono i polli allo spiedo a quelli ruspanti. Mangiar bene è tradizione italiana e ripaga dalle tante amarezze della vita. Al prossimo Expo se punteremo sul cibo sarà un successo.