La guerra antipartigiana in provincia di Piacenza ad opera delle milizie di Salò e dell'esercito tedesco (di Romano Repetti)
Già nell'estate del 1944 le formazioni partigiane erano riuscite a sottrarre al controllo della Repubblica di Salò quasi i due terzi del territorio provinciale piacentino, cioè tutti i comuni collinari e montani. Di conseguenza le autorità fasciste e l’esercito tedesco non erano più in grado di prelevare da questo territorio, attraverso gli ammassi obbligatori, preziose derrate agricole. Questi risultati non costituivano l’unico contributo dei partigiani alla lotta per ricacciare dall’Italia l’esercito hitleriano e per debellare il fascismo. Dalla primavera ’44 era andata crescendo infatti la capacità di scendere a sorpresa anche nel territorio di pianura e nella stessa città di Piacenza sotto il controllo dalle forze militare nazifasciste. Innumerevoli furono gli agguati contro automezzi tedeschi in transito sulla via Emilia, nonché le incursioni nei depositi miliari, nei magazzini degli ammassi, nelle polveriere, nello stesso Arsenale e nella caserma S. Anna di Piacenza. Con quelle azioni i partigiani, oltre ad eliminare e catturare dei nemici, si procuravano armi e munizioni, mezzi di trasporto, beni alimentari. Inoltre rendevano insicuri i trasporti, la circolazione e la vita dei militari hitleriani e fascisti, ne minavano il morale.
Ciò premesso, in questa pagina adiamo invece a ricostruire le modalità con cui le forze militari di Salò e quelle tedesche, in periodi successivi, hanno cercato di fronteggiare ed eliminare le formazioni partigiane.
Ciò premesso, in questa pagina adiamo invece a ricostruire le modalità con cui le forze militari di Salò e quelle tedesche, in periodi successivi, hanno cercato di fronteggiare ed eliminare le formazioni partigiane.
Prima fase: le incursioni della Guardia Repubblicana
Il primo periodo va dal gennaio al giugno 1944. Il fronte di guerra era ancora lontano dall’Appennino emiliano-ligure e le autorità militari tedesche non consideravano ancora rilevante il pericolo partigiano in provincia di Piacenza. Il presidio iniziale del territorio collinare e montano era affidato alla Guardia Nazionale Repubblicana; solo a Bettola e a Bobbio era integrata da militari tedeschi. Fu la Gnr a condurre, partendo da Piacenza, le prime incursioni nei territori a presenza partigiana: l’11 marzo arrivarono a Chiulano nell’alto territorio di Vigolzone, si scontrarono con il gruppo di ribelli del Montenegrino poi catturarono e passarono subito per le armi tre giovani inermi; il 28 aprile due gruppi di militi salirono dalle opposte direzioni di Bobbio e di Farini d’Olmo a Peli di Coli per colpire il gruppo di resistenti che si era lì insediato, ma uccisero due civili estranei; il 25 maggio fu la volta del comune di Morfasso da cui era stato scacciato il presidio Gnr.
Queste incursioni non riuscirono però ne a fiaccare ne ad intimorire il movimento partigiano, che continuò ad espandersi. Ad affiancare la Gnr giunsero allora a Piacenza reparti di altre formazioni militari fasciste, la Legione Muti, la Decima Mas. Non bastarono però, ad esempio nella battaglia di Farini del 25 /27 giugno, per prevalere su quelle partigiane. Ed anche il ricorso alle “Cicogne” tedesche dell’aeroporto di San Damiano per bombardare il covo dei ribelli di Valdimiro Bersani sul monte Lama non sortì alcun risultato. Succedeva si che le formazioni partigiane si ritirassero difronte agli attacchi nazifascisti ma poi riprendevano il controllo del territorio. Anche la costituzione, alla fine di giugno, della Brigata nera piacentina “Astorri” apporterà alla lotta antipartigiana un po’ più di brutale violenza ma non maggiore efficacia.
Queste incursioni non riuscirono però ne a fiaccare ne ad intimorire il movimento partigiano, che continuò ad espandersi. Ad affiancare la Gnr giunsero allora a Piacenza reparti di altre formazioni militari fasciste, la Legione Muti, la Decima Mas. Non bastarono però, ad esempio nella battaglia di Farini del 25 /27 giugno, per prevalere su quelle partigiane. Ed anche il ricorso alle “Cicogne” tedesche dell’aeroporto di San Damiano per bombardare il covo dei ribelli di Valdimiro Bersani sul monte Lama non sortì alcun risultato. Succedeva si che le formazioni partigiane si ritirassero difronte agli attacchi nazifascisti ma poi riprendevano il controllo del territorio. Anche la costituzione, alla fine di giugno, della Brigata nera piacentina “Astorri” apporterà alla lotta antipartigiana un po’ più di brutale violenza ma non maggiore efficacia.
Seconda fase: il rastrellamento in Val Nure e Val d’Arda
La seconda fase si aprì nel momento i cui dal sud e dal centro dell’Italia l’esercito tedesco fu costretto ad arretrare verso il nord, mentre gli anglo americani sbarcavono in Provenza e da lì avrebbero potuto penetrare in Liguria. Divenne fra l’altro vitale per l’esercito tedesco assicurarsi il controllo delle strade e dei passi di collegamento dalla Toscana e dalla Liguria con la Val Padana. La lotta antipartigiana venne pianificata direttamente dai comandi tedeschi e condotta sia con l’utilizzo di più consistenti reparti propri che con i soldati italiani della quattro divisioni che erano state addestrate ed armate in Germania e che rientrarono in Italia fra luglio e agosto, fra cui la Divisione alpina "Monterosa".
La nuova strategia fu quella dei rastrellamenti più capillari del territorio, per stanare e colpire i ribelli, catturare uomini da lavoro da inviare in Germania, razziare animali, ed inoltre terrorizzare tutta la popolazione affinché non desse più alcun appoggio ai partigiani.
Il primo grande rastrellamento investì in luglio la Val Nure, la Val d’Arda e la bassa Val Trebbia. Vi presero parte, partendo da Piacenza, diversi reparti delle forze armate tedesche, con autocarri e mezzi blindati, e reparti italiani di diversi corpi fascisti trasferiti nella nostra provincia. Un grosso reparto tedesco giunse a Vernasca il 4 luglio e dopo aver setacciato il capoluogo e le frazioni, catturato ed impiccato un partigiano, ucciso un bambino di otto anni e altri tre civili, depredato ogni cosa utile, proseguirono su Morfasso per spostarsi poi nella parmense Val Taro. In Val Nure il rastrellamento iniziò l’11 luglio da Bettola, con due battaglioni dei Cacciatori degli Appennini e reparti tedeschi, e investì tutta la vallata e la Val Perino. Il passaggio dei rastrellatori fu segnato dalle colonne di fumo degli incendi, da razzie, da cadaveri, in gran parte di civili, lasciati bene in vista a monito della popolazione. E se i partigiani rispondevano attaccando, ne seguivano brutali rappresaglie. Anche alcuni parroci, accusati di essere solidali con i ribelli, furono prelevati, portati a Parma e trattenuti per diversi giorni.
Peraltro, alla fine neanche questo grande dispiegamento di forze nazifasciste, se produsse lutti, distruzioni e sofferenze – e, fra l’altro, l’invio in Germania di una trentina di uomini per il lavoro coatto – non riuscì ad eliminare la presenza ed il controllo dei partigiano sul territorio che anzi, passati i rastrellatori, presero il controllo anche di Bettola e più avanti di Ponte dell’Olio.
La nuova strategia fu quella dei rastrellamenti più capillari del territorio, per stanare e colpire i ribelli, catturare uomini da lavoro da inviare in Germania, razziare animali, ed inoltre terrorizzare tutta la popolazione affinché non desse più alcun appoggio ai partigiani.
Il primo grande rastrellamento investì in luglio la Val Nure, la Val d’Arda e la bassa Val Trebbia. Vi presero parte, partendo da Piacenza, diversi reparti delle forze armate tedesche, con autocarri e mezzi blindati, e reparti italiani di diversi corpi fascisti trasferiti nella nostra provincia. Un grosso reparto tedesco giunse a Vernasca il 4 luglio e dopo aver setacciato il capoluogo e le frazioni, catturato ed impiccato un partigiano, ucciso un bambino di otto anni e altri tre civili, depredato ogni cosa utile, proseguirono su Morfasso per spostarsi poi nella parmense Val Taro. In Val Nure il rastrellamento iniziò l’11 luglio da Bettola, con due battaglioni dei Cacciatori degli Appennini e reparti tedeschi, e investì tutta la vallata e la Val Perino. Il passaggio dei rastrellatori fu segnato dalle colonne di fumo degli incendi, da razzie, da cadaveri, in gran parte di civili, lasciati bene in vista a monito della popolazione. E se i partigiani rispondevano attaccando, ne seguivano brutali rappresaglie. Anche alcuni parroci, accusati di essere solidali con i ribelli, furono prelevati, portati a Parma e trattenuti per diversi giorni.
Peraltro, alla fine neanche questo grande dispiegamento di forze nazifasciste, se produsse lutti, distruzioni e sofferenze – e, fra l’altro, l’invio in Germania di una trentina di uomini per il lavoro coatto – non riuscì ad eliminare la presenza ed il controllo dei partigiano sul territorio che anzi, passati i rastrellatori, presero il controllo anche di Bettola e più avanti di Ponte dell’Olio.
Il rastrellamento della Val Trebbia e Aveto con la Divisione Monterosa
Il secondo grande rastrellamento iniziò il 26 di agosto ed ebbe lo scopo di recuperare il controllo su tutta la strada statale della Val Trebbia e sulla provinciale della Val d’Aveto, debellando i partigiani da questo territorio appenninico .
Vennero impiegati diversi battaglioni della Monterosa - almeno 4.500 uomini - con automezzi, mortai , lanciafiamme, assieme ad altri reparti italiani: il Battaglione degli Allevi ufficiali della Scuola di Alessandria, quello della Scuola graduati di Novi Ligure, un reparto di bersaglieri, un battaglione della Gnr e uno della Brigata Nera, pavesi; altre milizie fasciste fra cui un reparto della feroce "Sicherheit" di Voghera. A sua volta l’esercito tedesco schierava diversi reparti di una divisione di fanteria da montagna e di una divisione corazzata di granatieri, nonché alcune centinaia di SS.
Il piano prevedeva di chiudere in una morsa i partigiani arrivando loro addosso contemporaneamente dai fondovalle e dai valici appenninici. Le forze impegnate furono infatti suddivise in nove colonne e partirono il 26 agosto, oltre che dalla bassa Val Trebbia, da otto punti diversi del territorio ligure, alessandrino, pavese e parmense, su strade anche secondarie e lungo valli minori. Furono investiti in particolare i partigiani della Divisione piacentina "Giustizia e Libertà", quelli della Divisione ligure "Cichero", quelli della Divisione pavese "Aliotta" e minori formazioni parmensi ed alessandrine. Parte rilevante del rastrellamento riguardò il territorio piacentino e un obiettivo fondamentale fu la riconquista di Bobbio, dove alla fine arrivarono, attraverso Passo Penice e Passo del Brallo due grosse colonne partite da Varzi, una colonna partita da Bedonia e transitata a Ferriere e Coli, una colonna che aveva risalito da Torriglia la statale 45, una quinta partita dal Passo del Bocco e transitata lungo la Val d’Aveto. Nel contempo un gruppo di carristi tedeschi con panzer Tigre e un reparto della Muti recuperarono il controllo di Rivergaro e portarono attacchi , respinti, anche alle posizione partigiane sulla sponda sinistra del Trebbia.
I partigiani piacentini e pavesi avevano fronteggiato e bloccato per due giorni la grossa colonna che da Varzi saliva a Passo Penice - in una battaglia che costò la vita a nove persone – ma poi furano aggirati dall’altra colonna che era salita al Brallo e dovettero ripiegare verso Bobbio, da dove ebbero appena il tempo di prelevare dall’ospedale i propri feriti per portarli a Bramaiano di Bettola.
Vennero impiegati diversi battaglioni della Monterosa - almeno 4.500 uomini - con automezzi, mortai , lanciafiamme, assieme ad altri reparti italiani: il Battaglione degli Allevi ufficiali della Scuola di Alessandria, quello della Scuola graduati di Novi Ligure, un reparto di bersaglieri, un battaglione della Gnr e uno della Brigata Nera, pavesi; altre milizie fasciste fra cui un reparto della feroce "Sicherheit" di Voghera. A sua volta l’esercito tedesco schierava diversi reparti di una divisione di fanteria da montagna e di una divisione corazzata di granatieri, nonché alcune centinaia di SS.
Il piano prevedeva di chiudere in una morsa i partigiani arrivando loro addosso contemporaneamente dai fondovalle e dai valici appenninici. Le forze impegnate furono infatti suddivise in nove colonne e partirono il 26 agosto, oltre che dalla bassa Val Trebbia, da otto punti diversi del territorio ligure, alessandrino, pavese e parmense, su strade anche secondarie e lungo valli minori. Furono investiti in particolare i partigiani della Divisione piacentina "Giustizia e Libertà", quelli della Divisione ligure "Cichero", quelli della Divisione pavese "Aliotta" e minori formazioni parmensi ed alessandrine. Parte rilevante del rastrellamento riguardò il territorio piacentino e un obiettivo fondamentale fu la riconquista di Bobbio, dove alla fine arrivarono, attraverso Passo Penice e Passo del Brallo due grosse colonne partite da Varzi, una colonna partita da Bedonia e transitata a Ferriere e Coli, una colonna che aveva risalito da Torriglia la statale 45, una quinta partita dal Passo del Bocco e transitata lungo la Val d’Aveto. Nel contempo un gruppo di carristi tedeschi con panzer Tigre e un reparto della Muti recuperarono il controllo di Rivergaro e portarono attacchi , respinti, anche alle posizione partigiane sulla sponda sinistra del Trebbia.
I partigiani piacentini e pavesi avevano fronteggiato e bloccato per due giorni la grossa colonna che da Varzi saliva a Passo Penice - in una battaglia che costò la vita a nove persone – ma poi furano aggirati dall’altra colonna che era salita al Brallo e dovettero ripiegare verso Bobbio, da dove ebbero appena il tempo di prelevare dall’ospedale i propri feriti per portarli a Bramaiano di Bettola.
Verso la terza fase, con la Divisione "Turkestan"
Anche il rastrellamento nazifascista in Val Trebbia-Val d’Aveto fu accompagnato, oltre che dalla uccisione e cattura di alcuni partigiani, da numerose vittime fra la popolazione civile e da incendi di portici, stalle e abitazioni, compreso l’intero abitato di Cerignale. Questa volta il territorio riconquistato fu difeso collocandovi diversi robusti presidi militari, che si dedicarono anche alla caccia dei partigiani sbandati. Ma tuttavia la riconquista durò poche settimane, nella stessa Bobbio rientrarono i partigiani il 22 ottobre. Vi contribuì il fatto che gli alpini della "Monterosa" di presidio, ragionando con la popolazione locale presero coscienza di trovarsi dalla parte sbagliata e disertarono numerosi per unirsi ai partigiani. Si costituì addirittura, sotto il comando del bobbiese Italo Londei, una nuova Brigata composta quasi tutto da ex alpini, circa 230. A loro volta però le autorità militari hitleriane giunsero alla conclusione che nella lotta per sgominare i partigiani potevano fare pochissimo conto sulle forze della Repubblica di Salò e che dovevano provvedervi massicciamente con i propri soldati. Il 23 novembre 1944 ebbe cosi inizio la terza fase della guerra antipartigiana nel territorio piacentino, il rastrellamento ad opera della Divisione nazi-mongola "Turkestan", con un obiettivo drastico: lo sterminio dei ribelli.
Il gelido drammatico inverno 1944-'45 del rastrellamento tedesco-mongolo
Il 21 novembre 1944 la Gnr fascista di Piacenza con un dispaccio comunicava al proprio Comando generale a Brescia: “La gravità della situazione derivante dal dilagare in ormai i 4/5 dell’area provinciale delle bande ribelli, che hanno preso possesso di tutti i pozzi petroliferi , della produzione agricola e industriale-agricola, e reso estremamente malsicura il transito su tutta la via Emilia, ha finalmente fatto decidere i Comandi Tedeschi d’intraprendere un’azione di rastrellamento in grande stile che dovrà ripulire oltre al territorio piacentino quello adiacente di Pavia e di Parma. In questi giorni hanno cominciato ad affluire i primi reparti del Turkestan. A Piacenza si è già installato un generale tedesco col suo comando di Divisione”.
Il generale tedesco era Ralph von Heygendorff e il suo comando fu insediato nel castello di Grazzano Visconti. L’attacco “in grande stile” alle formazioni partigiane piacentine iniziò due giorni dopo e questa volta, più che le caratteristiche dei precedenti rastrellamenti che i partigiani avevano fronteggiato senza gravi danni, ebbe il carattere e fece parte di una controffensiva generale delle forze militari hitleriane, con il rincalzo di quelle mussoliniane, per “ripulire” da ogni formazione di “ribelli” tutto il territorio del Nord Italia alle spalle del fronte attestato sulla Linea gotica. L’occasione si era presentata in particolare dopo che lo stesso comandante in capo dello schieramento anglo-americano, generale Alexander, aveva annunciato con un messaggio radio che le azioni su fronte sarebbero sostanzialmente cessate per il periodo invernale. Ciò permise all’esercito tedesco d’impegnare per la guerra ai partigiani ben sette Divisioni, ognuna composto da oltre 10.000 e fino a 20.000 soldati, con le armi più moderne, gruppi di artiglieria e blindati. Dal Friuli al Piemonte, dalla Liguria e all’Emilia occidentale, le forze partigiane furono duramente colpite e costrette ad abbandonare i territori liberati, a ritrarsi in ristrette ed impervie aree o a rintanarsi in precari rifugi.
Il generale tedesco era Ralph von Heygendorff e il suo comando fu insediato nel castello di Grazzano Visconti. L’attacco “in grande stile” alle formazioni partigiane piacentine iniziò due giorni dopo e questa volta, più che le caratteristiche dei precedenti rastrellamenti che i partigiani avevano fronteggiato senza gravi danni, ebbe il carattere e fece parte di una controffensiva generale delle forze militari hitleriane, con il rincalzo di quelle mussoliniane, per “ripulire” da ogni formazione di “ribelli” tutto il territorio del Nord Italia alle spalle del fronte attestato sulla Linea gotica. L’occasione si era presentata in particolare dopo che lo stesso comandante in capo dello schieramento anglo-americano, generale Alexander, aveva annunciato con un messaggio radio che le azioni su fronte sarebbero sostanzialmente cessate per il periodo invernale. Ciò permise all’esercito tedesco d’impegnare per la guerra ai partigiani ben sette Divisioni, ognuna composto da oltre 10.000 e fino a 20.000 soldati, con le armi più moderne, gruppi di artiglieria e blindati. Dal Friuli al Piemonte, dalla Liguria e all’Emilia occidentale, le forze partigiane furono duramente colpite e costrette ad abbandonare i territori liberati, a ritrarsi in ristrette ed impervie aree o a rintanarsi in precari rifugi.
La tattica adottata questa volta dai comandi tedeschi fu quella di isolare e circondare via via, con forze soverchianti, singole vallate sotto il controllo dei partigiani, non limitandosi poi a colpirli nei loro caposaldi, ma proseguendo la caccia in ogni abitato, casa per casa, e dando corso ad immediate fucilazioni dei catturati, per seminare il panico fra i combattenti ed il terrore fra la popolazione.
Ciò avvenne anche in provincia di Piacenza, dove per la guerra e la caccia ai partigiani furono appunto utilizzati reparti della 162ª Divisione Turkestan, costituiti da soldati reclutati nelle regioni caucasiche dell’Unione Sovietica, addestrati ed inquadrati sotto il comando di ufficiali tedeschi. Cosi le popolazioni piacentine vissero anche sotto l’incubo dei “mongoli”, sia per gli effettivi comportamenti di quei soldati che per la nomea di saccheggi e violenze che li riguardava.
L’attacco, a partire dal 23 novembre e con un complesso di almeno 15.000 uomini, investì innanzitutto la Val Tidone e la Val Trebbia, da cinque punti di partenza e con l’impiego di cinque reparti militari. Dopo averli fronteggiati in sanguinosi combattimenti, i partigiani di Fausto Cossu, ormai circondati, cercarono angosciosamente la salvezza trasferendosi in val Nure da Bobbio-Coli-Pradovera e da Perino-Strada del Cerro, sempre incalzati dalle truppe nemiche. Ma il secondo obiettivo dell’attacco tedesco era proprio la val Nure e la riconquista di Bettola, dove, superato le ultime resistenze dei partigiani al Passo del Cerro, i reparti della Turkestan si installarono il 1°dicembre. Da lì, con il supporto di altre formazioni dislocate fra Piacenza e Fidenza, iniziarono incursioni verso la Val d’Arda - compiendo fra l’altro, il 4 dicembre, la strage di Passo dei Guselli - e verso l’alta val Nure dove una parte dei partigiani in fuga si erano ritirati con il comandante Emilio Canzi.
Ciò avvenne anche in provincia di Piacenza, dove per la guerra e la caccia ai partigiani furono appunto utilizzati reparti della 162ª Divisione Turkestan, costituiti da soldati reclutati nelle regioni caucasiche dell’Unione Sovietica, addestrati ed inquadrati sotto il comando di ufficiali tedeschi. Cosi le popolazioni piacentine vissero anche sotto l’incubo dei “mongoli”, sia per gli effettivi comportamenti di quei soldati che per la nomea di saccheggi e violenze che li riguardava.
L’attacco, a partire dal 23 novembre e con un complesso di almeno 15.000 uomini, investì innanzitutto la Val Tidone e la Val Trebbia, da cinque punti di partenza e con l’impiego di cinque reparti militari. Dopo averli fronteggiati in sanguinosi combattimenti, i partigiani di Fausto Cossu, ormai circondati, cercarono angosciosamente la salvezza trasferendosi in val Nure da Bobbio-Coli-Pradovera e da Perino-Strada del Cerro, sempre incalzati dalle truppe nemiche. Ma il secondo obiettivo dell’attacco tedesco era proprio la val Nure e la riconquista di Bettola, dove, superato le ultime resistenze dei partigiani al Passo del Cerro, i reparti della Turkestan si installarono il 1°dicembre. Da lì, con il supporto di altre formazioni dislocate fra Piacenza e Fidenza, iniziarono incursioni verso la Val d’Arda - compiendo fra l’altro, il 4 dicembre, la strage di Passo dei Guselli - e verso l’alta val Nure dove una parte dei partigiani in fuga si erano ritirati con il comandante Emilio Canzi.
Il 5 gennaio 1944 iniziò l’attaccò finale ed il territorio ancora controllato dai partigiani fu chiuso in una morsa, mentre una grande nevicata copriva ogni cosa: sia l’alta Val Nure che la Val d’arda furono investite dal basso e dall’alto da grossi contingenti, la prima da un colonna partita da Bettola verso Farini e da un numeroso reparto arrivato dalla Val d’Aveto attraverso il Passo del Crociglia, la seconda da colonne partite dalla via Emilia verso Castell’Arquato-Lugagnano-Vernasca e da un grosso contingente con due carri armati partito da Bettola sulla strada di Bramaiano verso Prato Barbieri dove si suddivise in due colonne, verso Montechino -Gropparello e verso Morfasso. I partigiani fronteggiarono gli attacchi per due giorni ma poi furono costretti a ritirarsi e a disperdersi. Con la neve che aveva raggiunto il metro d’altezza e ostacolava i movimenti, diversi gruppi, compreso il comandante Emilio Canzi, cercarono di trovare rifugio aldilà del Passo del Pellizzone in val Ceno e val Lecca, ma i soldati tedeschi erano già arrivati anche lì. E allora fu la disperazione, con colonne di partigiani mal vestiti e affamati che per sottrarsi alla cattura vagavano faticosamente nella neve e nella nebbia da un luogo all’altro. Molti furono quelli catturati in quei giorni, molti quelli passati immediatamente per le armi.
Lo stillicidio delle catture e degli eccidi, dopo brevi scontri o a seguito della scoperta degli improvvisati nascondigli dei partigiani, continuerà poi in tutto il territorio piacentino fino ai primi di febbraio. I partigiani non avevano più un territorio in cui rifugiarsi, eppure vi furono gruppi d’intrepidi, che, spostandosi via via da un luogo all’alto, rimasero anche in quelle settimane armati ed organizzati sull’Appennino, quale la piccola Brigata di Londei nella zona bobbiese del Penice, quella dell’Istriano in val d’Aveto, il gruppo di Muro nella zona di Rocca di Ferriere, il gruppo Bernazzani nella val Perino, Il Valoroso con alcuni compagni in alta Val Luretta, il gruppo di Nico in alta Val Tidone.
Durante quelle settimane persero la vita nel territorio piacentino non meno di 274 partigiani, i feriti furono circa 300. Inoltre furono presi e messi nel carcere di Piacenza ben 1.122 persone – come risulta dai registri – e altre rinchiuse in caserme perché il carcere era strapieno, in grande maggioranza semplici civili accusati di favoreggiamento .
A quel punto qualsiasi esercito regolare si sarebbe ritirato dalla lotta. Non lo fecero i partigiani del Corpo Volontari della Libertà che invece, già dal mese di febbraio, tornarono a riaggregarsi e a riprendere le armi contro le forze militari hitleriane e fasciste.
Durante quelle settimane persero la vita nel territorio piacentino non meno di 274 partigiani, i feriti furono circa 300. Inoltre furono presi e messi nel carcere di Piacenza ben 1.122 persone – come risulta dai registri – e altre rinchiuse in caserme perché il carcere era strapieno, in grande maggioranza semplici civili accusati di favoreggiamento .
A quel punto qualsiasi esercito regolare si sarebbe ritirato dalla lotta. Non lo fecero i partigiani del Corpo Volontari della Libertà che invece, già dal mese di febbraio, tornarono a riaggregarsi e a riprendere le armi contro le forze militari hitleriane e fasciste.
I soldati della "Turkestan" reclutati in URSS, vittime anche loro della barbarie nazista
“Il flagello dei mongoli”. E’ un’espressione che è stata utilizzata per descrivere il rastrellamento dei dell’Appennino ligure-emiliano ad opera dei reparti della Turkestan. Come un ritorno ai tempi delle invasioni barbariche, della calata in Italia, 15 secoli prima, dell’orda degli unni sotto la guida di Attila. In effetti cosi nelle vallate piacentine furono vissuti i mesi dell’inverno 1944-’45, nell’allarme e nel terrore, perché alle violenze e angherie caratteristiche dei rastrellamenti nazifascisti si aggiunsero in quel periodo atti di razzia ed episodi di violenza sulle donne compiuti per di più da soldati con lineamenti somatici, lingua, religione, usi alimentari, mai conosciuti in precedenza, soldati quindi di cui non si poteva prevedere il comportamenti e riguardo ai quali correvano le voci più preoccupanti.
Tuttavia non va dimenticato che la Turkestan era una Divisione dell’esercito tedesco, che quei turkmeni, kirkisi e kasaki che ne costituivano la maggioranza erano stati reclutati in grande parte fra i milioni di prigionieri che le armate hitleriane fecero nei primi mesi dell’invasione dell’Urss, avendo come alternativa solo la morte per fucilazione o per freddo e fame nei campi di raccolta dove quei prigionieri venivano chiusi ed abbandonati, sorte che toccò infatti a circa tre milioni di loro. Furono i generali della Wermacht a portare in Italia quei soldati per scagliarli contro i nostri patrioti. E nel territorio ligure-emiliano in quell’inverno non fu impiegata sola la Turkestan ma anche altre truppe tedesche, dalla Feldgendarmerie alle SS, nonché ogni sorta di armati della repubblica di Salò, dai soldati delle Divisioni addestrate in Germania, alle SS italiane, alla Xª Mas, ai militi della Gnr e delle Brigate Nere. Con la particolarità però che queste altre unità operavano di rincalzo alla Turkestan, mentre erano i “mongoli” ad essere mandati all’attacco contro le postazioni dei partigiani, loro a cadere sotto il fuoco di queste. Muniti non di automezzi ma di muli e cavalli, per prendere le formazioni partigiane alle spalle erano comandati e costretti a risalire impervi sentieri di montagna, a superare dirupi, ad aprire piste nella neve, cosa che i soldati germanici non avrebbero fatto. Non si conosce il numero dei loro caduti ma i rapporti partigiani li contavano a centinaia.
Tuttavia non va dimenticato che la Turkestan era una Divisione dell’esercito tedesco, che quei turkmeni, kirkisi e kasaki che ne costituivano la maggioranza erano stati reclutati in grande parte fra i milioni di prigionieri che le armate hitleriane fecero nei primi mesi dell’invasione dell’Urss, avendo come alternativa solo la morte per fucilazione o per freddo e fame nei campi di raccolta dove quei prigionieri venivano chiusi ed abbandonati, sorte che toccò infatti a circa tre milioni di loro. Furono i generali della Wermacht a portare in Italia quei soldati per scagliarli contro i nostri patrioti. E nel territorio ligure-emiliano in quell’inverno non fu impiegata sola la Turkestan ma anche altre truppe tedesche, dalla Feldgendarmerie alle SS, nonché ogni sorta di armati della repubblica di Salò, dai soldati delle Divisioni addestrate in Germania, alle SS italiane, alla Xª Mas, ai militi della Gnr e delle Brigate Nere. Con la particolarità però che queste altre unità operavano di rincalzo alla Turkestan, mentre erano i “mongoli” ad essere mandati all’attacco contro le postazioni dei partigiani, loro a cadere sotto il fuoco di queste. Muniti non di automezzi ma di muli e cavalli, per prendere le formazioni partigiane alle spalle erano comandati e costretti a risalire impervi sentieri di montagna, a superare dirupi, ad aprire piste nella neve, cosa che i soldati germanici non avrebbero fatto. Non si conosce il numero dei loro caduti ma i rapporti partigiani li contavano a centinaia.
Furono in sostanze anch’essi delle povere vittime della folle barbarie scatenata dalla Germania nazista con l’adesione del fascismo mussoliniano.
Si diceva e si è scritto che fossero oltre che rozzi pure un po’ ottusi, anche per quella loro soggezione ai comandanti tedeschi. In verità erano ben consapevoli di essere finiti dalla parte sbagliata. Infatti, al pari degli alpini della Monterosa, venuti a contatto nel territorio piacentino con il nostro movimento di Liberazione, appena se ne presentò l’occasione cominciarono a disertare dai loro reparti e, portando con sé le proprie armi, a rifugiarsi fra i nostri partigiani: singolarmente o a piccoli gruppi già nel dicembre ’44 e nel successivo gennaio, più avanti a interi plotoni. Diedero, negli ultimi mesi della guerra, anche un contributo importante alla lotta contro le forze tedesche e fasciste, aggiungendosi a quegli altri russi e ucraini che già dall’estate ’44 erano sfuggiti ai tedeschi e si erano uniti ai partigiani. 26 furono i caduti combattendo nelle file dei partigiane piacentini che provenivano da regioni dell’Unione Sovietica.
L’archivio dell’Anpi conserva un documento significativo. Una lettera in data 26 maggio 1945, inviata alla figura di vertice in quel momento dei partigiani piacentini, il colonnello Luigi Marzioli, e firmata dal portavoce, Mastan, dei soldati “mongoli” passati fra i partigiani, per chiedere che anche a loro fosse consegnato il “Diploma Alexander” che, sottoscritto da un comandante partigiano e da un ufficiale alleato, attestava la qualità di “patriota”, cioè di combattente per la libertà contro i nazifascisti. La lettera diceva: “Signor colonnello, la invincibile Urss ma anche le nostre famiglie ci aspettano: noi ci troviamo in terre straniere già da 4 o 5 anni. Lo so che alcuni russi vi hanno fatto del male, ma penso che voi come noi volete separarvi da noi come amici, e per questo vi prego di firmare i diplomi. Ancora una volta voglio ringraziarvi di cuore da parte di tutti i russi per le gentilezze che ci avete usato fino adesso e che credo farete ancora in questo momento in cui si decide del nostro destino”.
Erano ben 484 coloro che attribuivano a quel diploma un peso determinate sul loro destino al rientro in Urss, dove, si sapeva, i collaboratori dei nazisti sarebbero stati pesantemente puniti.
I diplomi Alexander furono firmati e rilasciati a tutti i 484: avevano quasi tutti nomi tipici delle regioni di tradizione religiosa islamica, quali erano appunto quelle caucasiche.
Si diceva e si è scritto che fossero oltre che rozzi pure un po’ ottusi, anche per quella loro soggezione ai comandanti tedeschi. In verità erano ben consapevoli di essere finiti dalla parte sbagliata. Infatti, al pari degli alpini della Monterosa, venuti a contatto nel territorio piacentino con il nostro movimento di Liberazione, appena se ne presentò l’occasione cominciarono a disertare dai loro reparti e, portando con sé le proprie armi, a rifugiarsi fra i nostri partigiani: singolarmente o a piccoli gruppi già nel dicembre ’44 e nel successivo gennaio, più avanti a interi plotoni. Diedero, negli ultimi mesi della guerra, anche un contributo importante alla lotta contro le forze tedesche e fasciste, aggiungendosi a quegli altri russi e ucraini che già dall’estate ’44 erano sfuggiti ai tedeschi e si erano uniti ai partigiani. 26 furono i caduti combattendo nelle file dei partigiane piacentini che provenivano da regioni dell’Unione Sovietica.
L’archivio dell’Anpi conserva un documento significativo. Una lettera in data 26 maggio 1945, inviata alla figura di vertice in quel momento dei partigiani piacentini, il colonnello Luigi Marzioli, e firmata dal portavoce, Mastan, dei soldati “mongoli” passati fra i partigiani, per chiedere che anche a loro fosse consegnato il “Diploma Alexander” che, sottoscritto da un comandante partigiano e da un ufficiale alleato, attestava la qualità di “patriota”, cioè di combattente per la libertà contro i nazifascisti. La lettera diceva: “Signor colonnello, la invincibile Urss ma anche le nostre famiglie ci aspettano: noi ci troviamo in terre straniere già da 4 o 5 anni. Lo so che alcuni russi vi hanno fatto del male, ma penso che voi come noi volete separarvi da noi come amici, e per questo vi prego di firmare i diplomi. Ancora una volta voglio ringraziarvi di cuore da parte di tutti i russi per le gentilezze che ci avete usato fino adesso e che credo farete ancora in questo momento in cui si decide del nostro destino”.
Erano ben 484 coloro che attribuivano a quel diploma un peso determinate sul loro destino al rientro in Urss, dove, si sapeva, i collaboratori dei nazisti sarebbero stati pesantemente puniti.
I diplomi Alexander furono firmati e rilasciati a tutti i 484: avevano quasi tutti nomi tipici delle regioni di tradizione religiosa islamica, quali erano appunto quelle caucasiche.