Grande Guerra, dopo la ritirata di Caporetto
Disertori e fucilazioni nel piacentino
di Ippolito Negri
Disertori e fucilazioni nel piacentino
di Ippolito Negri
Ricorrerà tra qualche mese il centenario della XII battaglia dell’Isonzo, altrimenti nota come “battaglia di Caporetto” (o per molti “disfatta di Caporetto”). Un evento tale da lasciare nella lingua italiana una traccia indelebile; da quel 24 ottobre 1917, Caporetto vuol dire sconfitta, ma bruciante, carica di ignominia. Non è qui il luogo per discutere sulle cause, se furono cause militari, cause fortuite o cause morali.
Serve però riportare un passo del bollettino che il 28 ottobre 1917 venne rilasciato dal Comando Supremo del generale Luigi Cadorna (per altro diffuso in un modo all’estero e in un altro - attenuato - in Italia): scrisse Cadorna:
“La mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso le forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti impedire all’avversario di penetrare sul sacro suolo della patria la notte”.
Sebbene il comunicato nella versione “italiana” recitasse:
“La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della seconda armata hanno permesso alle forze austro-ungariche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi dell’altro tutto non sono riusciti a impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della patria”, su quel primo comunicato si sviluppò la versione della resa “sociale” delle truppe.
Raccolta ed amplificata da Curzio Malaparte nel suo Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, e da fonti anche tedesche (Erwin Rommel, il cui ruolo a Caporetto viene sopravvalutato essendo da attribuire semmai al suo superiore diretto) si andava ad innestare perfettamente tra alcuni luoghi comuni della Grande Guerra.
In particolare alla vulgata dell’ammutinamento o sciopero militare, delle fucilazioni per decimazione, dei carabinieri alle spalle delle truppe in occasione degli attacchi per mitragliare chi non avanzava. E via di seguito. Tutte versioni pienamente sposate ad esempio dal film “Uomini contro” che ha “istruito” gli italiani forse più di quanto abbia fatto il libro dal quale traeva ispirazione, “Un anno sull’Altopiano” di Emilio Lussu, che, ancora in vita quando uscì il film, ebbe modo di sconfessare il legame tra testo letterario e sceneggiatura.
Interessa qui piuttosto vedere alcuni risvolti piacentini, tratti da documenti o cronache del tempo che possano costituire fonte per eventuali discussioni sul tema.
Serve però riportare un passo del bollettino che il 28 ottobre 1917 venne rilasciato dal Comando Supremo del generale Luigi Cadorna (per altro diffuso in un modo all’estero e in un altro - attenuato - in Italia): scrisse Cadorna:
“La mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso le forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti impedire all’avversario di penetrare sul sacro suolo della patria la notte”.
Sebbene il comunicato nella versione “italiana” recitasse:
“La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della seconda armata hanno permesso alle forze austro-ungariche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi dell’altro tutto non sono riusciti a impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della patria”, su quel primo comunicato si sviluppò la versione della resa “sociale” delle truppe.
Raccolta ed amplificata da Curzio Malaparte nel suo Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, e da fonti anche tedesche (Erwin Rommel, il cui ruolo a Caporetto viene sopravvalutato essendo da attribuire semmai al suo superiore diretto) si andava ad innestare perfettamente tra alcuni luoghi comuni della Grande Guerra.
In particolare alla vulgata dell’ammutinamento o sciopero militare, delle fucilazioni per decimazione, dei carabinieri alle spalle delle truppe in occasione degli attacchi per mitragliare chi non avanzava. E via di seguito. Tutte versioni pienamente sposate ad esempio dal film “Uomini contro” che ha “istruito” gli italiani forse più di quanto abbia fatto il libro dal quale traeva ispirazione, “Un anno sull’Altopiano” di Emilio Lussu, che, ancora in vita quando uscì il film, ebbe modo di sconfessare il legame tra testo letterario e sceneggiatura.
Interessa qui piuttosto vedere alcuni risvolti piacentini, tratti da documenti o cronache del tempo che possano costituire fonte per eventuali discussioni sul tema.
Premessa essenziale è la nozione che, con sede dei comandi a Fiorenzuola, tra Piacentino e Parmense vennero raccolti resti dei reparti di fanteria e degli alpini della 2ª Armata, travolta a Caporetto. Nella zona di Gossolengo vennero invece raccolti in “campi di riordinamento” soldati delle più diverse unità sbandati durante la ritirata; circa 25mila uomini. Sparsi nelle campagne ricoverati nelle stalle e nei fienili (solo pochi avevano collocazioni più civili, come il castello di Statto o un’ala del Collegio Alberoni a Veano) erano controllati in qualche modo da Gossolengo dove al castello c’era un reparto e soprattutto l’ufficio dell’avvocato militare o Rivergaro dove venivano anche interrogati dagli ufficiali sulle vicende avvenute al fronte. Non pochi furono quelli che sfuggirono al campo di raccolta e presero la direzione delle zone più selvagge dell’Appennino. Lo conferma la testimonianza orale dei ricordi di un sacerdote originario di Cattaragna dove è nato nel 1937; la nonna gli ricordava come nelle zone impervie di boschi sull’altro versante della valle, durante e subito dopo la guerra vi fossero gruppi di disertori che tutto sommato godevano delle simpatie della popolazione, che vedeva in loro la rappresentazione dei ragazzi del luogo che erano invece al fronte. I carabinieri sapevano e ignoravano, ma nella primavera del 1919 venne compiuto un grande rastrellamento con soldati di fanteria e reparti di carabinieri. Comunque questo è un capitolo che merita maggior approfondimento in altra sede.
La differenza tra gli uomini raccolti tra Fiorenzuola, Ponte dell’Olio, Lugagnano, Parma e gli altri raccolti tra Gossolengo era sostanzialmente che i primi appartenevano ad unità rimaste con un minimo di organizzazione e se sbandati si erano presentati come previsto dal bando del Comando Supremo a firma Cadorna del 2 novembre 1917 (confermato in data 14 novembre dal nuovo comandante Armando Diaz), gli altri erano stati recuperati dai carabinieri e molto spesso non avevano proprio intenzione di presentarsi ancora alle armi. Vennero inquadrati nel 1° reparto istruzione (un eufemismo condiviso anche dal 2° reparto costituito invece nel Modenese dove c’era la seconda grande concentrazione di sbandati), ma fino alla primavera del 1918 rimasero nella zona per esser poi avviati verso la Libia, dove avrebbero fatto poco danno anche se avessero voluto ammutinarsi; le precarie condizioni di controllo del territorio e i difficili rapporti coi libici avrebbero sconsigliato di abbandonare i ranghi.
Anche a Gossolengo comunque le situazioni spesso degeneravano: riporta Libertà del marzo 1918 sotto al titolo “Un aspirante ufficiale accusato di omicidio” che il giorno 15 il Tribunale di Guerra avrebbe giudicato l’aspirante ufficiale Antonio Jadocicco (nato nel 1897 in provincia di Caserta) appartenente al 1° reparto di istruzione di Rivergaro. “Deve rispondere di omicidio volontario perché il 28 gennaio 1918, nel locale della prigione dell’accantonamento della IX e X compagnia del reggimento, in Pieve Dugliara di Rivergaro, esplodeva a fine di uccidere un colpo di pistola alla testa del soldato Lasocca Pasquale, fratturandogli il cranio che fu causa della morte istantanea. L’aspirante Jadocicco è detenuto dal 2 febbraio”. Il 16 marzo Libertà riporta la conclusione del processo al quale “assistette molta folla”. “L’imputato - racconta - un bel giovane dalla faccia intelligente, dall’aspetto mite e buono, ammise il fatto, dichiarando ch’egli sparò per intimorire il soldato Lasocca, il quale in carcere, con altri cantava una canzone che suonava attroce (sic!) offesa al comandante supremo del nostro esercito e agli ufficiali e esortato al silenzio, insultava atrocemente, minacciando, il superiore. […] il soldato Lasocca, un disertore, un pessimo soggetto, ha un passato niente pulito, anzi… aveva pochi giorni prima minacciato altri ufficiali”. L’avvocato militare, cioè il P.M. sottotenente Biancheri, ammessa la provocazione, aveva chiesto una condanna a cinque anni per la “piena volontà di uccidere o per lo meno di ferire”; ma il difensore, l’avvocato piacentino Camillo Piatti “brillantemente, efficacemente distruggendo le argomentazioni dell’accusa, sostenne la irresponsabilità dell’imputato […] Fu logico, stringente, persuasivo” e l’aspirante ufficiale fu assolto per inesistenza di reato dal presidente maggiore generale cav. Rondi.
A darci il senso del clima di quei tempi è utile anche una vicenda di soluzione opposta tramandata per tradizione orale, ma testimoniata dal preziosissimo diario del giovane fiorenzuolano Luigi Dodi, poi insigne ingegnere e docente del Politecnico di Milano.
Si riferisce all’altro gruppo di reparti, quello organizzato agli ordini del generale Luigi Capello a costituire la 5ª Armata; scrive Dodi il 6 gennaio 1918 “A Vigolo Marchese è stato fucilato nella schiena un soldato del 44° Regg. fanteria (colá accampato) per atti di violenza contro un tenente.
La notizia desta grandissima impressione nel nostro paese; facevano senso le dicerie che giungevano da la fronte: ora poi che il fatto è accaduto a pochi chilometri da noi, la narrazione si ripete da l’uno a l’altro con concitata amarezza.
Mille particolari aumentano la nostra triste sensazione”. Due giorni dopo annota ancora “Al nostro Ospedale Civile c’è un Caporale del 44° Fanteria, che dà segni di pazzia in seguito al fatto di Vigolo Marchese”. Come si vede notizie di fucilazioni circolavano già allora come “dicerie” e soprattutto dopo Caporetto le preoccupazioni sia tra ufficiali e soldati, sia nella popolazione erano palpabili. La tradizione orale del fatto fornisce elementi che invece Dodi non ha; il soldato fucilato frequentava e si era invaghito di una donna del posto; una notte raggiuntala, uscendo di nascosto dall’accampamento, l’aveva trovata occupata col tenente; in una crisi di gelosia aveva riempito di botte l’ufficiale. Tanto era sufficiente, dopo Caporetto con i conseguenti problemi di ordine tra le truppe, per fare ipotizzare un tentativo di diserzione; la donna avrebbe potuto ridimensionare l’episodio ma si guardò bene dal testimoniare il doppio rapporto ufficilizzando l’inconfessabile, che avrebbe comunque lasciato sopravvivere l’accusa di aver colpito l’ufficiale, ma senza aggravante evitando forse la fucilazione.
Qualche mese più tardi, il 26 luglio 1918 Libertà riporta in prima a centro pagina (evidente la funzione pedagogica) il titolo “Piacentino condannato a morte”; sono solo ventidue righe ma valgono un intero saggio.
“All’udienza di ier l’altro questo Tribunale di Guerra ha giudicato il soldato Magistrali Pietro di Piacenza, noto pregiudicato, il quale era accusato di diserzione durata oltre trenta giorni, di porto abusivo di grado di caporale maggiore e di medaglia al valore e di falso. Il Tribunale non ha creduto di accordargli alcuna attenuante e lo ha condannato alla pena di morte mediante fucilazione nella schiena. È bene sia nota tutta la severità del Decreto Luogotenenziale 21 aprile 1918 che ha giustamente cominato contro i disertori pene gravissime, poiché in questi momenti sacri e solenni per la Patria in armi la diserzione equivale a tradimento. Presiedette il colonnello avv. Cav. Pulein; P. M. cap. Sanna. Difese d’ufficio un ufficale dell’esercito”.
Il 28 luglio, ma nella pagina interna sotto al titolo neutro “Tribunale di guerra” l’epilogo: “il Tribunale di Guerra comunica: Ieri mattina in una località nei pressi di Piacenza ha avuto luogo l’esecuzione della sentenza di condanna a morte, mediante fucilazione nella schiena pronunciata dal tribunale il 24 luglio, nei riguardi del soldato Magistrali Pietro di Piacenza, responsabile del reato di diserzione durata oltre trenta giorni, di porto abusivo di gradi di caporale e di medaglia al valore e di falso.
Erano presenti le rappresentanze di tutti i corpi di stanza a Piacenza e di alcuni reparti di Gossolengo”.
Dai documenti di un disertore piacentino, B.M. classe 1896, arruolato nel 2° reggimento Genio, e mandato al fronte nel 1916 con la 114ª compagnia zappatori, una ultima nota sul destino di militari sbandati o disertori inquadrati nei “reggimenti speciali”. B.M. il 15 febbraio 1918 fu incarcerato e poi inviato a un “campo di riordinamento” “in attesa di giudizio imputato di diserzione”; il Tribunale di Modena lo condannò il 25 marzo a tre anni di carcere militare, ma con sospensione della pena e inquadrato nel 2° reggimento speciale. E qui diventa interessante l’annotazione del registro matricola: “si dice morto in seguito a siluramento del piroscafo Verona sul quale si trovava imbarcato tutto il 2° Regg. Speciale avvenuto l’11 maggio 1918 nello Stretto di Messina però manca l’atto di decesso”. Nel 1921 venne annotato “Ammesso alla amnistia in applicazione del R.D. 2 settembre 1919” operazione strettamente burocratica perché comunque irreperibile. D’altra parte nel siluramento della Verona secondo un telegramma del prefetto di Messina la sera dell’11 maggio “Da ultime notizie ritienesi che siano periti circa un migliaio fra ufficiali, soldati e equipaggio piroscafo Verona. Giunto ora qui S. E. il Comandante del Corpo d’Armata da Palermo che dispose campo di concentramento tutti disertori naufraghi ricoverati a Reggio Calabria. Centocinquanta cadaveri questa Difesa Marittima saranno stanotte trasportati questo cimitero. Permane profonda impressione cittadinanza ma ordine pubblico sempre perfetto”; i conti non tornarono mai del tutto.
La differenza tra gli uomini raccolti tra Fiorenzuola, Ponte dell’Olio, Lugagnano, Parma e gli altri raccolti tra Gossolengo era sostanzialmente che i primi appartenevano ad unità rimaste con un minimo di organizzazione e se sbandati si erano presentati come previsto dal bando del Comando Supremo a firma Cadorna del 2 novembre 1917 (confermato in data 14 novembre dal nuovo comandante Armando Diaz), gli altri erano stati recuperati dai carabinieri e molto spesso non avevano proprio intenzione di presentarsi ancora alle armi. Vennero inquadrati nel 1° reparto istruzione (un eufemismo condiviso anche dal 2° reparto costituito invece nel Modenese dove c’era la seconda grande concentrazione di sbandati), ma fino alla primavera del 1918 rimasero nella zona per esser poi avviati verso la Libia, dove avrebbero fatto poco danno anche se avessero voluto ammutinarsi; le precarie condizioni di controllo del territorio e i difficili rapporti coi libici avrebbero sconsigliato di abbandonare i ranghi.
Anche a Gossolengo comunque le situazioni spesso degeneravano: riporta Libertà del marzo 1918 sotto al titolo “Un aspirante ufficiale accusato di omicidio” che il giorno 15 il Tribunale di Guerra avrebbe giudicato l’aspirante ufficiale Antonio Jadocicco (nato nel 1897 in provincia di Caserta) appartenente al 1° reparto di istruzione di Rivergaro. “Deve rispondere di omicidio volontario perché il 28 gennaio 1918, nel locale della prigione dell’accantonamento della IX e X compagnia del reggimento, in Pieve Dugliara di Rivergaro, esplodeva a fine di uccidere un colpo di pistola alla testa del soldato Lasocca Pasquale, fratturandogli il cranio che fu causa della morte istantanea. L’aspirante Jadocicco è detenuto dal 2 febbraio”. Il 16 marzo Libertà riporta la conclusione del processo al quale “assistette molta folla”. “L’imputato - racconta - un bel giovane dalla faccia intelligente, dall’aspetto mite e buono, ammise il fatto, dichiarando ch’egli sparò per intimorire il soldato Lasocca, il quale in carcere, con altri cantava una canzone che suonava attroce (sic!) offesa al comandante supremo del nostro esercito e agli ufficiali e esortato al silenzio, insultava atrocemente, minacciando, il superiore. […] il soldato Lasocca, un disertore, un pessimo soggetto, ha un passato niente pulito, anzi… aveva pochi giorni prima minacciato altri ufficiali”. L’avvocato militare, cioè il P.M. sottotenente Biancheri, ammessa la provocazione, aveva chiesto una condanna a cinque anni per la “piena volontà di uccidere o per lo meno di ferire”; ma il difensore, l’avvocato piacentino Camillo Piatti “brillantemente, efficacemente distruggendo le argomentazioni dell’accusa, sostenne la irresponsabilità dell’imputato […] Fu logico, stringente, persuasivo” e l’aspirante ufficiale fu assolto per inesistenza di reato dal presidente maggiore generale cav. Rondi.
A darci il senso del clima di quei tempi è utile anche una vicenda di soluzione opposta tramandata per tradizione orale, ma testimoniata dal preziosissimo diario del giovane fiorenzuolano Luigi Dodi, poi insigne ingegnere e docente del Politecnico di Milano.
Si riferisce all’altro gruppo di reparti, quello organizzato agli ordini del generale Luigi Capello a costituire la 5ª Armata; scrive Dodi il 6 gennaio 1918 “A Vigolo Marchese è stato fucilato nella schiena un soldato del 44° Regg. fanteria (colá accampato) per atti di violenza contro un tenente.
La notizia desta grandissima impressione nel nostro paese; facevano senso le dicerie che giungevano da la fronte: ora poi che il fatto è accaduto a pochi chilometri da noi, la narrazione si ripete da l’uno a l’altro con concitata amarezza.
Mille particolari aumentano la nostra triste sensazione”. Due giorni dopo annota ancora “Al nostro Ospedale Civile c’è un Caporale del 44° Fanteria, che dà segni di pazzia in seguito al fatto di Vigolo Marchese”. Come si vede notizie di fucilazioni circolavano già allora come “dicerie” e soprattutto dopo Caporetto le preoccupazioni sia tra ufficiali e soldati, sia nella popolazione erano palpabili. La tradizione orale del fatto fornisce elementi che invece Dodi non ha; il soldato fucilato frequentava e si era invaghito di una donna del posto; una notte raggiuntala, uscendo di nascosto dall’accampamento, l’aveva trovata occupata col tenente; in una crisi di gelosia aveva riempito di botte l’ufficiale. Tanto era sufficiente, dopo Caporetto con i conseguenti problemi di ordine tra le truppe, per fare ipotizzare un tentativo di diserzione; la donna avrebbe potuto ridimensionare l’episodio ma si guardò bene dal testimoniare il doppio rapporto ufficilizzando l’inconfessabile, che avrebbe comunque lasciato sopravvivere l’accusa di aver colpito l’ufficiale, ma senza aggravante evitando forse la fucilazione.
Qualche mese più tardi, il 26 luglio 1918 Libertà riporta in prima a centro pagina (evidente la funzione pedagogica) il titolo “Piacentino condannato a morte”; sono solo ventidue righe ma valgono un intero saggio.
“All’udienza di ier l’altro questo Tribunale di Guerra ha giudicato il soldato Magistrali Pietro di Piacenza, noto pregiudicato, il quale era accusato di diserzione durata oltre trenta giorni, di porto abusivo di grado di caporale maggiore e di medaglia al valore e di falso. Il Tribunale non ha creduto di accordargli alcuna attenuante e lo ha condannato alla pena di morte mediante fucilazione nella schiena. È bene sia nota tutta la severità del Decreto Luogotenenziale 21 aprile 1918 che ha giustamente cominato contro i disertori pene gravissime, poiché in questi momenti sacri e solenni per la Patria in armi la diserzione equivale a tradimento. Presiedette il colonnello avv. Cav. Pulein; P. M. cap. Sanna. Difese d’ufficio un ufficale dell’esercito”.
Il 28 luglio, ma nella pagina interna sotto al titolo neutro “Tribunale di guerra” l’epilogo: “il Tribunale di Guerra comunica: Ieri mattina in una località nei pressi di Piacenza ha avuto luogo l’esecuzione della sentenza di condanna a morte, mediante fucilazione nella schiena pronunciata dal tribunale il 24 luglio, nei riguardi del soldato Magistrali Pietro di Piacenza, responsabile del reato di diserzione durata oltre trenta giorni, di porto abusivo di gradi di caporale e di medaglia al valore e di falso.
Erano presenti le rappresentanze di tutti i corpi di stanza a Piacenza e di alcuni reparti di Gossolengo”.
Dai documenti di un disertore piacentino, B.M. classe 1896, arruolato nel 2° reggimento Genio, e mandato al fronte nel 1916 con la 114ª compagnia zappatori, una ultima nota sul destino di militari sbandati o disertori inquadrati nei “reggimenti speciali”. B.M. il 15 febbraio 1918 fu incarcerato e poi inviato a un “campo di riordinamento” “in attesa di giudizio imputato di diserzione”; il Tribunale di Modena lo condannò il 25 marzo a tre anni di carcere militare, ma con sospensione della pena e inquadrato nel 2° reggimento speciale. E qui diventa interessante l’annotazione del registro matricola: “si dice morto in seguito a siluramento del piroscafo Verona sul quale si trovava imbarcato tutto il 2° Regg. Speciale avvenuto l’11 maggio 1918 nello Stretto di Messina però manca l’atto di decesso”. Nel 1921 venne annotato “Ammesso alla amnistia in applicazione del R.D. 2 settembre 1919” operazione strettamente burocratica perché comunque irreperibile. D’altra parte nel siluramento della Verona secondo un telegramma del prefetto di Messina la sera dell’11 maggio “Da ultime notizie ritienesi che siano periti circa un migliaio fra ufficiali, soldati e equipaggio piroscafo Verona. Giunto ora qui S. E. il Comandante del Corpo d’Armata da Palermo che dispose campo di concentramento tutti disertori naufraghi ricoverati a Reggio Calabria. Centocinquanta cadaveri questa Difesa Marittima saranno stanotte trasportati questo cimitero. Permane profonda impressione cittadinanza ma ordine pubblico sempre perfetto”; i conti non tornarono mai del tutto.
Due condanne del 1915
La questione delle diserzioni e delle conseguenti condanne nasce comunque ben prima di Caporetto.
E quindi vale la pena studiare una notizia comparsa sul Nuovo Giornale dell’11 novembre 1915 (cioè a sei mesi dall’inizo della guerra); due colonne di titolo a centro pagina informano “La condanna a morte di due piacentini”; il testo “Ieri venimmo a conoscenza di una grave notizia, che cioé due soldati della nostra Provincia, certi Serena Ernesto e Barbieri Viscardo, sono stati condannati a morte dai nostri Tribunali di Guerra. Ecco alcuni particolari:
Serena Ernesto di Giovanni nativo di Fabiano e domiciliato a Borgonovo Val Tidone era soldato del... Fanteria (per tutta la guerra non verrà mai indicato nelle cronache il numero dei reggimenti ndr). Egli é stato dunque condannato in contumacia alla pena di morte da eseguirsi con la fucilazione alla schiena, previa la degradazione, con ordine del Tribunale di Guerra che sia pubblicata la sentenza e affissa alla porta dell’ultimo domicilio del condannato stesso e all’Albo Pretorio.
Motivazione della sentenza: fuga e diserzione davanti al nemico. Il Serena, è bene dirlo subito, era un anarchico.Godeva poco buona fama in paese ed era uno dei più spinti e fanatici in fatto di idee anarchiche. Si ricorda che un giorno dovendosi chiudere tutte le porte dei negozi per una dimostrazione, egli personalmente passando da un negozio all’altro voleva ciò ottenere con suprema alterigia e feroci minacce. L’aveva poi a morte colla Chiesa e coi preti e ne sparlava audacemente senza ritegno alcuno.
Tempo fa aveva viaggiato in Francia, in Isvizzera e in Austria. Ora, siccome appunto conosceva un po’ la lingua tedesca pare che i nostri si servissero proprio di lui come interprete; ma, accortisi del mariuolo, questi fu messo in linea dai medesimi come gli altri soldati. Si comprende da ciò come il Serena avrà potuto anche compiere lo spionaggio. Già, non c’era da fidarsi di lui perché viene descritto come un pessimo soggetto. Il Maresciallo dei carabinieri di Borgonovo, signor Gallini, ha avvisato jeri della terribile sentenza il padre, dello sciagurato, Giovanni Serena, il quale piange disperatamente per la sventura accaduta al figlio.
L’Autorità Militare ha stabilito che la sentenza di morte sia resa pubblica perché serva a tutti d’esempio. Il soldato Serena fa denunciato disertore il giorno 3 giugno u.s.
Barbieri Viscardo figlio di Luigi e della Curtarelli Maria nativo di Monticelli era domiciliato a Caorso. Egli pure fu condannato da un Tribunale di Guerra il quale emise un secondo mandato di cattura a suo riguardo, alla pena di morte, mediante fucilazione alla schiena e previa degradazione per il reato di diserzione in faccia al nemico. Di lui non abbiamo altri particolari”.
Fin qui la cronaca riportata dal quotidiano diocesano. Seguono una quarantina di righe di commento. E che commento:
“Se é doloroso il dovere prendere nota di questi delitti che disonorano profondamente coloro che li commettono e gettano nel lutto più angoscioso le rispettive famiglie, é consolante il constatare come siano eccezioni quei soldati in Italia che si vanno oggi macchiando di tali vilissimi e antipatriottici reati. Questi del resto concorrono a far risplendere di più fulgida luce la gloria di tutti quei milioni di prodi che si immolano sul campo dell’onore con tanto ardimento e con sì nobile fiamma di alto e sincero patriottismo.
Il soldato d’Italia, a detta anche dei nostri avversari, é un soldato ottimo sotto ogni rapporto e sa nella generalità sopportare i disagi delle guerra e persino la morte con cuore sicuro e generoso pensando che questo è il suo dovere. Insignificante dunque e di nessun conto il brutal tradimento di qualcuno, quando tutta la nazione prodigiosamente unita e compatta è in armi per il suo onore e la sua grandezza.
Sta bene però che la pena, come é stabilita dalla legge, sia inflitta a che si rende reo oggi di tradimento verso la Patria. L’esempio sarà salutare e previdenziale per tutti soldati e non soldati. Non dobbiamo però tacere un’osservazione riguardo al disertore Serena Ernesto. Egli faceva professione di anarchia e odiava e voleva distruggere la Chiesa e i preti. Non dobbiamo dunque stupirci se é precipitato in un delitto così grave. Chi semina vento, dice il proverbio, raccoglie tempesta e una pianta cattiva non può dare buoni frutti.
Ecco dove hanno condotto il Serena le sue fosche e perfide dottrine. E i preti da lui derisi e calunniati? Oh! i preti sono ben migliori soldati di lui. Quale di essi ha disertato e tradito la Patria? Nessuno! Anzi per la patria essi combattono e muoiono coraggiosamente riempiendo di meraviglia il mondo. La fede cattolica insegna a mantenere i giuramenti, ad essere virtuosi e soggetti alle autorità costituite, a morire per il proprio dovere. L’anarchia e l’irreligione insegnano, invece l’indipendenza insensata, la violenza brutale, la distruzione di ogni vincolo sacro, la viltà stupidamente orgogliosa; insegnano a recare il disonore, l’abbiezione, la vergogna e la morte nella Patria!”.
Un commento che, uscito su un quotidiano cattolico stretta espressione della Curia, lascia più di una perplessità; vero che la lettera ai Potenti di Benedetto XV (quella della "inutile strage", tanto più enfatizzata, quanto meno conosciuta) era di là da venire, ma i toni sembrano anticipare certe campagne del secondo dopoguerra ai tempi di Gedda e dei Comitati Civici del 1948.
Rimane comunque un documento interessante per capire come sin dalle prime battutte della Grande Guerra ci si ponesse - non soltanto nell’ambito delle gerarchie militari - di fronte al problema delle diserzioni e delle conseguenti condanne alla fucilazione, che avrebbero creato problemi soprattutto nel 1917 (si pensi alla rivolta a Santa Maria la Longa e alle decimazioni in luglio per la Brigata Catanzaro - 141° e 142° fanteria - che già nel 1916 aveva fatto ricorso alla decimazione di presunti disertori).
E comunque le vicende vanno conosciute dall’inizio alla fine quando se ne scrive. Perché il “titolone” (per i parametri del tempo) del Nuovo Giornale racconta solo una parte della storia, la condanna. Andando a cercare nei registri matricolari le notizie si completano e possono dare ben altri spunti di riflessione.
E quindi vale la pena studiare una notizia comparsa sul Nuovo Giornale dell’11 novembre 1915 (cioè a sei mesi dall’inizo della guerra); due colonne di titolo a centro pagina informano “La condanna a morte di due piacentini”; il testo “Ieri venimmo a conoscenza di una grave notizia, che cioé due soldati della nostra Provincia, certi Serena Ernesto e Barbieri Viscardo, sono stati condannati a morte dai nostri Tribunali di Guerra. Ecco alcuni particolari:
Serena Ernesto di Giovanni nativo di Fabiano e domiciliato a Borgonovo Val Tidone era soldato del... Fanteria (per tutta la guerra non verrà mai indicato nelle cronache il numero dei reggimenti ndr). Egli é stato dunque condannato in contumacia alla pena di morte da eseguirsi con la fucilazione alla schiena, previa la degradazione, con ordine del Tribunale di Guerra che sia pubblicata la sentenza e affissa alla porta dell’ultimo domicilio del condannato stesso e all’Albo Pretorio.
Motivazione della sentenza: fuga e diserzione davanti al nemico. Il Serena, è bene dirlo subito, era un anarchico.Godeva poco buona fama in paese ed era uno dei più spinti e fanatici in fatto di idee anarchiche. Si ricorda che un giorno dovendosi chiudere tutte le porte dei negozi per una dimostrazione, egli personalmente passando da un negozio all’altro voleva ciò ottenere con suprema alterigia e feroci minacce. L’aveva poi a morte colla Chiesa e coi preti e ne sparlava audacemente senza ritegno alcuno.
Tempo fa aveva viaggiato in Francia, in Isvizzera e in Austria. Ora, siccome appunto conosceva un po’ la lingua tedesca pare che i nostri si servissero proprio di lui come interprete; ma, accortisi del mariuolo, questi fu messo in linea dai medesimi come gli altri soldati. Si comprende da ciò come il Serena avrà potuto anche compiere lo spionaggio. Già, non c’era da fidarsi di lui perché viene descritto come un pessimo soggetto. Il Maresciallo dei carabinieri di Borgonovo, signor Gallini, ha avvisato jeri della terribile sentenza il padre, dello sciagurato, Giovanni Serena, il quale piange disperatamente per la sventura accaduta al figlio.
L’Autorità Militare ha stabilito che la sentenza di morte sia resa pubblica perché serva a tutti d’esempio. Il soldato Serena fa denunciato disertore il giorno 3 giugno u.s.
Barbieri Viscardo figlio di Luigi e della Curtarelli Maria nativo di Monticelli era domiciliato a Caorso. Egli pure fu condannato da un Tribunale di Guerra il quale emise un secondo mandato di cattura a suo riguardo, alla pena di morte, mediante fucilazione alla schiena e previa degradazione per il reato di diserzione in faccia al nemico. Di lui non abbiamo altri particolari”.
Fin qui la cronaca riportata dal quotidiano diocesano. Seguono una quarantina di righe di commento. E che commento:
“Se é doloroso il dovere prendere nota di questi delitti che disonorano profondamente coloro che li commettono e gettano nel lutto più angoscioso le rispettive famiglie, é consolante il constatare come siano eccezioni quei soldati in Italia che si vanno oggi macchiando di tali vilissimi e antipatriottici reati. Questi del resto concorrono a far risplendere di più fulgida luce la gloria di tutti quei milioni di prodi che si immolano sul campo dell’onore con tanto ardimento e con sì nobile fiamma di alto e sincero patriottismo.
Il soldato d’Italia, a detta anche dei nostri avversari, é un soldato ottimo sotto ogni rapporto e sa nella generalità sopportare i disagi delle guerra e persino la morte con cuore sicuro e generoso pensando che questo è il suo dovere. Insignificante dunque e di nessun conto il brutal tradimento di qualcuno, quando tutta la nazione prodigiosamente unita e compatta è in armi per il suo onore e la sua grandezza.
Sta bene però che la pena, come é stabilita dalla legge, sia inflitta a che si rende reo oggi di tradimento verso la Patria. L’esempio sarà salutare e previdenziale per tutti soldati e non soldati. Non dobbiamo però tacere un’osservazione riguardo al disertore Serena Ernesto. Egli faceva professione di anarchia e odiava e voleva distruggere la Chiesa e i preti. Non dobbiamo dunque stupirci se é precipitato in un delitto così grave. Chi semina vento, dice il proverbio, raccoglie tempesta e una pianta cattiva non può dare buoni frutti.
Ecco dove hanno condotto il Serena le sue fosche e perfide dottrine. E i preti da lui derisi e calunniati? Oh! i preti sono ben migliori soldati di lui. Quale di essi ha disertato e tradito la Patria? Nessuno! Anzi per la patria essi combattono e muoiono coraggiosamente riempiendo di meraviglia il mondo. La fede cattolica insegna a mantenere i giuramenti, ad essere virtuosi e soggetti alle autorità costituite, a morire per il proprio dovere. L’anarchia e l’irreligione insegnano, invece l’indipendenza insensata, la violenza brutale, la distruzione di ogni vincolo sacro, la viltà stupidamente orgogliosa; insegnano a recare il disonore, l’abbiezione, la vergogna e la morte nella Patria!”.
Un commento che, uscito su un quotidiano cattolico stretta espressione della Curia, lascia più di una perplessità; vero che la lettera ai Potenti di Benedetto XV (quella della "inutile strage", tanto più enfatizzata, quanto meno conosciuta) era di là da venire, ma i toni sembrano anticipare certe campagne del secondo dopoguerra ai tempi di Gedda e dei Comitati Civici del 1948.
Rimane comunque un documento interessante per capire come sin dalle prime battutte della Grande Guerra ci si ponesse - non soltanto nell’ambito delle gerarchie militari - di fronte al problema delle diserzioni e delle conseguenti condanne alla fucilazione, che avrebbero creato problemi soprattutto nel 1917 (si pensi alla rivolta a Santa Maria la Longa e alle decimazioni in luglio per la Brigata Catanzaro - 141° e 142° fanteria - che già nel 1916 aveva fatto ricorso alla decimazione di presunti disertori).
E comunque le vicende vanno conosciute dall’inizio alla fine quando se ne scrive. Perché il “titolone” (per i parametri del tempo) del Nuovo Giornale racconta solo una parte della storia, la condanna. Andando a cercare nei registri matricolari le notizie si completano e possono dare ben altri spunti di riflessione.
Il soldato Ernesto Serena era nato a Borgonovo il 14 luglio 1890, “soldato di leva di I classe 1890 distretto di Piacenza e lasciato in congedo illimitato” il 10 maggio 1910; alla chiamata alle armi del 16 agosto 1911 risulta “non giunto” “perché all’estero con regolare passaporto” e quindi “dispensato dall’istruzione per il motivo suddetto”; nel 1911 e nel 1912 risulta in Svizzera con tanto di nulla osta; quando viene chiamato alle armi per istruzione il 14 agosto 1914, la grande guerra é già cominciata tra gli altri Paesi e Ernesto viene inquadrato nel 26° reggimento di Fanteria, Brigata Bergamo, e quindi fa servizio a Piacenza, che é una destinazione comoda al momento, ma “trattenuto alle armi fino al 31 maggio 1915” (il R.D. del gennaio é un escamotage che avrebbe portato alla successiva mobilitazione generale) cosicché dal 23 maggio 1915 (il giorno avanti quello della dichiarazione ufficialedell’entrata nel conflitto mondiale) si trova in “territorio dichiarato in stato di guerra” con la Brigata Bergamo che é attestata in valle Judrio sul fronte di Tolmino. Giusto il tempo di vedere i primi attacchi alle alture di S. Lucia e S. Maria dove si trova la testa di ponte alla destra Isonzo che tanta parte di insuperabile spina del fianco avrà per tutta la guerra sino alla battaglia di Caporetto, e Serena il 5 giugno 1915 viene “Dichiarato disertore per essersi il 4 giugno 1915 arbitrariamente allontanato dal Corpo (26° Regg.to Fant. M.M.) dandosi alla latitanza”. L’8 giugno 1915 é “denunciato al Tribunale di Guerra della 7ª divisione”.
Sin qui i fatti che precedono l’articolo citato. Ci si aspetterebbe quella fine “esemplare” annunciata dal quotidiano cattolico. Invece la condanna come riportato era in contumacia e per i due anni successivi Serena va dove vuole: il 3 settembre 1917 infatti é “imputato di ribellione alla giustizia per avere in Valle Pianello in correità con altri disertori usato violenza contro la guardia campestre Truffelli Luigi minacciandola con la rivoltella e percuotendolo allo scopo di non essere da questo tratto in arresto”.
Come avesse fatto dall’Isonzo a tornare in val Tidone e rimanere nascosto 29 mesi sui monti dietro casa non è detto; questo però ci conferma la presenza sul nostro Appennino di bande di disertori, ben prima di Caporetto. Comunque il Serena, capisce che le circolari e i decreti potevano consentire scappatoie se ci si presentava e in qualche modo si accettava di tornare al fronte; così il 23 novembre 1917 (quindi in pieno marasma post Caporetto) si presenta al Tribunale di Guerra di Cremona e riesce a tirare fino al 26 aprile del 1918 quando é “condannato ad anni 4 R.M. per reato di ribellione con sentenza Tribunale milit. di Cremona”.
La pena comunque viene sospesa e Serena viene rimandato al fronte, oltretutto in una zona relativamente tranquilla, quella tra le Giudicarie e il Caffaro, dove in quel periodo si alternano quattro divisioni alle dipendenze del XIV Corpo d’Armata. Anche lì non deve essere rimasto a lungo tranquillo e inquadrato perché il 31 maggio 1918 sembra, ma sembra soltanto, che il caso sia arrivato al dunque; dicono i registri matricolari che é “condannato pel reato di diserzione alla pena di morte col mezzo della fucilazione nella schiena previa degradazione, alle spese del giudizio ed altre conseguenze di legge (sentenza del Tribunale di guerra del 14° Corpo d’Armata)”.
Ma la fucilazione non si farà nemmeno questa volta. Qualche pasticcetto i giudici militari devono averlo fatto perché la sentenza di cremona sparisce il 10 novembre 1919 quando viene “ammesso all’amnistia col R.D. 2.9.919 n.1502 Art. 3, con ordinanza del Tribunale mil. di Cremona”. E non é ancora finita perché dopo due condanne a morte, una condanna al carcere un’amnistia, il 2 giugno 1924 Serena (o meglio il caso Serena) torna davanti ai giudici ed é “condannato in contumacia alla pena di Reclusione Militare per la durata di anni tre (3) a tutte ve spese processuali e conseguenze di legge con sentenza del Tribunale Militare Territoriale di Milano”. In contumacia, quindi anche questa volta non si sapeva dove fosse.
Il roboante titolo del novembre 1915 comincia a suonare come una grida manzoniana di fronte alla verifiche del cronista. Anche Viscardo Barbieri, sopravvisse a condanna e guerra, anche se in modo meno rocambolesco, quanto meno per lui, perché le carte girarono e come tra comandi e tribunali.
Viscardo Barbieri era nato il 29 settembre 1889, a Monticelli era un ragazzotto alto 155 cm e mezzo, era contadino ed era analfabeta. Arruolato nel 1909 di leva venne chiamato alle armi nel 32° reggimento di fanteria presso il deposito di Piacenza il 26 novembre 1909 e fu congedato il 26 ottobre 1911; meno di un anno e viene richiamato per la guerra di Libia, il 5 agosto 1912 e assegnato al 26° fanteria, quindi ancora a Piacenza. Niente di eroico e niente partenza per il deserto ma quanto meno procura al fratello Enrico il ritardo della chiamata alle armi. Viene congedato il 26 febbraio 1913, ma un anno dopo appena scoppia la guerra europea lo richiamano; questa volta Enrico é in servizio a 33° reggimento fanteria, quindi tocca a Viscardo l’esonero. Che dura però fino alla mobilitazione del 10 maggio 1915 e torna alla Brigata Bergamo, ma al 25° fanteria che sappiamo trovarsi già il 23 maggio sulla linea del fuoco di fronte a Tolmino. Le annotazioni si fanno un po’ conffuse (si sviluppano su due differenti fogli); comunque il 22 maggio viene registrato in “territorio dichiarato in stato di guerra”; presumibilmente come tutti i soldati della Bergamo, partecipa agli attacchi vani verso Santa Lucia e Santa Maria, quelle colline sulla testa di ponte a destra Isonzo di cui abbiamo già parlato. Il 17 luglio 1915 viene fatto prigioniero proprio durante un attacco alla collina di Santa Lucia, ma l’annotazione é stata posta successivamente: viene preceduta dalla annotazione relativa al 23 luglio 1915 quando viene dichiarato “disertore coll’appropriazione di oggetti di corredo per essersi assentato dal corpo”. Lo stesso giorno vene denunciato al Tribunale di guerra del IV Corpo d’Armata da cui dipende la 7ª divisione a cui é assegnata la Bergamo. E il Tribunale di guerra del IV Corpo d’armata il 26 ottobre 1915 emette quella “sentenza esemplare” che viene fatta pubblicare dal Nuovo Giornale; il soldato Viscardo si vede quindi “condannato alla pena di morte previa degradazione per diserzione con passaggio al nemico”.
E la sentenza gli rimarrà appiccicata anche durante la prigionia; non ci sono indicazioni in proposito, ma la data del rientro lascia supporre che Viscardo fosse finito in un capo all’estrema periferia orientale dell’impero austro-ungarico entrando in quella sarabanda che avrebbe portato prigionieri italiani a finire in Siberia e rientrare con una mezza circumnavigazione del globo (alcuni dopo aver combattutto con i bianchi contro i rossi della rivoluzione leninista). Fatto é che Viscardo risulta rientrato in Italia il 12 agosto 1920; e il 12 agosto é nelle carceri militari di Firenze dove rimane fino all’aprile dell’anno successivo quando viene trasferito al Carcere Militare di Milano dove arriva l’11 aprile. Meno di 20 giorni dopo il 30 aprile viene “dichiarato assolto dall’imputazione di diserzione con sentenza del Tribunale MIlitare di Milano per non provata reità”. Il giorno stesso esce dal carcere e viene mandato al Distretto di Piacenza per il congedo; solo il 16 giugno però Viscardo avrà il congedo illimitato e verrà liquidato con “lire 250 + 50 pel pacco”. Gli sarà riconosciuta la campagna del 1915.
Due vicende molto diverse quelle di Serena e quella di Barbieri. Il primo ha attraversato quattro anni di guerra tra condanne in contumacia alla detenzione e alla fucilazione senza conseguenze particolari; prescindendo dalle considerazioni “politiche” del giornale che diede la notizia della condanna a morte, si ha quasi l’impressione che Serena si sia sottratto al dovere più furbescamente che per motivi ideologici. Barbieri sembra piuttosto lo stereotipo del fantaccino analfabeta che capita per caso negli eventi, che fa il proprio dovere senza capire come la storia rischi di travolgerlo e ne viene travolto restando lontano da casa per 60 mesi, cinque anni che di sicuro tra prigionia in Austria, varie peregrinazioni e infine il carcere militare in Italia non sono stati comodi come le latitanze di Serena.
Due storie esemplari quindi dalle carte, forse non proprio nel senso che si ipotizzava nel 1915.
Di recente è stata avanzata l’ipotesi di una amnistia e una rivalutazione per tutti i fucilati durante la Grande Guerra. Per chi vuol farsi un’idea in proposito questi casi piacentini possono essere utili. Si traggano le considerazioni e le valutazioni conseguenti tenendo presente dagli esempi di casa nostra il problema delle condanne capitali durante la guerra é da prospettarsi su piani differenti; anzitutto quello delle condanne a seguito di processo seppur in Tribunale di guerra, (e se hanno, di fatto, avuto un seguito); quello delle decimazioni dopo azioni di massa spesso condotte dai carabinieri, e infine quello delle fucilazioni estemporanee sul campo anche per mano di ufficiali inferiori di fronte a situazioni contingenti alla presenza del nemico. Qui ci si accontenti di spunti per una discussione più ampia.
Sin qui i fatti che precedono l’articolo citato. Ci si aspetterebbe quella fine “esemplare” annunciata dal quotidiano cattolico. Invece la condanna come riportato era in contumacia e per i due anni successivi Serena va dove vuole: il 3 settembre 1917 infatti é “imputato di ribellione alla giustizia per avere in Valle Pianello in correità con altri disertori usato violenza contro la guardia campestre Truffelli Luigi minacciandola con la rivoltella e percuotendolo allo scopo di non essere da questo tratto in arresto”.
Come avesse fatto dall’Isonzo a tornare in val Tidone e rimanere nascosto 29 mesi sui monti dietro casa non è detto; questo però ci conferma la presenza sul nostro Appennino di bande di disertori, ben prima di Caporetto. Comunque il Serena, capisce che le circolari e i decreti potevano consentire scappatoie se ci si presentava e in qualche modo si accettava di tornare al fronte; così il 23 novembre 1917 (quindi in pieno marasma post Caporetto) si presenta al Tribunale di Guerra di Cremona e riesce a tirare fino al 26 aprile del 1918 quando é “condannato ad anni 4 R.M. per reato di ribellione con sentenza Tribunale milit. di Cremona”.
La pena comunque viene sospesa e Serena viene rimandato al fronte, oltretutto in una zona relativamente tranquilla, quella tra le Giudicarie e il Caffaro, dove in quel periodo si alternano quattro divisioni alle dipendenze del XIV Corpo d’Armata. Anche lì non deve essere rimasto a lungo tranquillo e inquadrato perché il 31 maggio 1918 sembra, ma sembra soltanto, che il caso sia arrivato al dunque; dicono i registri matricolari che é “condannato pel reato di diserzione alla pena di morte col mezzo della fucilazione nella schiena previa degradazione, alle spese del giudizio ed altre conseguenze di legge (sentenza del Tribunale di guerra del 14° Corpo d’Armata)”.
Ma la fucilazione non si farà nemmeno questa volta. Qualche pasticcetto i giudici militari devono averlo fatto perché la sentenza di cremona sparisce il 10 novembre 1919 quando viene “ammesso all’amnistia col R.D. 2.9.919 n.1502 Art. 3, con ordinanza del Tribunale mil. di Cremona”. E non é ancora finita perché dopo due condanne a morte, una condanna al carcere un’amnistia, il 2 giugno 1924 Serena (o meglio il caso Serena) torna davanti ai giudici ed é “condannato in contumacia alla pena di Reclusione Militare per la durata di anni tre (3) a tutte ve spese processuali e conseguenze di legge con sentenza del Tribunale Militare Territoriale di Milano”. In contumacia, quindi anche questa volta non si sapeva dove fosse.
Il roboante titolo del novembre 1915 comincia a suonare come una grida manzoniana di fronte alla verifiche del cronista. Anche Viscardo Barbieri, sopravvisse a condanna e guerra, anche se in modo meno rocambolesco, quanto meno per lui, perché le carte girarono e come tra comandi e tribunali.
Viscardo Barbieri era nato il 29 settembre 1889, a Monticelli era un ragazzotto alto 155 cm e mezzo, era contadino ed era analfabeta. Arruolato nel 1909 di leva venne chiamato alle armi nel 32° reggimento di fanteria presso il deposito di Piacenza il 26 novembre 1909 e fu congedato il 26 ottobre 1911; meno di un anno e viene richiamato per la guerra di Libia, il 5 agosto 1912 e assegnato al 26° fanteria, quindi ancora a Piacenza. Niente di eroico e niente partenza per il deserto ma quanto meno procura al fratello Enrico il ritardo della chiamata alle armi. Viene congedato il 26 febbraio 1913, ma un anno dopo appena scoppia la guerra europea lo richiamano; questa volta Enrico é in servizio a 33° reggimento fanteria, quindi tocca a Viscardo l’esonero. Che dura però fino alla mobilitazione del 10 maggio 1915 e torna alla Brigata Bergamo, ma al 25° fanteria che sappiamo trovarsi già il 23 maggio sulla linea del fuoco di fronte a Tolmino. Le annotazioni si fanno un po’ conffuse (si sviluppano su due differenti fogli); comunque il 22 maggio viene registrato in “territorio dichiarato in stato di guerra”; presumibilmente come tutti i soldati della Bergamo, partecipa agli attacchi vani verso Santa Lucia e Santa Maria, quelle colline sulla testa di ponte a destra Isonzo di cui abbiamo già parlato. Il 17 luglio 1915 viene fatto prigioniero proprio durante un attacco alla collina di Santa Lucia, ma l’annotazione é stata posta successivamente: viene preceduta dalla annotazione relativa al 23 luglio 1915 quando viene dichiarato “disertore coll’appropriazione di oggetti di corredo per essersi assentato dal corpo”. Lo stesso giorno vene denunciato al Tribunale di guerra del IV Corpo d’Armata da cui dipende la 7ª divisione a cui é assegnata la Bergamo. E il Tribunale di guerra del IV Corpo d’armata il 26 ottobre 1915 emette quella “sentenza esemplare” che viene fatta pubblicare dal Nuovo Giornale; il soldato Viscardo si vede quindi “condannato alla pena di morte previa degradazione per diserzione con passaggio al nemico”.
E la sentenza gli rimarrà appiccicata anche durante la prigionia; non ci sono indicazioni in proposito, ma la data del rientro lascia supporre che Viscardo fosse finito in un capo all’estrema periferia orientale dell’impero austro-ungarico entrando in quella sarabanda che avrebbe portato prigionieri italiani a finire in Siberia e rientrare con una mezza circumnavigazione del globo (alcuni dopo aver combattutto con i bianchi contro i rossi della rivoluzione leninista). Fatto é che Viscardo risulta rientrato in Italia il 12 agosto 1920; e il 12 agosto é nelle carceri militari di Firenze dove rimane fino all’aprile dell’anno successivo quando viene trasferito al Carcere Militare di Milano dove arriva l’11 aprile. Meno di 20 giorni dopo il 30 aprile viene “dichiarato assolto dall’imputazione di diserzione con sentenza del Tribunale MIlitare di Milano per non provata reità”. Il giorno stesso esce dal carcere e viene mandato al Distretto di Piacenza per il congedo; solo il 16 giugno però Viscardo avrà il congedo illimitato e verrà liquidato con “lire 250 + 50 pel pacco”. Gli sarà riconosciuta la campagna del 1915.
Due vicende molto diverse quelle di Serena e quella di Barbieri. Il primo ha attraversato quattro anni di guerra tra condanne in contumacia alla detenzione e alla fucilazione senza conseguenze particolari; prescindendo dalle considerazioni “politiche” del giornale che diede la notizia della condanna a morte, si ha quasi l’impressione che Serena si sia sottratto al dovere più furbescamente che per motivi ideologici. Barbieri sembra piuttosto lo stereotipo del fantaccino analfabeta che capita per caso negli eventi, che fa il proprio dovere senza capire come la storia rischi di travolgerlo e ne viene travolto restando lontano da casa per 60 mesi, cinque anni che di sicuro tra prigionia in Austria, varie peregrinazioni e infine il carcere militare in Italia non sono stati comodi come le latitanze di Serena.
Due storie esemplari quindi dalle carte, forse non proprio nel senso che si ipotizzava nel 1915.
Di recente è stata avanzata l’ipotesi di una amnistia e una rivalutazione per tutti i fucilati durante la Grande Guerra. Per chi vuol farsi un’idea in proposito questi casi piacentini possono essere utili. Si traggano le considerazioni e le valutazioni conseguenti tenendo presente dagli esempi di casa nostra il problema delle condanne capitali durante la guerra é da prospettarsi su piani differenti; anzitutto quello delle condanne a seguito di processo seppur in Tribunale di guerra, (e se hanno, di fatto, avuto un seguito); quello delle decimazioni dopo azioni di massa spesso condotte dai carabinieri, e infine quello delle fucilazioni estemporanee sul campo anche per mano di ufficiali inferiori di fronte a situazioni contingenti alla presenza del nemico. Qui ci si accontenti di spunti per una discussione più ampia.
Nota: il presente saggio è già stato pubblicato sulla rivista "L'Urtiga", quadrimestrale di Cultura Piacentina, nr. 15 del 2017. Il Grac ringrazia l'Autore e l'Editore per la concessione.
Pagina pubblicata il 09 marzo 2018