LA MELORIA: IO C’ERO
di Guido Guasconi
di Guido Guasconi
Sul finire di ottobre, quel dolce autunno a Livorno aveva portato in caserma la notizia della quale si favoleggiava: sarebbero arrivati gli inglesi. Avremmo svolto un’esercitazione continuativa di dieci giorni, con lanci quotidiani in Sardegna e in Sicilia tra i quali un lancio notturno e pareva che avremmo potuto fare due lanci a testa. L’eccitazione ci pervadeva, quella facile ad accendersi in ragazzi di vent’anni con la loro sconfinata voglia di vivere, immersi nel clima elettrizzante che si respirava alla Folgore, consapevoli e fieri di appartenere, esclusivamente per atto volontario, alla specialità di punta dell’Esercito italiano.
Ero stato messo in elenco per il lancio notturno in Sicilia, come desideravo. Ma quel mattino, il ritardo di un commilitone al briefing per coloro che l’indomani avrebbero aperto l’esercitazione “Cold Stream" (corrente fredda) con il lancio in Sardegna, aveva provocato l’ira del Tenente che, seduta stante, l’aveva cancellato dall’elenco: “ … tu prendi il suo posto!” mi aveva urlato. Avevo eseguito di corsa.
Un fatto nuovo rendeva tutto più eccitante: la RAF era arrivata in Italia con ben nove aerei C- 130 “Hercules” (oltre a un bimotore Andover); un aereo che, a paragone dei nostri C-119, appariva un’astronave. Anche noi avevamo comprato gli Hercules, ma sarebbero entrati in linea qualche mese dopo.
Ci dissero che il volo si sarebbe svolto interamente a bassissima quota per sfuggire ai radar. Gli aerei avrebbero compiuto la traversata volando a 500 ft. (150 metri) sul pelo dell’acqua; anche se si trattava di un quadrimotore grosso e pesante, anche se di notte con il cattivo tempo, perché i tempi erano quelli e così toccava fare. Al tempo della Guerra fredda, quando tutti avevano il dito sul grilletto, le esercitazioni si svolgevano nella più realistica delle maniere per simulare le condizioni che la guerra vera avrebbe imposto.
Il 9 novembre 1971 era un martedì, come quest’anno. Ci svegliarono alle tre e schizzammo giù dalle brande, sveltamente indossammo l’uniforme da lancio, ci bardammo con le armi lo zaino e i contenitori da lancio preparati la sera prima. Tutto avveniva in silenzio, salvo gli ordini di far presto. Una veloce colazione e via sui camion verso l’aeroporto. Veniva giù una pioggia rada sferzata dal vento, era buio pesto.
L’Aurelia da Livorno a Pisa fiancheggia la pineta da un lato e la recinzione dell’aeroporto dall’altro. Mi apparvero come in una visione diafana, alla luce dei fari che illuminavano i piazzali, i vagheggiati C-130 che ci attendevano nella loro livrea mimetica e la coccarda tricolore della RAF sulla fusoliera. “Eccoli!” esclamai. Tra poco mi sarei lanciato da uno di essi su una terra che non avevo mai veduto.
Ero stato messo in elenco per il lancio notturno in Sicilia, come desideravo. Ma quel mattino, il ritardo di un commilitone al briefing per coloro che l’indomani avrebbero aperto l’esercitazione “Cold Stream" (corrente fredda) con il lancio in Sardegna, aveva provocato l’ira del Tenente che, seduta stante, l’aveva cancellato dall’elenco: “ … tu prendi il suo posto!” mi aveva urlato. Avevo eseguito di corsa.
Un fatto nuovo rendeva tutto più eccitante: la RAF era arrivata in Italia con ben nove aerei C- 130 “Hercules” (oltre a un bimotore Andover); un aereo che, a paragone dei nostri C-119, appariva un’astronave. Anche noi avevamo comprato gli Hercules, ma sarebbero entrati in linea qualche mese dopo.
Ci dissero che il volo si sarebbe svolto interamente a bassissima quota per sfuggire ai radar. Gli aerei avrebbero compiuto la traversata volando a 500 ft. (150 metri) sul pelo dell’acqua; anche se si trattava di un quadrimotore grosso e pesante, anche se di notte con il cattivo tempo, perché i tempi erano quelli e così toccava fare. Al tempo della Guerra fredda, quando tutti avevano il dito sul grilletto, le esercitazioni si svolgevano nella più realistica delle maniere per simulare le condizioni che la guerra vera avrebbe imposto.
Il 9 novembre 1971 era un martedì, come quest’anno. Ci svegliarono alle tre e schizzammo giù dalle brande, sveltamente indossammo l’uniforme da lancio, ci bardammo con le armi lo zaino e i contenitori da lancio preparati la sera prima. Tutto avveniva in silenzio, salvo gli ordini di far presto. Una veloce colazione e via sui camion verso l’aeroporto. Veniva giù una pioggia rada sferzata dal vento, era buio pesto.
L’Aurelia da Livorno a Pisa fiancheggia la pineta da un lato e la recinzione dell’aeroporto dall’altro. Mi apparvero come in una visione diafana, alla luce dei fari che illuminavano i piazzali, i vagheggiati C-130 che ci attendevano nella loro livrea mimetica e la coccarda tricolore della RAF sulla fusoliera. “Eccoli!” esclamai. Tra poco mi sarei lanciato da uno di essi su una terra che non avevo mai veduto.
I paracadute allineati sul piazzale, pronti per essere indossati
I paracadute stavano allineati sul piazzale: 17 kg. il dorsale, 7 kg. l’ausiliario, almeno 15 kg. lo zaino da lancio, 5 kg e passa il FAL a calcio ripiegabile versione truppe para, la baionetta e quant’altro, avevo addosso un peso non troppo lontano da quanto pesavo io (circa 60 kg.) e mi andava bene che non avevo il contenitore “A” o, peggio, il “C” (i lanci con il contenitore li avevo già fatti). A fianco a me, quelli della “Vannucci (l’altra caserma di Livorno)”; qualcuno scattava fotografie e il bagliore dei flash nel buio mi infastidiva.
Tutto accadeva in fretta, più in fretta del solito. Gli aerei decollarono a quindici secondi l’uno dall’altro, ero su “Gesso 7” ovvero sul settimo aereo del convoglio. Saprò più tardi che il mio fu il penultimo aereo a lasciare la pista, perché “Gesso 9” e “Gesso 10” furono fermati un istante prima del decollo, quando giunse il messaggio di “Gesso 5” che aveva veduto una fiammata in mare.
Volavamo a bassissima quota sotto un tetto di nubi, la condizione peggiore per risentire della turbolenza. Iniziai a star male e durò due ore. Non mi ero mai sentito così male in volo, vomitai, mi diedero un sacchetto di carta. Anche il Comandante stava male. Fu un’agonia, pregavo che quel volo avesse fine.
La luce livida dell’alba iniziava a filtrare dagli oblò, eravamo sulla Sardegna. Accolsi l’ordine “in piedi (il primo della sequenza che precede il lancio)” come una liberazione. Agganciammo il moschettone della fune di vincolo al cavo statico, controllammo l’un l’altro il paracadute del commilitone, serrammo la fila, chiamata di controllo “uno bene”, “due bene” … gridati con quanta voce avevamo. L’aereo era salito alla quota di lancio (350 m.), il portellone si spalancò ubbidendo a un comando a distanza (roba mai vista sul C-119), apparve la pianura del Campidano. L’adrenalina mi colava nel sangue, ora stavo benissimo. Il direttore di lancio urlò “alla porta!” e il primo della fila (come sempre, il Comandante) ruotò di 90 gradi affacciandosi con l’avampiede oltre la soglia, nel vuoto; la luce alla porta era rossa. Ancora una ventina di interminabili secondi e la luce divenne verde seguita dall’urlo “via!” del direttore. “Via!”, “via!” … fuori tutti, a meno di un secondo l’uno dall’altro. Non avvertii nemmeno la pacca sulla spalla e mi trovai nel vuoto. A quella velocità, l’aria ha la consistenza dell’acqua. Il paracadute si aprì regolarmente, controllai la calotta e mi trovai a camminare sulla calotta di quello che si era lanciato prima di me, forse il lancio era avvenuto troppo rapidamente. Situazione pericolosa, perché il paracadute in basso “ruba” l’aria a quello più in alto che potrebbe afflosciarsi. “Sbretella!”, gli urlai.
Ci separammo, atterrai regolarmente.
Nessuno sapeva cos'era accaduto. Consegnati i paracadute al punto di ritrovo, stranamente ci lasciarono tranquilli per una decina di minuti mentre i superiori rimanevano in disparte, lontani quanto bastava per non essere uditi.
Tutto accadeva in fretta, più in fretta del solito. Gli aerei decollarono a quindici secondi l’uno dall’altro, ero su “Gesso 7” ovvero sul settimo aereo del convoglio. Saprò più tardi che il mio fu il penultimo aereo a lasciare la pista, perché “Gesso 9” e “Gesso 10” furono fermati un istante prima del decollo, quando giunse il messaggio di “Gesso 5” che aveva veduto una fiammata in mare.
Volavamo a bassissima quota sotto un tetto di nubi, la condizione peggiore per risentire della turbolenza. Iniziai a star male e durò due ore. Non mi ero mai sentito così male in volo, vomitai, mi diedero un sacchetto di carta. Anche il Comandante stava male. Fu un’agonia, pregavo che quel volo avesse fine.
La luce livida dell’alba iniziava a filtrare dagli oblò, eravamo sulla Sardegna. Accolsi l’ordine “in piedi (il primo della sequenza che precede il lancio)” come una liberazione. Agganciammo il moschettone della fune di vincolo al cavo statico, controllammo l’un l’altro il paracadute del commilitone, serrammo la fila, chiamata di controllo “uno bene”, “due bene” … gridati con quanta voce avevamo. L’aereo era salito alla quota di lancio (350 m.), il portellone si spalancò ubbidendo a un comando a distanza (roba mai vista sul C-119), apparve la pianura del Campidano. L’adrenalina mi colava nel sangue, ora stavo benissimo. Il direttore di lancio urlò “alla porta!” e il primo della fila (come sempre, il Comandante) ruotò di 90 gradi affacciandosi con l’avampiede oltre la soglia, nel vuoto; la luce alla porta era rossa. Ancora una ventina di interminabili secondi e la luce divenne verde seguita dall’urlo “via!” del direttore. “Via!”, “via!” … fuori tutti, a meno di un secondo l’uno dall’altro. Non avvertii nemmeno la pacca sulla spalla e mi trovai nel vuoto. A quella velocità, l’aria ha la consistenza dell’acqua. Il paracadute si aprì regolarmente, controllai la calotta e mi trovai a camminare sulla calotta di quello che si era lanciato prima di me, forse il lancio era avvenuto troppo rapidamente. Situazione pericolosa, perché il paracadute in basso “ruba” l’aria a quello più in alto che potrebbe afflosciarsi. “Sbretella!”, gli urlai.
Ci separammo, atterrai regolarmente.
Nessuno sapeva cos'era accaduto. Consegnati i paracadute al punto di ritrovo, stranamente ci lasciarono tranquilli per una decina di minuti mentre i superiori rimanevano in disparte, lontani quanto bastava per non essere uditi.
Il Comandante informa i suoi uomini su quanto era accaduto
L'aria era carica di elettricità, l'aria che precede la bufera. Ancora non pioveva ma il cielo prometteva un castigo, la terra era spaccata da solchi lasciati da mesi di siccità. Poi il Ten. Cantone chiamò l'adunata, diede l'attenti e presentò la forza al Magg. Giostra: "Quarantaquattro artiglieri paracadutisti".
Il Maggiore rispose alla formula solita con una formula insolita: "rimanete sull'attenti". Feci in tempo a chiedermi "che sta succedendo?".
Il Comandante riprese. Parlava con voce calma, grave, scandiva le parole senza tradire la minima emozione:"Debbo darvi una notizia terribile. Della più terribile sciagura che possa colpire un reparto di paracadutisti: un C- 130 si è inabissato in mare e non vi sono superstiti".
"Ecco cos'era quell'elettricità che avvertivo nell'aria", pensai stupidamente. Eravamo impietriti. Ricordai che, durante il volo, qualcuno era uscito a precipizio dalla cabina di pilotaggio urlando qualcosa a un collega inglese.
"La Fortuna ha voluto scegliere tra i paracadutisti della sesta compagnia ...". Disse proprio così, "La Fortuna", ma si capiva che il termine stava ad indicare "La Sorte". La morte aveva voluto quelli di Gesso 4 e aveva lasciato tutti gli altri.
Il Magg. Giostra aggiunse un ammonimento, stavolta a voce ferma: "Non è che qualcuno di voi avrà paura a tornare a casa a bordo di quegli aerei, vero?". La domanda era retorica, in quanto scontava la risposta "NO": nessuno avrebbe avuto paura. Ma in quel momento, quando ancora non si sapeva nulla delle cause della sciagura, la domanda-ammonimento era giustificata. Un istante dopo venne impartito l'ordine "in marcia". Si doveva raggiungere l'abitato di Siliqua, 30 km. più a Sud, ovviamente in assetto di combattimento. Eravamo in marcia da una decina di minuti quando si aprirono le cateratte del cielo. Pioveva che il Cielo la mandava, il vento sferzava l'acqua sulle nostre facce, marciavamo come automi fradici e indifferenti a tutto. il Maggiore impose alla marcia un ritmo infernale, su e giù per i dolci declivi che delimitano la piana di Villacidro. Duravamo fatica a stargli dietro, non avevo mai marciato così veloce.
Sapevo perché: egli voleva stordirci, voleva impedirci di pensare e, con l'aiuto del cielo inclemente, ci riuscì.
Piovve per ore.
Giungemmo a Vallermosa, pressapoco a metà strada e ci acquartierammo in una casa diroccata. Il Maggiore fece accendere un fuoco per asciugarci alla meglio, alimentato con la legna sparsa tra i ruderi. Era cessato di piovere, consumammo la razione K e ci rimettemmo in marcia. Spuntò il sole che ci accompagnò fino alla meta. Dormimmo un sonno di piombo sul pavimento di un magazzino, i nostri sacchi a pelo ci parvero il letto di casa. L'indomani mattina ci portarono alla base militare dell’aeroporto di Cagliari e, dall’unica linea del centralino, ciascuno dei 274 che si erano lanciati in Sardegna potette fare una telefonata di un minuto esatto. Alla Stato Maggiore stavano decidendo come riportarci a casa, perché tutti gli aerei erano stati fermati a terra. Il giorno seguente andammo a visitare le vestigia di Pula. Erano con noi dieci uomini del Battaglione sabotatori che per primi si erano lanciati, silenziosi e attenti. Sono quasi certo che uno di loro fosse il Sergente Maggiore Giannino Caria, alto e bello, che nove giorni dopo riconoscerò nella fotografia sulla prima pagina del Telegrafo. La Medaglia d'Oro la diedero alla madre.
Era pomeriggio quando, al rientro in aeroporto, ci raggiunse l'ordine di recarsi al porto e imbarcare su nave "Etna" della Marina militare.
Salii la passerella della nave che era già buio, stavo in coperta quando si udì la voce del Comandante diffusa dagli altoparlanti: "Il Comandante porge agli uomini della Folgore il benvenuto a bordo".
La navigazione durò ventiquattr'ore, il mare era calmo e il cielo terso.
Venerdì sera la nave attraccò alla Darsena petroli nel porto di Livorno, dalla coperta riconobbi gli Ufficiali del Gruppo artiglieria sulla banchina. Nessuno parlava, sbarcammo in un silenzio surreale.
Poco più in là c'erano i genitori dei ragazzi in fondo al mare, ma non li vedemmo. L'indomani il Comandante della Folgore, il Generale Ferruccio Brandi (una delle tre Medaglie d’Oro concesse nella Folgore a viventi ad El Alamein, altre diciannove vennero date “alla memoria”) venne alla “Pisacane”, volle incontrarci. Lesse la motivazione dell'encomio semplice che era stato concesso ai partecipanti e strinse la mano a ciascuno di noi. Disse semplicemente: "La Folgore è più forte di prima".
E se ne andò.
Quel giorno, mio papà tornò dal lavoro e, come sempre, accese la radio per sentire il giornale-radio delle 13. Allontanò il piatto e corse alla Stazione Carabinieri, i quali non avevano notizie. Non poteva sapere che i familiari dei caduti erano stati informati fin dalle primissime ore dopo la sciagura. Ebbe pace soltanto il mattino seguente, quando lesse su "Libertà" i nomi dei Caduti. La mamma era morta quando avevo dodici anni e la mia sorellina studiava a Genova. Non esistevano i telefonini e non v'era modo di comunicare.
Il Maggiore rispose alla formula solita con una formula insolita: "rimanete sull'attenti". Feci in tempo a chiedermi "che sta succedendo?".
Il Comandante riprese. Parlava con voce calma, grave, scandiva le parole senza tradire la minima emozione:"Debbo darvi una notizia terribile. Della più terribile sciagura che possa colpire un reparto di paracadutisti: un C- 130 si è inabissato in mare e non vi sono superstiti".
"Ecco cos'era quell'elettricità che avvertivo nell'aria", pensai stupidamente. Eravamo impietriti. Ricordai che, durante il volo, qualcuno era uscito a precipizio dalla cabina di pilotaggio urlando qualcosa a un collega inglese.
"La Fortuna ha voluto scegliere tra i paracadutisti della sesta compagnia ...". Disse proprio così, "La Fortuna", ma si capiva che il termine stava ad indicare "La Sorte". La morte aveva voluto quelli di Gesso 4 e aveva lasciato tutti gli altri.
Il Magg. Giostra aggiunse un ammonimento, stavolta a voce ferma: "Non è che qualcuno di voi avrà paura a tornare a casa a bordo di quegli aerei, vero?". La domanda era retorica, in quanto scontava la risposta "NO": nessuno avrebbe avuto paura. Ma in quel momento, quando ancora non si sapeva nulla delle cause della sciagura, la domanda-ammonimento era giustificata. Un istante dopo venne impartito l'ordine "in marcia". Si doveva raggiungere l'abitato di Siliqua, 30 km. più a Sud, ovviamente in assetto di combattimento. Eravamo in marcia da una decina di minuti quando si aprirono le cateratte del cielo. Pioveva che il Cielo la mandava, il vento sferzava l'acqua sulle nostre facce, marciavamo come automi fradici e indifferenti a tutto. il Maggiore impose alla marcia un ritmo infernale, su e giù per i dolci declivi che delimitano la piana di Villacidro. Duravamo fatica a stargli dietro, non avevo mai marciato così veloce.
Sapevo perché: egli voleva stordirci, voleva impedirci di pensare e, con l'aiuto del cielo inclemente, ci riuscì.
Piovve per ore.
Giungemmo a Vallermosa, pressapoco a metà strada e ci acquartierammo in una casa diroccata. Il Maggiore fece accendere un fuoco per asciugarci alla meglio, alimentato con la legna sparsa tra i ruderi. Era cessato di piovere, consumammo la razione K e ci rimettemmo in marcia. Spuntò il sole che ci accompagnò fino alla meta. Dormimmo un sonno di piombo sul pavimento di un magazzino, i nostri sacchi a pelo ci parvero il letto di casa. L'indomani mattina ci portarono alla base militare dell’aeroporto di Cagliari e, dall’unica linea del centralino, ciascuno dei 274 che si erano lanciati in Sardegna potette fare una telefonata di un minuto esatto. Alla Stato Maggiore stavano decidendo come riportarci a casa, perché tutti gli aerei erano stati fermati a terra. Il giorno seguente andammo a visitare le vestigia di Pula. Erano con noi dieci uomini del Battaglione sabotatori che per primi si erano lanciati, silenziosi e attenti. Sono quasi certo che uno di loro fosse il Sergente Maggiore Giannino Caria, alto e bello, che nove giorni dopo riconoscerò nella fotografia sulla prima pagina del Telegrafo. La Medaglia d'Oro la diedero alla madre.
Era pomeriggio quando, al rientro in aeroporto, ci raggiunse l'ordine di recarsi al porto e imbarcare su nave "Etna" della Marina militare.
Salii la passerella della nave che era già buio, stavo in coperta quando si udì la voce del Comandante diffusa dagli altoparlanti: "Il Comandante porge agli uomini della Folgore il benvenuto a bordo".
La navigazione durò ventiquattr'ore, il mare era calmo e il cielo terso.
Venerdì sera la nave attraccò alla Darsena petroli nel porto di Livorno, dalla coperta riconobbi gli Ufficiali del Gruppo artiglieria sulla banchina. Nessuno parlava, sbarcammo in un silenzio surreale.
Poco più in là c'erano i genitori dei ragazzi in fondo al mare, ma non li vedemmo. L'indomani il Comandante della Folgore, il Generale Ferruccio Brandi (una delle tre Medaglie d’Oro concesse nella Folgore a viventi ad El Alamein, altre diciannove vennero date “alla memoria”) venne alla “Pisacane”, volle incontrarci. Lesse la motivazione dell'encomio semplice che era stato concesso ai partecipanti e strinse la mano a ciascuno di noi. Disse semplicemente: "La Folgore è più forte di prima".
E se ne andò.
Quel giorno, mio papà tornò dal lavoro e, come sempre, accese la radio per sentire il giornale-radio delle 13. Allontanò il piatto e corse alla Stazione Carabinieri, i quali non avevano notizie. Non poteva sapere che i familiari dei caduti erano stati informati fin dalle primissime ore dopo la sciagura. Ebbe pace soltanto il mattino seguente, quando lesse su "Libertà" i nomi dei Caduti. La mamma era morta quando avevo dodici anni e la mia sorellina studiava a Genova. Non esistevano i telefonini e non v'era modo di comunicare.
Muore un incursore durante il recupero delle salme dei commilitoni
Da tutta Italia, un pellegrinaggio di dolore prese la strada per Livorno. I familiari stavano sul molo del porto impietriti, osservando le acque grigie che avevano inghiottito i loro figli. Una povera mamma nella sua commovente ingenuità, quasi ad aggrapparsi a un filo di speranza, disse: " ... forse saranno su un'isoletta ..." Nei giorni seguenti il dolore si mutò in rabbia. Vi furono momenti di tensione, un pomeriggio i papà diedero l'assalto a un camion dopo che s'era sparsa la voce - falsa - che a bordo vi fosse un giubbotto da parà con un nome. Si giunse al nono giorno dopo la tragedia: due giorni prima il relitto era stato localizzato dopo affannose ricerche condotte con ogni mezzo. Era giunta l'ora dei sommozzatori, toccava a loro scendere a cinquanta metri di profondità.
I sub della Folgore, quelli del Battaglione sabotatori, vollero essere i primi. Il 18 novembre, mentre si trovava sul fondo, il Sergente Maggiore Giannino Caria morì nel tentativo di recuperare le salme. Era la cinquantatreesima vittima.
Quando la notizia raggiunse i genitori in attesa sul molo, tutti chinarono il capo e mai più nessuno aprì bocca. Un parà della Folgore aveva sacrificato la sua giovane vita non per salvarne un'altra, ma semplicemente perché i genitori di quei ragazzi trovassero pace.
I sub della Folgore, quelli del Battaglione sabotatori, vollero essere i primi. Il 18 novembre, mentre si trovava sul fondo, il Sergente Maggiore Giannino Caria morì nel tentativo di recuperare le salme. Era la cinquantatreesima vittima.
Quando la notizia raggiunse i genitori in attesa sul molo, tutti chinarono il capo e mai più nessuno aprì bocca. Un parà della Folgore aveva sacrificato la sua giovane vita non per salvarne un'altra, ma semplicemente perché i genitori di quei ragazzi trovassero pace.
Immagine sopra a sinistra: il fregio dei paracadutisti che portano sul basco amaranto. Foto sopra a destra: il comandante della Folgore nel 1971, generale Ferruccio Brandi, Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Appendice
Causa della sciagura furono fattori concomitanti (la c.d. “catena dell’incidente” non è mai composta da un solo anello).
Il primo, fu l’impostazione dell’esercitazione: mai più si fece volare a bassissima quota, di notte, una formazione di aerei così grossi e pesanti.
Il secondo fu il cattivo tempo, ancorché la visibilità fosse discreta.
Il terzo, quello determinante, fu l’errore del pilota che, accortosi di volare a quota troppo bassa, forse cabrò bruscamente provocando il contatto della coda con l’acqua e ciò dimostra quanto l’aereo volasse basso.
Trovandosi in quella condizione, egli avrebbe dovuto riguadagnare quota intervenendo sulla potenza e non sull’assetto di volo.
Le autopsie provarono che la maggior parte erano periti all’istante per rottura delle vertebre cervicali (l’aereo “spanciò” sull’acqua che, alla velocità di 180-200 kts., ha la consistenza del cemento); i più sfortunati annegarono.
Dei cinquantadue periti, furono recuperate 38 salme nel corso di ricerche durate tre mesi e in seguito, incidentalmente, ne vennero rinvenute altre quattro.
Tutte vennero identificate perché era presente almeno uno dei quattro elementi di identificazione, associati al nome del Caduto:
la matricola del paracadute dorsale;
la matricola del paracadute ausiliario;
la matricola dell’arma;
la matricola della baionetta.
Non esisteva la piastrina di riconoscimento.
I resti di dieci di loro non vennero mai ritrovati.
Causa della sciagura furono fattori concomitanti (la c.d. “catena dell’incidente” non è mai composta da un solo anello).
Il primo, fu l’impostazione dell’esercitazione: mai più si fece volare a bassissima quota, di notte, una formazione di aerei così grossi e pesanti.
Il secondo fu il cattivo tempo, ancorché la visibilità fosse discreta.
Il terzo, quello determinante, fu l’errore del pilota che, accortosi di volare a quota troppo bassa, forse cabrò bruscamente provocando il contatto della coda con l’acqua e ciò dimostra quanto l’aereo volasse basso.
Trovandosi in quella condizione, egli avrebbe dovuto riguadagnare quota intervenendo sulla potenza e non sull’assetto di volo.
Le autopsie provarono che la maggior parte erano periti all’istante per rottura delle vertebre cervicali (l’aereo “spanciò” sull’acqua che, alla velocità di 180-200 kts., ha la consistenza del cemento); i più sfortunati annegarono.
Dei cinquantadue periti, furono recuperate 38 salme nel corso di ricerche durate tre mesi e in seguito, incidentalmente, ne vennero rinvenute altre quattro.
Tutte vennero identificate perché era presente almeno uno dei quattro elementi di identificazione, associati al nome del Caduto:
la matricola del paracadute dorsale;
la matricola del paracadute ausiliario;
la matricola dell’arma;
la matricola della baionetta.
Non esisteva la piastrina di riconoscimento.
I resti di dieci di loro non vennero mai ritrovati.
Ricordando la tragedia della Meloria dopo cinquant'anni
I ragazzi piacentini che si trovarono a prestare servizio nella Folgore al tempo della tragedia sopra descritta dal Guasconi erano in buon numero, e fra questi Gabriele Tavani di Caorso, nell'immagine sopra al centro. Alla sinistra di Gabriele è Antonio Atzeni, a destra Sergio Floris. Gabriele non ha mai perduto un anniversario, figurarsi se poteva mancare al cinquantesimo: "Vado a Livorno a salutare i miei amici Folgorini della Meloria..."
Le foto e i video, che riportano alcuni momenti della cerimonia svoltasi a Livorno il 9 novembre 2021, sono stati prodotti da Gabriele, che li ha gentilmente condivisi con il Grac.
Le foto e i video, che riportano alcuni momenti della cerimonia svoltasi a Livorno il 9 novembre 2021, sono stati prodotti da Gabriele, che li ha gentilmente condivisi con il Grac.
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Livorno, località Banditella, 9 novembre 2021. Monumento ai Caduti della Meloria, alcuni momenti della cerimonia...
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Documento sopra: in onore dei caduti del "Gesso 4", la Brigata Paracadutisti "Folgore", emise un fascicolo per ricordare la tragedia. (Archivio Pierlino Bergonzi)
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Documento sopra: "Luce verde per il III/70", una pubblicazione edita dalla Brigata Paracadutisti "Folgore" in occasione di ogni congedamento a scaglioni. Del 3° scaglione 1970 facevano parte i piacentini Bassi, Bergonzi, Carini, Cogni, Di Benedetti, Fertona, Guasconi (autore dell'articolo pubblicato sopra), Tavani e probabilmente altri che non ricordiamo. Detti paracadutisti erano tutti in servizio volontario al tempo della tragedia della Meloria. (Archivio Pierlino Bergonzi)
Pagina pubblicata il 18 novembre 2021