La strage di Strà – 30 luglio1944
di Romano Repetti
di Romano Repetti
Una domenica pomeriggio: l’assassinio di nove innocenti
Percorrendo la strada di fondovalle della Val Tidone a partire da Castel San Giovanni sulla via Emilia pavese, poco prima di Pianello V. T. s’incontra sulla sinistra la frazione di Strà, appartenente al comune di Nibbiano. Dopo l’area del moderno santuario dedicato alla memoria delle vittime civili di guerra, una via stretta, che oggi ha nome “Via Martiri di Strà”, scende fra le case, proseguendo poi con fondo solo ghiaiato fino al vicino torrente Tidone. Nel 1944 era la via centrale del vecchio paese, lungo la quale, di fronte al monumento che oggi ricorda quei martiri, stava una piccola bottega di alimentari, della quale tuttora si vede il locale, con la porta d’ingresso affiancata da una apertura sovrastante un piccolo davanzale.
Li, nel primo pomeriggio del 30 luglio 1944, giorno di domenica, i militari appartenenti ad un raggruppamento italiano-tedesco di ritorno da un fallito attacco ai partigiani insediati nella non lontana Rocca d’Olgisio, dopo aver sostato a mangiare pane e salame e a bere vino, si scatenarono con le loro pistole-mitragliatrici, con bombe a mano e persino con pugnali, contro le persone che stavano in quel locale, nella annessa abitazione e nello spazio antistante, uccidendole tutte: cinque donne fra i 21 e gli 85 anni di età, un bambino di 2 anni e la madre che lo teneva in braccio, un giovane di 16 anni e due uomini molto anziani.
Li, nel primo pomeriggio del 30 luglio 1944, giorno di domenica, i militari appartenenti ad un raggruppamento italiano-tedesco di ritorno da un fallito attacco ai partigiani insediati nella non lontana Rocca d’Olgisio, dopo aver sostato a mangiare pane e salame e a bere vino, si scatenarono con le loro pistole-mitragliatrici, con bombe a mano e persino con pugnali, contro le persone che stavano in quel locale, nella annessa abitazione e nello spazio antistante, uccidendole tutte: cinque donne fra i 21 e gli 85 anni di età, un bambino di 2 anni e la madre che lo teneva in braccio, un giovane di 16 anni e due uomini molto anziani.
Quattro delle vittime appartenevano alla famiglia Riccardi, proprietaria della bottega, che aveva servito il cibo ai soldati: Luisa di 21 anni, Maria di 27, Giuseppe di 76, Clementina di 85; il bambino si chiamava Alessandro Falsetti e sua madre Aurora Vitali, 40 anni; il giovane sedicenne, Primino Mazzoccchi, aveva una menomazione mentale certamente evidente a quei soldati che lo avevano in precedenza fermato a Gabbiano di Pianello e costretto, con il carretto a mano che aveva con sé, a trasportare fino a lì pacchi di munizioni; le altre due vittime erano Teresa Cavallari di 42 anni e Cesare Politi di 72. Tutti civili, inermi, pacifici ed estranei alla lotta che conducevano i partigiani nella vallata.
Si definisce strage un eccidio contemporaneo, o comunque compiuto nel corso della stessa azione, di quattro o più persone. Furono diverse le stragi subite dai partigiani, e da partigiani unitamente a civili, durante l’occupazione tedesca ed il regime fascista di Salò, anche con 20 e più vittime contemporanee, ma quella di Strà fu la più brutale e più insensata, e compiuta esclusivamente sulla popolazione civile, su persone inerme e pacifiche. Fu anche accompagnata da violenze nei confronti degli altri abitanti del paese, con ingressi di forza nelle abitazioni, minacce, incendi, saccheggi e ruberie.
Si definisce strage un eccidio contemporaneo, o comunque compiuto nel corso della stessa azione, di quattro o più persone. Furono diverse le stragi subite dai partigiani, e da partigiani unitamente a civili, durante l’occupazione tedesca ed il regime fascista di Salò, anche con 20 e più vittime contemporanee, ma quella di Strà fu la più brutale e più insensata, e compiuta esclusivamente sulla popolazione civile, su persone inerme e pacifiche. Fu anche accompagnata da violenze nei confronti degli altri abitanti del paese, con ingressi di forza nelle abitazioni, minacce, incendi, saccheggi e ruberie.
Foto sopra: in questo edificio esisteva la bottega di alimentari della famiglia Riccardi. La maggior parte delle uccisioni avvenne in questo luogo. E proprio davanti alla bottega fu eretto, nell'immediato dopoguerra, dalla locale amministrazione, il monumento a ricordo.
Sullo specifico svolgimento dell’eccidio e su chi ne erano stati precisamente gli esecutori, se solo tedeschi o anche militari italiani, non vi furono poi a Strà persone che potessero darne una testimonianza diretta. Non vi furono perché tutte le persone presenti sul luogo della strage, nella piccola bottega dei Riccardi e all’esterno di essa, furono uccise, compresa la signora Teresa Cavallari che, sentendo gli spari e le bombe, si era affacciata da una finestra della sua casa che prospettava sul luogo dell’eccidio. Le ricostruzioni sulla esecuzione dell’eccidio sono state fatte esclusivamente in base alla posizione e alle condizioni in cui furono trovate i cadaveri dopo la partenza da Strà, quel pomeriggio, dei militari nazi-fascisti e su affermazioni di alcuni militari di Salò interrogati durante le istruttorie giudiziali di tempi successivi, affermazioni però del tutto reticenti e rivolte ad escludere ogni personale responsabilità. Nessuno degli autori della strage pagò mai per quell’atroce delitto.
Si conoscono invece le circostanze in cui maturò o fu addirittura programmato quel crimine contro l’umanità, si conosce la successione dei fatti di quella giornata del 30 luglio ’44 nella media Val Tidone, la dinamica dei comportamenti delle forze nazi-fasciste là convenute ed i corpi militari a cui appartenevano, in parte anche i nomi di quei militari. Oltre alle testimonianze raccolte a suo tempo, esistono documenti dell’epoca di parte fascista e di parte partigiana, esistono gli atti dei procedimenti giudiziali richiamati (sui cui contenuti ha riferito il giornalista/storico Ermanno Mariani) ed anche degli atti giudiziari tedeschi che recentemente il ricercatore storico Claudio Oltremonti è riuscito a consultare.
E’ possibile dunque, mettendo a confronto i contenuti dei diversi documenti e vagliando, alla luce di questi, le testimonianze, comporre un quadro abbastanza completo ed affidabile di quella drammatica giornata.
Quel 30 luglio 1944 era giunto all’alba nella media Val Tidone, su automezzi, un forte raggruppamento di militari italiani della RSI e germanici, con diversi ufficiali ed un comandante in capo tedesco, per attaccare i partigiani insediati nella Rocca d’Olgisio, situata su un colle rupestre del comune di Pianello, non lontano dalla stessa Strà.
Si conoscono invece le circostanze in cui maturò o fu addirittura programmato quel crimine contro l’umanità, si conosce la successione dei fatti di quella giornata del 30 luglio ’44 nella media Val Tidone, la dinamica dei comportamenti delle forze nazi-fasciste là convenute ed i corpi militari a cui appartenevano, in parte anche i nomi di quei militari. Oltre alle testimonianze raccolte a suo tempo, esistono documenti dell’epoca di parte fascista e di parte partigiana, esistono gli atti dei procedimenti giudiziali richiamati (sui cui contenuti ha riferito il giornalista/storico Ermanno Mariani) ed anche degli atti giudiziari tedeschi che recentemente il ricercatore storico Claudio Oltremonti è riuscito a consultare.
E’ possibile dunque, mettendo a confronto i contenuti dei diversi documenti e vagliando, alla luce di questi, le testimonianze, comporre un quadro abbastanza completo ed affidabile di quella drammatica giornata.
Quel 30 luglio 1944 era giunto all’alba nella media Val Tidone, su automezzi, un forte raggruppamento di militari italiani della RSI e germanici, con diversi ufficiali ed un comandante in capo tedesco, per attaccare i partigiani insediati nella Rocca d’Olgisio, situata su un colle rupestre del comune di Pianello, non lontano dalla stessa Strà.
Ore 05:30, attacco ai partigiani insediati nella Rocca d’Olgisio
Tre giorni prima di quel 30 luglio, il capo partigiano Giovanni Lazzetti noto come “Il Ballonaio” e la sua squadra di “audaci” avevano catturato sulla Via Emilia pavese un autocarro, condotto da soldati tedeschi, carico di diverse centinaia di moschetti militari. La sera dello stesso giorno il Ballonaio e due compagni, camuffati da tedeschi ed usando quell’autocarro, erano riusciti ad entrare liberamente nella caserma Sant’Anna di Piacenza e ad impossessarsi di altre armi. Il tutto era stato poi portato nella zona dell’alta Val Tidone sotto controllo partigiano. Era un grave schiaffo per le autorità e le forze militari tedesche e fasciste, per la vulnerabilità dimostrata e perché quelle armi avrebbero rafforzato le forze partigiane. Con l’incursione ed il rastrellamento del 30 luglio si proponevano quindi di recuperare le armi e l’automezzo e colpire duramente i partigiani della zona, a cominciare dal loro presidio più avanzato, quello insediato nella Rocca d’Olgisio sopra Pianello.
Le autorità militari fasciste avevano messo assieme quella spedizione punitiva attingendo da tutti i loro corpi presenti a Piacenza: GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), Decima MAS, Brigata Nera Pippo Astorri e ufficiali in servizio preso la Direzione d’Artiglieria connessa all’Arsenale militare.
Quelle tedesche, avendo l’esercito impegnato a fronteggiare l’avanzata degli Alleati in Toscana e nelle Marche, avevano in quel momento poche forze a Piacenza. Il comandante della Piazza, maggiore Bleker, poteva contare normalmente su squadre della “Feldgendarmerie” , cioè della tradizionale polizia militare, ma da qualche tempo era stato trasferito in Italia anche il 15° Reggimento di polizia S.S., e il nucleo principale del reparto tedesco inviato a Strà era costituito da appartenenti alla 2ª compagnia di quel reggimento, riconoscibili dalle loro uniformi mimetiche.
Quei militari provenivano dal fronte orientale, dai territori dell’Unione Sovietica, dove erano stati impiegati nelle azioni di sterminio di partigiani e civili resistenti agli invasori tedeschi, nonché per lo sterminio delle persone di origine ebraica anche se non resistenti. E’ noto che nei territori dell’URSS, a seguito delle disposizioni date da Hitler, vennero abbandonate le regola del diritto internazionale di guerra e l’esercito tedesco fece ricorso ad ogni possibile brutalità per terrorizzare la popolazione e provocare il collasso delle forze armate sovietiche. Ed è noto che le forze militari tedesche avevano avuto l’ordine di applicare in Italia le disposizione già date da Hitler per la guerra contro l’Unione Sovietica.
Il fatto che un gruppo di quegli uomini, addestrati e abituati ai massacri a sangue freddo, fosse incluso nella spedizione del 30 luglio in Val Tidone fa pensare che una strage fosse preordinata: probabilmente, nel caso Rocca D’Olgisio fosse stata espugnata, innazitutto l’immediata fucilazione di tutti i partigiani che si trovavano là.
A capo della spedizione fu messo un capitano tedesco, anche se la più parte dei militari impiegati, delle armi pesanti e degli automezzi blindati, appartenevano a corpi della Rsi. L’attacco a Rocca d’Olgisio è descritta nel modo seguente in una stringata relazione inviata il 12 agosto ‘44 dal Comando provinciale della GNR al loro Comando nazionale a Brescia e personalmente a Mussolini:
Le autorità militari fasciste avevano messo assieme quella spedizione punitiva attingendo da tutti i loro corpi presenti a Piacenza: GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), Decima MAS, Brigata Nera Pippo Astorri e ufficiali in servizio preso la Direzione d’Artiglieria connessa all’Arsenale militare.
Quelle tedesche, avendo l’esercito impegnato a fronteggiare l’avanzata degli Alleati in Toscana e nelle Marche, avevano in quel momento poche forze a Piacenza. Il comandante della Piazza, maggiore Bleker, poteva contare normalmente su squadre della “Feldgendarmerie” , cioè della tradizionale polizia militare, ma da qualche tempo era stato trasferito in Italia anche il 15° Reggimento di polizia S.S., e il nucleo principale del reparto tedesco inviato a Strà era costituito da appartenenti alla 2ª compagnia di quel reggimento, riconoscibili dalle loro uniformi mimetiche.
Quei militari provenivano dal fronte orientale, dai territori dell’Unione Sovietica, dove erano stati impiegati nelle azioni di sterminio di partigiani e civili resistenti agli invasori tedeschi, nonché per lo sterminio delle persone di origine ebraica anche se non resistenti. E’ noto che nei territori dell’URSS, a seguito delle disposizioni date da Hitler, vennero abbandonate le regola del diritto internazionale di guerra e l’esercito tedesco fece ricorso ad ogni possibile brutalità per terrorizzare la popolazione e provocare il collasso delle forze armate sovietiche. Ed è noto che le forze militari tedesche avevano avuto l’ordine di applicare in Italia le disposizione già date da Hitler per la guerra contro l’Unione Sovietica.
Il fatto che un gruppo di quegli uomini, addestrati e abituati ai massacri a sangue freddo, fosse incluso nella spedizione del 30 luglio in Val Tidone fa pensare che una strage fosse preordinata: probabilmente, nel caso Rocca D’Olgisio fosse stata espugnata, innazitutto l’immediata fucilazione di tutti i partigiani che si trovavano là.
A capo della spedizione fu messo un capitano tedesco, anche se la più parte dei militari impiegati, delle armi pesanti e degli automezzi blindati, appartenevano a corpi della Rsi. L’attacco a Rocca d’Olgisio è descritta nel modo seguente in una stringata relazione inviata il 12 agosto ‘44 dal Comando provinciale della GNR al loro Comando nazionale a Brescia e personalmente a Mussolini:
“Il 30 luglio ’44, alle ore 5,30, in Rocca d’Olgisio, reparti della G.N.R, della X MAS e militari tedeschi, effettuavano un’azione di rastrellamento contro il quartier generale dei banditi. Venuti a contatto con il nemico, i nostri aprivano un nutrito fuoco appoggiato da tre autoblindo, due mitragliere da 20, due anticarro da 47, un mortaio da 81 ed un pezzo da 88. Ma la schiacciante superiorità di mezzi del nemico costringeva i nostri a ritirarsi dopo lunga e accanita lotta. Mentre si ignorano le perdite nemiche, i nostri avevano complessivamente due morti e sei feriti”.
E’ un documento breve ma rilevante per ben tre aspetti. Innanzitutto perché non riferisce, e quindi nasconde, che quel “rastrellamento” antipartigiano si era concluso con l’eccidio a Strà di nove civili estranei alla lotta partigiana. E’ probabile che a compiere quella strage siano stati materialmente solo militari tedeschi, ma la connivenza di quelli della RSI è sottolineata anche da quel silenzio.
In secondo luogo quel rapporto evidenzia la potenza di fuoco dei rastrellatori – automezzi blindati, un potente cannone (il “pezzo da 88” del quale esamineremo più avanti la dislocazione e l’utilizzo), due altri moderni cannoni anticarro, un mortaio e potenti mitraglie. Se ne deduce che furono assai coraggiosi e abili i partigiani dislocati a Rocca d’Olgisio – che appartenevano alla 1a Brigata Giustizia e Libertà al comando di Antonio Piacenza, ingegnere piacentino nella vita civile - e quelli che arrivarono in loro soccorso dalla zona di Pecorara e Piozzano, compreso il Ballonaio con i suoi uomini, nel fronteggiare, con un armamento ben più modesto, quel poderoso attacco e nel costringere i nemici alla ritirata.
In terzo luogo, il rapporto della GNR registra le vittime subite dagli attaccanti: due morti e sei feriti. Incrociando questo documento con quelli tedeschi se ne deduce che dei due caduti uno era certamente un militare italiano di parte fasciata, l’altro un sottufficiale tedesco, di cui vedremo più avanti le circostanze della morte. Pure dei feriti si sa che almeno tre erano tedeschi e furono poi ricoverati all’Ospedale militare di Piacenza
Sulle base delle testimonianze, di partigiani e di militari di Salò presenti, si può ricostruire l’andamento dell’attacco e dei combattimenti. Gli attaccanti si avvicinarono a piedi lungo la strada che sale tuttora da Pianello, coperti da un’autoblinda, fino a qualche centinaia di metri dalla Rocca; dopo essersi appostati, con una altoparlante intimarono la resa agli occupanti. Quelli risposero invece con scariche di fucile e raffiche di arme automatiche. Il combattimento si accese. I militari di Salò ed i tedeschi indirizzarono verso la Rocca un intenso fuoco con le loro mitraglie e con un pezzo anticarro; l’autoblinda cercò di avvicinarsi sventagliando con la mitragliatrice posta nella sua torretta girevole. L’unica mitraglia dei partigiani rimasta efficiente, manovrata da un esperto ex alpino, colpì ripetutamente “la blinda” - un grosso autocarro Fiat 666 N corazzato e trasformato all’arsenale di Piacenza, in dotazione alla GNR - mettendo in pericolo gli occupanti e i soldati che la seguivano al coperto. La blinda fece allora una serie di manovre difficoltose sulla stretta strada, per arretrare. “Alle 9 circa ci fu il primo ferito, un soldato tedesco” ha raccontato l’ufficiale della GNR Giovanni Isola, proseguendo: “Allora il capitano tedesco (che era a capo della spedizione) ordinò ad un suo sottufficiale di portarsi a Piacenza per fare intervenire nuove armi e nuove munizioni e (ci) ordinò il ripiegamento fino a due chilometri avanti Pianello. Dal castello intanto intensificarono il fuoco”.
Durante la ritirata, che sarebbe iniziata verso le ore 10, gli attaccanti in rotta ebbero il primo caduto e altri feriti, ad opera in particolare di nuove squadre di partigiani arrivati nel frattempo da altre zone in soccorso di quelli della Rocca. Nella sua relazione sulla battaglia il comandante Antonio Piacenza ha scritto: “Avevamo esaurito quasi tutto il munizionamento (ma) a mezzogiorno avemmo la sensazione di aver vinto”. La battaglia però non era finita; aggiunge infatti lo stesso comandante di brigata: “I nazifascisti si fermarono esausti a Strà e (da lì) iniziarono un tiro di artiglieria con pezzi da 88, riuscendo a piazzare colpi sulla Rocca che però resistette solidamente con le sue possenti mura”.
In secondo luogo quel rapporto evidenzia la potenza di fuoco dei rastrellatori – automezzi blindati, un potente cannone (il “pezzo da 88” del quale esamineremo più avanti la dislocazione e l’utilizzo), due altri moderni cannoni anticarro, un mortaio e potenti mitraglie. Se ne deduce che furono assai coraggiosi e abili i partigiani dislocati a Rocca d’Olgisio – che appartenevano alla 1a Brigata Giustizia e Libertà al comando di Antonio Piacenza, ingegnere piacentino nella vita civile - e quelli che arrivarono in loro soccorso dalla zona di Pecorara e Piozzano, compreso il Ballonaio con i suoi uomini, nel fronteggiare, con un armamento ben più modesto, quel poderoso attacco e nel costringere i nemici alla ritirata.
In terzo luogo, il rapporto della GNR registra le vittime subite dagli attaccanti: due morti e sei feriti. Incrociando questo documento con quelli tedeschi se ne deduce che dei due caduti uno era certamente un militare italiano di parte fasciata, l’altro un sottufficiale tedesco, di cui vedremo più avanti le circostanze della morte. Pure dei feriti si sa che almeno tre erano tedeschi e furono poi ricoverati all’Ospedale militare di Piacenza
Sulle base delle testimonianze, di partigiani e di militari di Salò presenti, si può ricostruire l’andamento dell’attacco e dei combattimenti. Gli attaccanti si avvicinarono a piedi lungo la strada che sale tuttora da Pianello, coperti da un’autoblinda, fino a qualche centinaia di metri dalla Rocca; dopo essersi appostati, con una altoparlante intimarono la resa agli occupanti. Quelli risposero invece con scariche di fucile e raffiche di arme automatiche. Il combattimento si accese. I militari di Salò ed i tedeschi indirizzarono verso la Rocca un intenso fuoco con le loro mitraglie e con un pezzo anticarro; l’autoblinda cercò di avvicinarsi sventagliando con la mitragliatrice posta nella sua torretta girevole. L’unica mitraglia dei partigiani rimasta efficiente, manovrata da un esperto ex alpino, colpì ripetutamente “la blinda” - un grosso autocarro Fiat 666 N corazzato e trasformato all’arsenale di Piacenza, in dotazione alla GNR - mettendo in pericolo gli occupanti e i soldati che la seguivano al coperto. La blinda fece allora una serie di manovre difficoltose sulla stretta strada, per arretrare. “Alle 9 circa ci fu il primo ferito, un soldato tedesco” ha raccontato l’ufficiale della GNR Giovanni Isola, proseguendo: “Allora il capitano tedesco (che era a capo della spedizione) ordinò ad un suo sottufficiale di portarsi a Piacenza per fare intervenire nuove armi e nuove munizioni e (ci) ordinò il ripiegamento fino a due chilometri avanti Pianello. Dal castello intanto intensificarono il fuoco”.
Durante la ritirata, che sarebbe iniziata verso le ore 10, gli attaccanti in rotta ebbero il primo caduto e altri feriti, ad opera in particolare di nuove squadre di partigiani arrivati nel frattempo da altre zone in soccorso di quelli della Rocca. Nella sua relazione sulla battaglia il comandante Antonio Piacenza ha scritto: “Avevamo esaurito quasi tutto il munizionamento (ma) a mezzogiorno avemmo la sensazione di aver vinto”. La battaglia però non era finita; aggiunge infatti lo stesso comandante di brigata: “I nazifascisti si fermarono esausti a Strà e (da lì) iniziarono un tiro di artiglieria con pezzi da 88, riuscendo a piazzare colpi sulla Rocca che però resistette solidamente con le sue possenti mura”.
Quel cannone a Strà e il maresciallo capo-pezzo colpito a morte
Evidentemente nel frattempo le “nuove armi” richieste a Piacenza dal capitano tedesco erano arrivate: in specifico quel cannone identificato con la sigla 88/27, del peso di 18 quintali, posto su ruote e trainabile da un autoblindo, capace di una gittata di 12.000 metri. Era stato piazzato appena sotto Strà lungo il tratto di strada che dal paese raggiunge il torrente Tidone, con a fronte e visibile la Rocca d’Olgisio a circa 5.000 metri di distanza. E incominciò appunto a sparare i suoi grossi proiettili in direzione del maniero dopo che gli attaccanti si erano ritirati. Questi, militari tedeschi e della RSI, giunti a Strà e inoltrati i feriti verso Borgonovo, si fermarono al centro del paese dove stava la piccola bottega e si fecero servire quegli unici generi alimentari di cui disponeva, pane, salame e vino. Intanto il cannone inviava alla Rocca i suoi grosso proiettili esplosivi.
Foto sopra: cannone da 88 identico a quello impiegato a Stra (Quest'arma pesante fu in uso anche nell'Esercito Italiano nel dopoguerra). L'esemplare nell'immagine sopra è posto come monumento in Via Don Milani a Settima nel comune di Gossolengo. (Foto Arrigo Francani)
La sosta a Strà fu lunga. Aspettavano che il cannone esaurisse la scorta di granate per rimorchiarlo dietro un automezzo e tornare tutti a Piacenza? O attendevano che le mura e gli edifici della Rocca d’Olgisio fossero demoliti dal cannone per tornare all’attacco e fare finalmente un eccidio di partigiani? O la loro missione era quella di lasciare comunque in quella zona della Val Tidone un segno sanguinoso, un monito terrorizzante, e aspettavano il momento di metterlo in atto?
Colpisce fra l’altro che se ne stessero li - il grosso dei soldati al centro del paese a ristorarsi e alcuni un po’ più giù attorno al cannone - senza chiedersi e preoccuparsi di quello che nel frattempo avrebbero fatto i partigiani, senza predisporre un servizio di copertura e di allerta. Dalla Rocca infatti, e logicamente, qualche squadra fu incaricata di scendere verso il basso, di seguire a distanza i soldati tedeschi e di Salò, di cercare di capire le loro intenzioni e possibilmente di mettere a tacere quel cannone che continuava ad inviare sù i suoi proiettili. In un resoconto della battaglia pubblicato il 15 agosto ’44 da “Il Grido del Popolo”, periodico della Divisione partigiana GL al comando di Fausto Cossu , stampato a Bobbio che in quel periodo era sotto controllo partigiano, è scritto:
"I tedeschi, uniti ad un gruppo di fascisti, avevano piazzato un cannone presso la frazione di Strà e di li battevano Rocca d'Olgisio, da dove la mattina una forte puntata di reparti della X Flottiglia Mas era stata sanguinosamente respinta. Andammo in esplorazione con la valorosa squadra del Ballonaio sulla quota dominante Pianello Val Tidone, mentre un gruppo di arditi sparava con un mitragliatore contro il nemico dal fondo valle. I tedeschi ebbero delle vittime e, visto il pericolo di essere presi alle spalle, si preparavano a ritirarsi: in quel momento uno di loro cadde colpito".
Colpisce fra l’altro che se ne stessero li - il grosso dei soldati al centro del paese a ristorarsi e alcuni un po’ più giù attorno al cannone - senza chiedersi e preoccuparsi di quello che nel frattempo avrebbero fatto i partigiani, senza predisporre un servizio di copertura e di allerta. Dalla Rocca infatti, e logicamente, qualche squadra fu incaricata di scendere verso il basso, di seguire a distanza i soldati tedeschi e di Salò, di cercare di capire le loro intenzioni e possibilmente di mettere a tacere quel cannone che continuava ad inviare sù i suoi proiettili. In un resoconto della battaglia pubblicato il 15 agosto ’44 da “Il Grido del Popolo”, periodico della Divisione partigiana GL al comando di Fausto Cossu , stampato a Bobbio che in quel periodo era sotto controllo partigiano, è scritto:
"I tedeschi, uniti ad un gruppo di fascisti, avevano piazzato un cannone presso la frazione di Strà e di li battevano Rocca d'Olgisio, da dove la mattina una forte puntata di reparti della X Flottiglia Mas era stata sanguinosamente respinta. Andammo in esplorazione con la valorosa squadra del Ballonaio sulla quota dominante Pianello Val Tidone, mentre un gruppo di arditi sparava con un mitragliatore contro il nemico dal fondo valle. I tedeschi ebbero delle vittime e, visto il pericolo di essere presi alle spalle, si preparavano a ritirarsi: in quel momento uno di loro cadde colpito".
Foto sopra: il campo davanti al Mulino Buccellari di Stra dove presumibilmente era stato allestito il cannone, da questa posizione si vede Rocca d'Olgisio, distante in linea ottica poco più di quattro chilometri.
Come attestano altre testimonianze, i partigiani che erano scesi nel “fondovalle” si erano attestati in un campo di granoturco a fronte di Strà ma dall’altra parte del Tidone da cui la visibilità verso la frazione non era ostacolata dalla disordinata vegetazione di oggi. Da lì spararono in direzione del cannone, evidentemente mirando in particolare a chi sembrava il capo-pezzo. Ne fu colpito a morte il sottufficiale tedesco, un trentenne militare di professione in servizio nella Wehrmacht dall’inizio della guerra hitleriana e giunto al grado di maresciallo, che sicuramente sovrintendeva a quella postazione di artiglieria.
Poco dopo i soldati che stavano al centro del paese misero mano alle bombe, ai mitra, ai pugnali, e fecero strage di tutti gli abitanti che avevano sottomano. Non sappiamo se ad uccidere furono solo i militari hitleriani, in particolare gli appartenenti alla polizia S.S.. Ma quelli fascisti ne furono in ogni caso conniventi e quindi corresponsabili, non solo assistendo passivamente all’eccidio ma anche contribuendo ad incendiare alcuni caseggiati e cascine e dedicandosi, più dei tedeschi, ai saccheggi e alle ruberie.
Poco dopo i soldati che stavano al centro del paese misero mano alle bombe, ai mitra, ai pugnali, e fecero strage di tutti gli abitanti che avevano sottomano. Non sappiamo se ad uccidere furono solo i militari hitleriani, in particolare gli appartenenti alla polizia S.S.. Ma quelli fascisti ne furono in ogni caso conniventi e quindi corresponsabili, non solo assistendo passivamente all’eccidio ma anche contribuendo ad incendiare alcuni caseggiati e cascine e dedicandosi, più dei tedeschi, ai saccheggi e alle ruberie.
Foto sopra: veduta della valle verso nord da Rocca d'Olgisio; nella foto di sinistra l'elisse in rosso indica l'abitato di Strà, nella foto di destra il campo tra il Mulino e il Tidone, dove era piazzato il cannone da 88.
Non è mancato anche di recente in provincia di Piacenza qualcuno che in qualche modo ha cercato di “spiegare”, in pratica giustificare, la strage dei nove innocenti con la morte del maresciallo tedesco, presentando questi quale vittima di un “assassinio proditorio”, compiuto cioè a tradimento, e l’eccidio dei nove civili quale rappresaglia “legittimata”, se non da norme, da consuetudini di guerra.
In realtà il maresciallo perse la vita perché colpito nel corso della battaglia, fu cioè una delle vittime dell’azione militare intrapresa in Val Tidone dalla formazione nazi-fascista di cui faceva parte contro i partigiani di Rocca d’Olgisio. Le modalità della sua morte non giustificavano alcuna ritorsione e rappresaglia sui civili di Strà, inermi ed estranei alla battaglia, meno che mai su un bambino di 2 anni e su donne e anziani di oltre 70.
In realtà il maresciallo perse la vita perché colpito nel corso della battaglia, fu cioè una delle vittime dell’azione militare intrapresa in Val Tidone dalla formazione nazi-fascista di cui faceva parte contro i partigiani di Rocca d’Olgisio. Le modalità della sua morte non giustificavano alcuna ritorsione e rappresaglia sui civili di Strà, inermi ed estranei alla battaglia, meno che mai su un bambino di 2 anni e su donne e anziani di oltre 70.
Comunicato del Comitato di Liberazione Nazionale piacentino
Quanto avvenuto a Strà fu pubblicamente stigmatizzato in un comunicato del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) piacentino pubblicato sul citato “Grido del Popolo” del 15 agosto 1944. Sotto si riporta il documento integrale.
Bibliografia e fonti
- Grido del Popolo, Anno I, n. 1, 15.8.1944, reperibile nel sito www.stampaclandestina.it
- Mariani Ermanno, L’eccidio di Strà e la banda Moroder-Pasini, Pontegobbo, 2004.
- Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 12.8.1944 nel sito www.notiziarignr.it.
- Oltremonti Claudio, Nelle S.P.I.R.E. del regime, Createspace Indipendent Pub, 2017
- Piacenza Antonio, La battaglia di Rocca d’Olgisio, documento riprodotto in Storia della Resistenza nel piacentino, pag. 86-87, di Antonino La Rosa, TIP.LE.CO, 1985.
Pagina pubblicata il 05 gennaio 2019