La tragedia del Baby Shoes di Albeto Magnani
Baby Shoes era il soprannome attribuito da un equipaggio di aviatori americani al proprio aereo. Si trattava di un bombardiere medio bimotore B-26, uscito dai cantieri della Martin nel 1942 e immatricolato con il numero 95937. Appariva interamente di colore metallico ed era contrassegnato dall’identificativo 68 sulla coda[1].
Il 5 settenbre 1944, il Baby Shoes precipitò nella campagna novarese. Per tre membri dell’equipaggio iniziò allora una lunga odissea che li porterà in Ossola e, quindi, tra le vette innevate delle Alpi, sino a una drammatica conclusione, nel gennaio del 1945. Si tratta di un episodio poco conosciuto, quasi rimosso, sembrerebbe, dalla storiografia[2].
5 settembre 1944
Lunedì 4 e martedì 5 settembre 1944, nel quadro dell’offensiva aerea condotta dagli Alleati contro le linee di comunicazione terrestri nel Nord Italia, la città di Pavia subì una serie di bombardamenti[3]: i ponti sul Ticino, fra cui lo storico Ponte Vecchio, vennero distrutti, con la morte di alcune decine di abitanti[4]. Il Baby Shoes faceva parte di una formazione di ventinove B-26, appartenenti al 320° Bomber Group, che dovevano partecipare all’operazione[5]. La loro missione era prevista per la mattinata del giorno 5.
Quel giorno l’aereo volava con l’equipaggio al completo. Ai comandi era il capitano pilota Luther Moyer, proveniente dalle campagne della Pennsylvania; al suo fianco sedeva il secondo pilota, il second lieutnant Robert Nealy, di New York; puntatore era Albert Bulow, anch’egli second lieutnant e di New York, l’unico sposato dell’equipaggio. I mitraglieri, tutti sottufficiali, erano Donald Lundgren, del Massachussetts, Leonard Hoyne, di Chicago, George Rolfe e John Mc Gowan, entrambi di New York. Come in tutti gli equipaggi dei bombardieri americani, i mitraglieri erano ventenni o poco più, gli ufficiali intorno ai ventisei anni.
Gli apparecchi, decollati dalla base di Decimomannu, in Sardegna, sorvolarono La Spezia, quindi puntarono in direzione nord-ovest sino a Tortona: da lì proseguirono verso nord, per poi deviare e portarsi su Pavia. Tuttavia, appena superato il Po, incapparono nel fuoco di sbarramento di una batteria contraerea[6]. Per circa un minuto le granate esplosero nel cielo, schizzando micidiali schegge in tutte le direzioni. Una di esse colpì il motore destro del Baby Shoes.
Luther Moyer mantenne il controllo del bombardiere, che, però perse quota. Il puntatore Bulow domandò se dovesse alleggerirlo dal carico di bombe e Moyer rispose che glielo avrebbe fatto sapere. Per una trentina di secondi, Moyer rifletté sulla situazione: valutò che l’aereo non era in grado di far ritorno alla base, ma si poteva tentare di raggiungere la Svizzera e riparare, almeno, in territorio neutrale. Allora ordinò a Bulow di sganciare.
Più in alto, volava un altro B-26, anch’esso danneggiato, ma in modo meno grave, dalla contraerea. Il motorista stava controllando le condutture del gas e uno dei mitraglieri, guardando fuori da un finestrino, notò il Baby Shoes in difficoltà. <<Il motore non sembrava distrutto>>, riferirà, <<ma potevo vedere un foro sopra il rivestimento.>> Qualche istante dopo si aprirono gli ombrelli di quattro paracadute e l’aereo scomparve inghiottito dalle nubi[7].
Il meccanismo di sgancio delle bombe, infatti, non aveva funzionato. Moyer, allora, aveva dato ordine di abbandonare l’aereo. I quattro mitraglieri si lanciarono dal portello posteriore: prima Lundgren, poi Mc Gowan, quindi gli altri due. A bordo rimasero, per qualche minuto, i piloti e il puntatore. Questi entrò nella stiva e saltò da un portello. Robert Nealy, il secondo pilota, ricorderà: <<Il pilota mi ordinò di lanciarmi. Pensavo che avesse intenzione di seguirmi. Il pilota disse di non aver bisogno di nient’altro e allora lasciai l’aereo.>>[8]
Nealy scese nella stiva e si gettò nel vuoto. Ma Moyer non lo seguì. <<Aveva tutto il tempo per lanciarsi>>, diranno i superstiti. La Svizzera era a non molti minuti di volo: forse Moyer sperava ancora di poterla raggiungere. Il Baby Shoes cominciò a precipitare: si schiantò nella campagna novarese, presso Sozzago, ed esplose[9]. I rottami volarono attorno in un raggio di duecento metri.
Passaggio in Svizzera
Il 6 settembre, la popolazione pavese era traumatizzata dalle incursioni sui ponti. <<La furia cieca e bestiale dei delinquenti dell’aria>>, scriveva la stampa fascista, <<ha provocato ventisei morti ed oltre quaranta feriti, fra i quali molte donne e bambini>>. Il Ponte Vecchio, simbolo della città, era quasi interamente crollato. Si scavava tra le macerie: emergeranno altri diciannove cadaveri[10].
Eppure, dei sei aviatori superstiti del Baby Shoes, tre erano scomparsi nel nulla, evidentemente soccorsi e nascosti dalla gente del posto. Il mitragliere George Rolfe era stato catturato dai tedeschi nelle campagne della Lomellina. Bulow, il puntatore, era incappato in una pattuglia di militi fascisti più a nord; poco dopo si ritrovò assieme al copilota Nealy, che si era fratturato una gamba nell’impatto con il suolo ed era stato facilmente individuato. Nealy venne ricoverato a Novara, da dove passò all’ospedale militare di Verona e, quindi, a quello di Freising, in Germania[11]. I tre aviatori furono rinchiusi in un campo di prigionia presso Francoforte, da cui usciranno al termine delle ostilità.
Degli altri, invece, nessuna traccia. Soltanto due paracadute, abbandonati in mezzo ai campi[12]. Nelle campagne attorno a Mortara, infatti, già dopo l’8 settembre 1943 numerosi ex prigionieri britannici, fuggiti dai campi presenti in zona, avevano trovato aiuto e solidarietà nel mondo contadino. In seguito, si erano sviluppate reti organizzative, promosse dagli antifascisti, con lo scopo di agevolare l’espatrio in Svizzera di questi uomini[13]. Molti avevano passato il confine. Altri, dopo un anno, vivevano ancora alla macchia. Qualche elemento particolarmente deciso si era unito ai partigiani e prendeva parte attiva alla Resistenza[14]. Uno di essi era l’australiano John Desmond Peck, che, a ventidue anni, aveva alle spalle una vita a dir poco romanzesca: combattente in Africa e a Creta, a fianco dei partigiani prima greci e poi italiani, catturato tre volte e altrettante evaso[15]. Tra il giugno e l’ottobre del 1944, Peck organizzò il passaggio di ex prigionieri e aviatori dalla pianura del Piemonte orientale alle montagne dell’Ossola. Lundgren, McGowan e Hoyne seguirono questo itinerario e si spostarono verso le Alpi, riparando nel territorio ossolano, controllato dalla Resistenza a partire dalla metà del settembre 1944.
Lundgren e McGowan, a quanto risulta, rimasero assieme, separati da Hoyne. I tre, probabilmente, sperarono – come tutti, del resto – che la campagna d’Italia si concludesse prima della fine dell’anno. L’offensiva angloamericana, invece, si spense in autunno, mentre i rastrellamenti ponevano fine all’esperienza del territorio libero dell’Ossola. L’approssimarsi dell’inverno e l’intensificarsi delle operazioni antipartigiane rendevano la situazione sempre più difficile.
Il 17 novembre 1944, venne paracadutata nel Biellese la missione britannica Cherokee, con a capo il maggiore Alistair Mac Donald. Tra i compiti della missione, oltre a stabilire un collegamento con le formazioni di Moscatelli, vi era quello di avviare in Svizzera i militari alleati ancora presenti nel settore[16]. Nelle ultime settimane, gli espatri erano stati organizzati da Frank Jocumsen, un ex prigioniero australiano unitosi, dopo l’8 settembre, alla Resistenza e divenuto un personaggio leggendario[17]. In dicembre, però, Frank venne trattenuto in Svizzera e reintegrato nell’esercito britannico: veniva così a mancare un esperto conoscitore dei sentieri che conducevano verso i confini del paese neutrale.
Il maggiore Mac Donald, con l’aiuto dei partigiani, individuò una via d’accesso alla Svizzera attraverso il Monte Gridone: nessuno aveva mai tentato prima di penetrare da quella parte, così Mac Donald mise insieme un gruppo di volontari disposti a sperimentarla. L’ufficiale chiarì che il percorso era difficoltoso e il buon esito del tentativo non era assicurato, poi strinse a tutti la mano e augurò buona fortuna[18].
Al gruppo si aggiunsero altri elementi, sudafricani e neozelandesi. Per ultimo arrivò Leonard Hoyne, uno dei mitraglieri del Baby Shoes. Un partigiano li guidò sino a una base situata sui monti presso la riva occidentale del lago d’Orta[19]. Qui rimasero alcune settimane, in attesa di altri militari alleati. Il sudafricano John F. Welsh, che lascerà un resoconto dettagliato dei fatti, ricorda: <<Dovevamo condividere la nostra sistemazione con altri sei partigiani circa. Il Natale del 1944 passò come un giorno qualsiasi: non avevamo assolutamente niente da festeggiare. Fu là che ci incontrammo con altri fuggiaschi, che sarebbero venuti in Svizzera con noi.>>[20] Si trattava di cinque russi, che erano stati arruolati nell’esercito tedesco e avevano disertato durante un rastrellamento; e degli altri due mitraglieri del Baby Shoes, Lundgren e McGowan, che, così, si ricongiunsero a Hoyne.
20 gennaio 1945
Il 19 gennaio 1945, il gruppo si mise in marcia per la Svizzera. In totale, si componeva di quindici militari alleati – cui si aggiunse, all’ultimo momento, un australiano[21] - e di tre partigiani che fungevano da guida. Gli uomini marciarono in mezzo alla neve tutto il giorno e trascorsero la notte in una stalla. L’unico rifornimento di cibo consistette in un pentolone di riso abbrustolito, che Lundgren e Mc Gowan non si sentirono di mangiare.
La mattina del 20 iniziò l’ultima tappa del viaggio. Gli uomini attraversarono un ponte sospeso sul vuoto, quindi si arrampicarono sulle pendici del monte Gridone, finché una delle guide italiane indicò un cippo che marcava il confine. Le guide si congedarono dai militari alleati e diedero loro le istruzioni per scendere sino al paese di Brissago.
I sedici uomini proseguirono per due ore lungo un sentiero. La giornata era soleggiata, ma il freddo tagliente. Tutto il paesaggio intorno era coperto di neve. La colonna si sgranò in tre gruppi, dei quali il più numeroso, composto da dieci uomini, rimase più indietro: ne facevano parte i cinque russi, due sudafricani – Douglas Clarke e John Welsh - e i tre aviatori.
Improvvisamente, comparvero due militari armati, che intimarono l’alt. Erano due giovani svizzeri di lingua tedesca, che portavano le mostrine del 92° Battaglione Fucilieri: uno solo parlava qualche parola di italiano. I dieci profughi cercarono di comunicare gridando ad alta voce, in modo da mettere in guardia i sei compagni più avanti. Questi ultimi si allontanarono e raggiunsero rapidamente Brissago.
John Welsh, quello che, del gruppo, conosceva meglio l’italiano, convinse le guardie di frontiera svizzere che tutti erano militari alleati. Le guardie, allora, li fecero tornare indietro, riprendendo il sentiero in salita. <<Clark, McGowan e Lundgren erano allo stremo delle forze>>, racconta John Welsh, <<e difficilmente in grado di riprendere la marcia, così domandai ai soldati di lasciarci proseguire la discesa. Quelli però risposero che il villaggio più vicino era a tre ore di marcia e che ci stavano portando alle loro baracche, che si trovavano presso il sentiero a circa un’ora e mezza>>.
Douglas Clarke era il più stremato. Welsh e le due guardie lo sostennero un po’, quindi gli svizzeri <<prima uno, poi l’altro>> afferma Welsh, <<ci abbandonarono dicendo che andavano a cercare aiuto. Scomparvero, e non li ho più rivisti.>>
Hoyne e i russi, più in forze, erano in testa alla colonna e riuscirono a tenere il passo con le guardie. Gli altri due aviatori rimasero indietro, con Clarke, e Welsh, che lo sosteneva. <<Stavano calando le tenebre. Ci investì una bufera. Durò solo qualche minuto, ma il vento, mentre ci soffiava addosso, sollevava la neve come sabbia su una spiaggia. Stavamo congelando.>>
Quando il vento si calmò, Welsh risalì in cerca di aiuto, anche se, ormai, per Douglas Clarke non c’era più nulla da fare. Morì in mezzo alla neve. Per una strana coincidenza del destino, proprio in quello stesso giorno, nel sole del Sudafrica, sua sorella si era sposata. Welsh trovò il corpo di Lundgren, disteso a lato del sentiero. Era morto anche lui.
Più avanti Welsh si imbatté in McGowan e in uno dei russi. I tre decisero di tornare verso il basso, ma solo il russo aveva abbastanza energie per riuscirvi. <<McGowan era in condizioni pietose>>, riferisce Welsh. <<Si sedette in quel punto, succhiando la neve dalle dita gelate. Lo avvisai di non farlo, ma mi disse che era affamato e assetato. Era ovvio, sapevo che non aveva mangiato il riso abbrustolito il giorno prima, e non avevamo altro. McGowan morì circa un’ora più tardi, a qualche iarda di distanza dal sentiero.>>
Ormai solo, Welsh continuò la discesa, quando udì alcune grida risuonare in mezzo all’oscurità. Si diresse allora verso il punto da cui proveniva il richiamo e trovò Hoyne, con i quattro russi rimasti. Hoyne gli spiegò che uno dei soldati svizzeri aveva ordinato loro di entrare in una capanna e di rimanervi; aveva promesso di far giungere cibo e tè caldo, poi si era allontanato. Hoyne e i russi si erano messi a chiamare i compagni rimasti indietro, ma solo Welsh era ancora vivo per sentirli. Welsh chiese a Hoyne, che portava un orologio, che ore fossero. Erano quasi le 23[22].
Quando interviene la ragion di Stato
I sei superstiti trascorsero la notte rintanati nella capanna. La mattina del 21 gennaio trascorse senza che comparissero le guardie di frontiera, né, tantomento, i rifornimenti promessi. Alle 11.30, il gruppo decise di avviarsi in direzione della valle. Durante la discesa, i sei incrociarono i cadaveri dei compagni. Raggiunsero il punto dove erano stati fermati. Passarono oltre, e incontrarono una guardia di frontiera, <<un uomo anziano, un caporale>>, che parlava inglese e disse di essere alla loro ricerca. L’uomo li accompagnò a Brissago, ove arrivarono fra le 13.30 e le 14.00.
Successivamente, i russi vennero spostati altrove. Hoyne e i britannici, invece, furono trasferiti a Bellinzona, ove ricevettero assistenza medica. Le autorità militari alleate aprirono un’inchiesta sull’accaduto. Hoyne riferì i fatti all’addetto militare degli Stati Uniti, quindi, il 10 febbraio, venne inviato in Francia, ad Annecy. Infine venne rimpatriato: Hoyne non aveva più i genitori, ma viveva con uno zio, che rivide a Chicago nell’aprile del 1945.
L’inchiesta evidenziò le gravi negligenze delle due guardie di frontiera e le loro responsabilità nella morte dei tre uomini. Le autorità elvetiche replicarono che i due avevano fatto tutto il possibile per aiutare i militari alleati; purtroppo, erano stati assegnati da poco, non conoscevano bene la zona ed erano stati ostacolati dalle difficoltà linguistiche.
Le giustificazioni svizzere furono accettate. In quelle stesse settimane, la Confederazione era al centro di decisive controversie diplomatiche. Una delegazione degli Stati Uniti, guidata da Lauchlin Currie, stava negoziando l’interruzione dei legami economici e finanziari tra Svizzera e Germania: l’8 marzo si giunse al “Currie agreement”, visto come una “capitolazione” della Svizzera alle richieste americane (di fatto, a guerra finita, la Svizzera recupererà la propria autonomia di movimento)[23]. In quel contesto, evidentemente, non si desideravano ulteriori fattori di tensione. Sarà una coincidenza, ma il trasferimento di Hoyne in Francia precede immediatamente l’arrivo della delegazione di Currie.
Aggiungiamo che, sempre in Svizzera, stavano anche per iniziare le trattative segrete fra gli Alleati e un gruppo di ufficiali tedeschi disposti a negoziare la resa delle forze in Italia, all’insaputa del loro comandante, Kesserling, e di Berlino. Si trattava, dunque, di una trattativa estremamente delicata, per la quale era indispensabile la piena cooperazione delle autorità elvetiche.
Lo storico sudafricano Paul Schamberger, dopo aver analizzato la vicenda, ritiene <<possibile, addirittura probabile>> che le due guardie di frontiera fossero elementi filonazisti. Le connivenze delle autorità svizzere con il regime di Hitler sono un fatto ormai acquisito a livello storiografico ed erano certamente presenti a tutti i livelli. Naturalmente, a distanza di decenni, non si può stabilire con sicurezza se quelle due guardie fossero davvero simpatizzanti di Hitler o, per usare l’espressione di John Welch, semplicemente two young cretins, incapaci di gestire l’emergenza.
Invece, si può spendere qualche parola in difesa di Hoyne, duramente criticato da Schamberger per non aver rilanciato le accuse contro i militari svizzeri quando rientrò negli Stati Uniti. Hoyne, infatti, secondo la prassi, doveva confermare la morte dei suoi due compagni nel rapporto sull’abbattimento del Baby Shoes e si limitò a dichiarare: << il sergente Lundgren Donald e il Sergente McGowan John morirono sulle Alpi italiane nell’Italia del Nord il 20 gennaio 1945. Ero con loro quando morirono per assideramento, provocato dalla carenza di cibo.>>[24]
Secondo Schamberger, scrivendo questa frase <<nero su bianco>>, Hoyne dimostrava <<amnesia postbellica>> e rinunciava a <<far rizzare la schiena al mondo seduto>>.
In primo luogo, non fu Hoyne a scrivere. La frase venne dattiloscritta da un furiere, sulla base della testimonianza dell’aviatore. Il genere di rapporto in questione (MACR) era finalizzato a determinare le modalità della perdita dell’aereo e la sorte dei singoli membri dell’equipaggio: in quel momento le autorità militari erano già a conoscenza dell’accaduto e Hoyne doveva solo confermarlo. Se egli avesse formulato accuse ai militari svizzeri, gli sarebbe stato obiettato che la materia non era di competenza dell’ufficio; in ogni caso, i MACR erano documenti riservati, dunque non era possibile servirsene per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale. Hoyne, come i suoi compagni britannici, aveva già esposto le sue accuse durante l’inchiesta svolta in Svizzera. Né lui, né gli altri erano responsabili del fatto che la ragion di Stato avesse stabilito di chiudere il caso.
I sentimenti provati dai superstiti sono espressi da Jack Rowe con queste parole: <<Non ho mai ascoltato i risultati dell’inchiesta, non ci interessavano. Ciò che sapevamo tutti era che tre dei nostri compagni erano morti quando non fischiavano le pallottole, non cadevano le bombe, non lampeggiava l’acciaio. Erano morti a due passi da Brissago, la meta dopo settimane di incubo trascorse ad arrampicarsi sulle Alpi. […] Per quanto odiassimo le guardie svizzere, apprezzavamo i civili. Ci facemmo molti veri amici. Tutti erano comprensivi e gentili. Non erano fieri delle guardie che avevano lasciato morire i nostri compagni.>>[25]
I cadaveri di Lundgren e McGowan vennero sepolti con gli onori militari in un cimitero svizzero. A guerra finita, il Governo degli Stati Uniti li fece traslare in patria. Il pilota del Baby Shoes, Luther Moyer, era invece stato sepolto nel cimitero di Sozzago. Nel suo caso, la famiglia preferì che rimanesse in Italia, per cui oggi riposa nel cimitero militare americano di Firenze.
(Il presente saggio è stato pubblicato sulla rivista di storia contemporanea "l'impegno" nel giugno 2013)
[1] I dati relativi all’aereo in questione sono riportati nel rapporto redatto dopo il suo abbattimento, Missing Air Crew Report (d’ora in avanti: MACR) 8090, consultabile in rete nel sito www.fold3.com.
[2] Anche nel testo specialistico di Mark Styling, B-26 Marauder units of the Mediterranean Theatre of Operations, Osprey, London, 2008, p. 75, si cita l’abbattimento dell’aereo ma non i drammatici fatti successivi, trascurando i nomi dei due aviatori che ne furono vittima. Ha riportato alla luce la vicenda lo scrittore sudafricano Paul Schamberger, autore del testo Interlude in Switzerland. The story of the South African refugee in the Alps during the Second World War, Parkhurst, WP Schamberger, 2007. La parte relativa ai superstiti del Baby Shoes è stata inserita nel sito www.320thbg.org, con il titolo Tragedy on the Mountain.
[3] La strategia prevedeva di bloccare la circolazione terrestre e ferroviaria nelle retrovie, in modo da provocare il collasso delle truppe tedesche al fronte. Di fatto si risolse in un fallimento, in quanto gli attacchi aerei non riuscirono a ottenere una paralisi totale. Andrea Villa, Guerra aerea sull’Italia (1943-1945), Milano, Guerini, 2010, pp. 171 sgg.
[4] Bombardamenti di Pavia e provincia, a cura di Mario Scala, Pavia, EMI, 1997, pp. 77-105.
[5] L’obiettivo indicato nel MACR 8090 è Mazzanino, ma dal War Diary del 320° BG, consultabile in rete nel sito 320thbg.org.mission, risulta chiaramente che gli aerei dovevano bombardare i ponti di Pavia.
[6] All’altezza di Torreberetti, secondo MACR 8090.
[7] Rapporto del sergente Chet L. Marstellar, MACR 8090.
[8] Rapporto di Robert Nealy, MACR 8090.
[9] La Guardia Nazionale Repubblicana il 9 settembre annotò la caduta di un aereo a Sozzago, di cui, dei tre aviatori a bordo, uno rimase ucciso, gli altri due vennero catturati. Si tratta evidentemente del Baby Shoes, che, sempre secondo tale fonte, sarebbe stato abbattuto dalla contraerea di Magenta. La confusione si spiega con le numerose incursioni avvenute in quei giorni sul Ticino. Renzo Fiammetti, L’Ovest Ticino dalla Prima Guerra Mondiale alla Liberazione. Una storia delle comunità di Cameri, Galliate, Trecate, Romentino e Cerano, Novara, Interlinea, 1997, pp. 117 e 159r.
[10] “Il Popolo Repubblicano”, 6 settembre 1944.
[11] MACR 8090.
[12] “Il Popolo Repubblicano”, 22 settembre 1944, corrispondenza da Sant’Angelo Lomellina.
[13] Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 5-28.
[14] Massimiliano Tenconi, Prigionia, sopravvivenza e resistenza. Storie di australiani e neozelandesi in provincia di Vercelli (1943-1945), “L’Impegno”, giugno 2008.
[15] John Desmond Peck (1922-2002), si congedò dall’esercito come ufficiale e si stabilì in Gran Bretagna. Il suo archivio personale, trasferito in Australia, contiene molti documenti relativi alla Resistenza nel Vercellese. Un indice è consultabile nel sito trove.nlagov.au/work.
[16] Tenconi, Prigionia, sopravvivenza e Resistenza cit., p. 47.
[17] Ibidem, pp. 43-45.
[18] Testimonianza di uno dei volontari, Jack Rowe, riportata in www.aifpow.com.
[19] Probabilmente la stessa base che verrà utilizzata per ospitare i membri delle missioni alleate Chrysler e Mongoose. La missione Cherokee nel Biellese. Due testimonianze, “L’Impegno”, aprile 1992, p. 46.
[20] Testimonianza di John F. Welsh, riportata in Schamberger, Tragedy on the Mountain cit.
[21] In totale, il gruppo era composto da quattro australiani, due sudafricani, due neozelandesi, cinque russi e i tre aviatori americani.
[22] La ricostruzione si basa sulla testimonianza citata di John Welsh.
[23] Neville Wylie, Britain, Switzerland and the Second World War, Oxford, University Press, 2003, pp. 112 sgg.
[24] MACR 8090.
[25] Jack Rowe, testimonianza citata.
IL B-26 era un bimotore ad ala alta, costruito dalla Glenn L. Martin Company in America, chiamato "Marauder" (predone), ed ha svolto le mansioni di bombardiere medio nel teatro operativo europeo durante la guerra. Aereo molto "da naso" per via dell'alta velocità di stallo (lo chiamavano anche "fabbricatore di vedove" per i numerosi incidenti mortali durante l'addestramento degli equipaggi); raggiungeva una velocita massima ragguardevole per un bombardiere: oltre 450 km/h. L'armamento difensivo era costituito da sette mitragliatrici Browning da 7,62 mm, sui primi esemplari, poi sostituite dalle mitragliere da 12,7 mm.
Foto sopra: Closeup_view_of_Martin_B-26C_in_flight
Foto sopra: Closeup_view_of_Martin_B-26C_in_flight
Qui sotto il rapporto "MACR" compilato dai comandi americani a seguito del mancato rientro di "Baby Shoes"...
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