Piacenza dalla liberazione alle elezioni comunali del marzo 1946
La costruzione della democrazia fra l’eredità della guerra, i soggetti del cambiamento e le strutture di conservazione
(Saggio di Romano Repetti esposto durante il Convegno Storico tenutosi a Piacenza il 9 aprile 2016 presso la Sala Consiliare della Provincia)
La costruzione della democrazia fra l’eredità della guerra, i soggetti del cambiamento e le strutture di conservazione
(Saggio di Romano Repetti esposto durante il Convegno Storico tenutosi a Piacenza il 9 aprile 2016 presso la Sala Consiliare della Provincia)
Piacenza sottoposta a due diversi poteri
E’ risaputo che appena le formazioni partigiane assunsero, all’alba del 28 aprile 1945, il controllo di Piacenza, gli esponenti dei quattro partiti antifascisti che componevano il Comitato di Liberazione Nazionale della nostra provincia, riuniti nella sede della Prefettura, provvedevano immediatamente a nominare e a comunicare alla popolazione i nuovi responsabili delle maggiori istituzioni di governo della città: Prefettura, Provincia, Comune, Questura.
A capo della Prefettura fu posto l’avvocato Vittorio Minoia, un stimato professionista di orientamento democristiano, affiancato, in qualità di vice-prefetti, dall’avvocato Aldo Clini, esponente del Partito d’Azione e da un ex funzionarie di prefettura fatto rientrare dalla pensione, il dott. Pietro Nuvolone.
Alla direzione dell’Amministrazione provinciale fu collocata una personalità indipendente, l’anziano Francesco Pallastrelli, che era stato un apprezzato sindaco di Piacenza dal 1906 al 1912. Come suoi vice due ingegneri, Giuseppe Zanetti e Gaetano La Rocca.
I comunisti avevano chiesto di poter esprimere la carica più significativa sotto l’aspetto politico, quello del sindaco: fu nominato il geometra Giuseppe Visconti, affiancato dai vice-sindaci avvocato Giuseppe Arata del Psi e avvocato Giovanni Laneri della DC.
Alla direzione della Questura fu posta il già comandante partigiano Fausto Cossu, anche lui avvocato e soprattutto già ufficiale dell’Arma dei carabinieri.
Quelle nomine erano del tutto legittime perché nel dicembre del ’44 il presidente del governo italiano, Ivanoe Bonomi, aveva delegato il CLN AI e quindi i CLN provinciali derivati, a rappresentare il governo nazionale nei territori del Nord Italia via via sottratti all’occupazione tedesca e al controllo del regime fascista di Salò, e le autorità militari alleate a loro volta avevano concordato che in questi territori l’organizzazione dei CLN avrebbero provveduto ad assicurare l’ordine, il rispetto della legge e la salvaguardia dei beni, in attesa dell’insediamento degli organi del Governo Militare Alleato, in sigla AMG (Allied Militay Government).
Meno noto è che già due giorni dopo le autorità militari alleate considerarono chiusa la fase del passaggio dei poteri al CLN e con un Proclama in data 1° maggio ringraziarono i partigiani e il CLN per l’azione svolta e annunciarono che da quel momento tutti i poteri in provincia di Piacenza venivano assunti dall’AMG, rappresentata a Piacenza dal Commissario Lewis M.c Intyre, mentre le funzioni del CLN sarebbero state solo quelle di dare consigli e aiuti a questo maggiore inglese.
In pratica coesistettero per alcuni mesi a Piacenza due diversi poteri, derivanti dal fatto che la Liberazione era stato operata da due soggetti diversi, le formazioni partigiane e l’esercito alleato. Quando poi, nell’agosto ’45, anche la provincia di Piacenza fu restituita alla giurisdizione del Governo Italiano il CLN e gli amministratori locali da questi designati dovettero misurasi in modo diretto con gli organi dello stato italiano e con la sua tradizionale burocrazia, fino a che le elezioni amministrative del marzo 1946 normalizzano la situazione e portano ad esaurimento le funzioni dei CLN.
In sostanza dobbiamo interpretare i mesi che vanno dalla Liberazione alle elezioni della primavera del ’46 come una complessa fase di transizione della società italiana e piacentina, fase nella quale coesistono, confliggono e si intrecciano interessi, forze e impulsi diversi: impulsi verso il rinnovamento non solo del sistema politico ma anche di quello economico-sociale che impattano però su forze e strutture che tendono alla difesa degli interessi e degli assetti preesistenti. Da questo coacervo di cose nascerà quell’Italia repubblicana e democratica che abbiamo conosciuto, con la crescita positivi di molti aspetti della società italiana ma anche con tare e storture che quella crescita si è portata dietro e che oggi si ripresentano nel nostro Paese in forme rinnovate.
A capo della Prefettura fu posto l’avvocato Vittorio Minoia, un stimato professionista di orientamento democristiano, affiancato, in qualità di vice-prefetti, dall’avvocato Aldo Clini, esponente del Partito d’Azione e da un ex funzionarie di prefettura fatto rientrare dalla pensione, il dott. Pietro Nuvolone.
Alla direzione dell’Amministrazione provinciale fu collocata una personalità indipendente, l’anziano Francesco Pallastrelli, che era stato un apprezzato sindaco di Piacenza dal 1906 al 1912. Come suoi vice due ingegneri, Giuseppe Zanetti e Gaetano La Rocca.
I comunisti avevano chiesto di poter esprimere la carica più significativa sotto l’aspetto politico, quello del sindaco: fu nominato il geometra Giuseppe Visconti, affiancato dai vice-sindaci avvocato Giuseppe Arata del Psi e avvocato Giovanni Laneri della DC.
Alla direzione della Questura fu posta il già comandante partigiano Fausto Cossu, anche lui avvocato e soprattutto già ufficiale dell’Arma dei carabinieri.
Quelle nomine erano del tutto legittime perché nel dicembre del ’44 il presidente del governo italiano, Ivanoe Bonomi, aveva delegato il CLN AI e quindi i CLN provinciali derivati, a rappresentare il governo nazionale nei territori del Nord Italia via via sottratti all’occupazione tedesca e al controllo del regime fascista di Salò, e le autorità militari alleate a loro volta avevano concordato che in questi territori l’organizzazione dei CLN avrebbero provveduto ad assicurare l’ordine, il rispetto della legge e la salvaguardia dei beni, in attesa dell’insediamento degli organi del Governo Militare Alleato, in sigla AMG (Allied Militay Government).
Meno noto è che già due giorni dopo le autorità militari alleate considerarono chiusa la fase del passaggio dei poteri al CLN e con un Proclama in data 1° maggio ringraziarono i partigiani e il CLN per l’azione svolta e annunciarono che da quel momento tutti i poteri in provincia di Piacenza venivano assunti dall’AMG, rappresentata a Piacenza dal Commissario Lewis M.c Intyre, mentre le funzioni del CLN sarebbero state solo quelle di dare consigli e aiuti a questo maggiore inglese.
In pratica coesistettero per alcuni mesi a Piacenza due diversi poteri, derivanti dal fatto che la Liberazione era stato operata da due soggetti diversi, le formazioni partigiane e l’esercito alleato. Quando poi, nell’agosto ’45, anche la provincia di Piacenza fu restituita alla giurisdizione del Governo Italiano il CLN e gli amministratori locali da questi designati dovettero misurasi in modo diretto con gli organi dello stato italiano e con la sua tradizionale burocrazia, fino a che le elezioni amministrative del marzo 1946 normalizzano la situazione e portano ad esaurimento le funzioni dei CLN.
In sostanza dobbiamo interpretare i mesi che vanno dalla Liberazione alle elezioni della primavera del ’46 come una complessa fase di transizione della società italiana e piacentina, fase nella quale coesistono, confliggono e si intrecciano interessi, forze e impulsi diversi: impulsi verso il rinnovamento non solo del sistema politico ma anche di quello economico-sociale che impattano però su forze e strutture che tendono alla difesa degli interessi e degli assetti preesistenti. Da questo coacervo di cose nascerà quell’Italia repubblicana e democratica che abbiamo conosciuto, con la crescita positivi di molti aspetti della società italiana ma anche con tare e storture che quella crescita si è portata dietro e che oggi si ripresentano nel nostro Paese in forme rinnovate.
Caratteristiche dell’AMG (Allied Militay Government)
La nascita, natura e storia del CLN provinciale piacentino dall’ottobre del ’43 fino alla Liberazione sono state trattate in una mia precedente relazione svolta qui nell’ottobre del 2013. Devo invece ora accennare alle caratteristiche di quel Governo Militare Alleato che insediò il suo Commissario a Piacenza il primo maggio del ’45.
Dallo sbarco in Sicilia, nel giugno del ’43, le autorità militari e politiche angloamericane avevano deciso di affermare il loro dominio sul territorio, sulle risorse e sulla popolazione dell’Italia in due forme. In una prima fase con l’assunzione diretta di ogni potere, anche se esercitato tramite gli organismi e gli apparati preesistenti dello stato italiano, dei quali si riservavo però la nomina dei vertici, a cominciare dai prefetti, che avevano individuato come gli snodi fondamentali del potere nelle singole province. In una seconda fase avrebbero via via restituite le province alla giurisdizione del regio governo italiano mantenendovi però ancora, fino alla firma del Trattato di pace, una presenza di loro organi militari con funzioni di controllo.
L’AMG aveva la sua sede centrale nella Reggia di Caserta, presso il Quartiere generale delle forze alleate, e formalmente faceva capo al comandante in capo delle stesse, ma veniva retto da un Commissario Generale, che per il periodo che qui esaminiamo, era l’ammiraglio americano Ellery Stone. Questi aveva alle sue dipendenze circa 1.500 funzionari militari. A livello territoriale l’AMG era strutturato in Governatorati regionali e in Commissariati provinciali. Questi ultimi provvedevano alla nomine dei vertici delle strutture amministrative italiane locali, ne controllavano l’attività e controfirmavano gli atti più importanti. Per la nomina di questi vertici, in sostituzione dei precedenti esponenti fascisti, inizialmente, nelle province del Sud, avevano attinto al tradizionale notabilato locale ma questo si era rivelato inefficiente, screditato e spesso corrotto. Avevano infine compreso che nelle regione dove si era sviluppata la Resistenza gli uomini credibili per assumere le nuove responsabilità pubbliche erano quelli emersi nella lotta contro il nazi-fascismo.
Nel dicembre ’44 le autorità avevo infine dato al CLN AI la disponibilità a mantenere in vita, all’indomani della Liberazione anche di tutte le province del Nord, i CLN quali comitati consultivi per l’amministrazione militare alleata e a richiedere a questi proposte nominative per la direzione dei diversi organismi pubblici locali, riservando comunque ai commissari dell’AMG ogni decisione al riguardo.
In considerazione di questo retroterra il CLN piacentino subito dopo la Liberazione si affrettò appunto ad effettuare le nomine più rilevanti per far trovare le autorità militare alleate già di fronte ad una situazione di fatto. Per dare forza alle proprie scelte il CLN si preoccupò inoltre, come abbiamo visto, di nominare persone adeguatamente qualificate per le funzioni che avrebbero dovuto assumere.
Ma cosa successe a Piacenza, a partire dal 1° maggio, quando il Commissario dell’AMG, M.c Caffery avocò a se tutti i poteri politici e amministrativi?
La casa più immediata è che cominciarono ad apparire i Proclami dell’AMG con l’indicazione di divieti e disposizione per la popolazione, a pena di traduzione innanzi al Tribunale militare, che poteva erogare anche la condanna a morte. A leggere quei proclami si capisce che derivavano da un repertorio di norme che le autorità alleate emettevano durante la guerra nei territori retrostanti il fronte. C’era scritto fra l’altro che la popolazione doveva immediatamente fare denuncia alle autorità del possesso di apparecchi radio e addirittura dell’eventuale possesso di piccioni viaggiatori. Credo che i piacentini non si facessero molto impressionare da quei proclami.
Cosa più sostanziale è che vennero subito revocate le deliberazioni prese dal CLN AI il 25 aprile nel momento in cui aveva proclamato l’insurrezione contro le forze nazifasciste e assunto nel Nord Italia i poteri civili e militari quale delegato del Governo italiano. Quelle deliberazioni indicavano fra l’altro i criteri per la punizione dei delitti fascisti, a cui in qualche modo si attennero i partigiani piacenti nelle esecuzione che vennero effettuate nei primi giorni dopo la Liberazione, a cominciare dal prefetto e capo del fascismo piacentino Alberto Graziani. Queste esecuzioni sono state accuratamente ricostruite da Ermanno Mariani nella parte finale del suo libro “Piacenza liberata”.
Ma furono gli stessi comandi partigiani piacentini a comunicare, già il primo maggio, che non dovevano più essere effettuati arresti senza l’autorizzazione del Comando Alleato e che coloro che erano stati tradotti nel carcere per essere giudicati passavano sotto il controllo della polizia di tale Comando.
Le autorità militari alleate avevano come riferimento e imposero il rispetto delle leggi che, sotto il loro controllo, venivano emanate dal governo di Roma. Riguardo alla punizione dei capi fascisti e dei loro delitti entrarono cosi in vigore le norme legislative emanate dal Governo italiano il 22 di aprile di quell’anno, norme comunque severe e che prevedevano l’istituzione in ogni provincia di una Corte straordinarie di Assise presiedute da un giudice togato con a fianco 4 giurati estratti da una rosa di cento cittadini di condotta morale e civile ineccepibile compilata dal locale CLN. Corti che giudicavano con procedure snelle ma le cui sentenze erano appellabili, nel caso di Piacenza alla Corte di Cassazione di Milano.
Il Commissario alleato non trovò nell’immediato a ridire sui nominativi con cui il Cln aveva provveduto a sostituire gli amministratori fascisti e li ratificò. L’essenziale era che si limitassero alla semplice amministrazione, ad intervenire sulle emergenza lasciate in eredità dalla guerra, senza pretendere di mutare l’ordine economico, sociale ed istituzionale esistente. Nel contempo la principale preoccupazione dell’AMG fu quello di avere il controllo della forza pubblica, non solo tramite il mantenimento di presidi militari anglo-americani, ma anche tramite il controllo dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia, controllo operato per mezzo di comandanti di fiducia. Infatti l’unica significativa rimozione di uomini designati dal CLN fu quella di Fausto Cossu dalla carica di Questore già il 17 maggio del ‘45. Al suo posto le autorità militari alleate insediarono Giuseppe Salasar, un funzionario della P.S. che aveva fatto tutto la sua carriera sotto il regime fascista.
Dallo sbarco in Sicilia, nel giugno del ’43, le autorità militari e politiche angloamericane avevano deciso di affermare il loro dominio sul territorio, sulle risorse e sulla popolazione dell’Italia in due forme. In una prima fase con l’assunzione diretta di ogni potere, anche se esercitato tramite gli organismi e gli apparati preesistenti dello stato italiano, dei quali si riservavo però la nomina dei vertici, a cominciare dai prefetti, che avevano individuato come gli snodi fondamentali del potere nelle singole province. In una seconda fase avrebbero via via restituite le province alla giurisdizione del regio governo italiano mantenendovi però ancora, fino alla firma del Trattato di pace, una presenza di loro organi militari con funzioni di controllo.
L’AMG aveva la sua sede centrale nella Reggia di Caserta, presso il Quartiere generale delle forze alleate, e formalmente faceva capo al comandante in capo delle stesse, ma veniva retto da un Commissario Generale, che per il periodo che qui esaminiamo, era l’ammiraglio americano Ellery Stone. Questi aveva alle sue dipendenze circa 1.500 funzionari militari. A livello territoriale l’AMG era strutturato in Governatorati regionali e in Commissariati provinciali. Questi ultimi provvedevano alla nomine dei vertici delle strutture amministrative italiane locali, ne controllavano l’attività e controfirmavano gli atti più importanti. Per la nomina di questi vertici, in sostituzione dei precedenti esponenti fascisti, inizialmente, nelle province del Sud, avevano attinto al tradizionale notabilato locale ma questo si era rivelato inefficiente, screditato e spesso corrotto. Avevano infine compreso che nelle regione dove si era sviluppata la Resistenza gli uomini credibili per assumere le nuove responsabilità pubbliche erano quelli emersi nella lotta contro il nazi-fascismo.
Nel dicembre ’44 le autorità avevo infine dato al CLN AI la disponibilità a mantenere in vita, all’indomani della Liberazione anche di tutte le province del Nord, i CLN quali comitati consultivi per l’amministrazione militare alleata e a richiedere a questi proposte nominative per la direzione dei diversi organismi pubblici locali, riservando comunque ai commissari dell’AMG ogni decisione al riguardo.
In considerazione di questo retroterra il CLN piacentino subito dopo la Liberazione si affrettò appunto ad effettuare le nomine più rilevanti per far trovare le autorità militare alleate già di fronte ad una situazione di fatto. Per dare forza alle proprie scelte il CLN si preoccupò inoltre, come abbiamo visto, di nominare persone adeguatamente qualificate per le funzioni che avrebbero dovuto assumere.
Ma cosa successe a Piacenza, a partire dal 1° maggio, quando il Commissario dell’AMG, M.c Caffery avocò a se tutti i poteri politici e amministrativi?
La casa più immediata è che cominciarono ad apparire i Proclami dell’AMG con l’indicazione di divieti e disposizione per la popolazione, a pena di traduzione innanzi al Tribunale militare, che poteva erogare anche la condanna a morte. A leggere quei proclami si capisce che derivavano da un repertorio di norme che le autorità alleate emettevano durante la guerra nei territori retrostanti il fronte. C’era scritto fra l’altro che la popolazione doveva immediatamente fare denuncia alle autorità del possesso di apparecchi radio e addirittura dell’eventuale possesso di piccioni viaggiatori. Credo che i piacentini non si facessero molto impressionare da quei proclami.
Cosa più sostanziale è che vennero subito revocate le deliberazioni prese dal CLN AI il 25 aprile nel momento in cui aveva proclamato l’insurrezione contro le forze nazifasciste e assunto nel Nord Italia i poteri civili e militari quale delegato del Governo italiano. Quelle deliberazioni indicavano fra l’altro i criteri per la punizione dei delitti fascisti, a cui in qualche modo si attennero i partigiani piacenti nelle esecuzione che vennero effettuate nei primi giorni dopo la Liberazione, a cominciare dal prefetto e capo del fascismo piacentino Alberto Graziani. Queste esecuzioni sono state accuratamente ricostruite da Ermanno Mariani nella parte finale del suo libro “Piacenza liberata”.
Ma furono gli stessi comandi partigiani piacentini a comunicare, già il primo maggio, che non dovevano più essere effettuati arresti senza l’autorizzazione del Comando Alleato e che coloro che erano stati tradotti nel carcere per essere giudicati passavano sotto il controllo della polizia di tale Comando.
Le autorità militari alleate avevano come riferimento e imposero il rispetto delle leggi che, sotto il loro controllo, venivano emanate dal governo di Roma. Riguardo alla punizione dei capi fascisti e dei loro delitti entrarono cosi in vigore le norme legislative emanate dal Governo italiano il 22 di aprile di quell’anno, norme comunque severe e che prevedevano l’istituzione in ogni provincia di una Corte straordinarie di Assise presiedute da un giudice togato con a fianco 4 giurati estratti da una rosa di cento cittadini di condotta morale e civile ineccepibile compilata dal locale CLN. Corti che giudicavano con procedure snelle ma le cui sentenze erano appellabili, nel caso di Piacenza alla Corte di Cassazione di Milano.
Il Commissario alleato non trovò nell’immediato a ridire sui nominativi con cui il Cln aveva provveduto a sostituire gli amministratori fascisti e li ratificò. L’essenziale era che si limitassero alla semplice amministrazione, ad intervenire sulle emergenza lasciate in eredità dalla guerra, senza pretendere di mutare l’ordine economico, sociale ed istituzionale esistente. Nel contempo la principale preoccupazione dell’AMG fu quello di avere il controllo della forza pubblica, non solo tramite il mantenimento di presidi militari anglo-americani, ma anche tramite il controllo dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia, controllo operato per mezzo di comandanti di fiducia. Infatti l’unica significativa rimozione di uomini designati dal CLN fu quella di Fausto Cossu dalla carica di Questore già il 17 maggio del ‘45. Al suo posto le autorità militari alleate insediarono Giuseppe Salasar, un funzionario della P.S. che aveva fatto tutto la sua carriera sotto il regime fascista.
Le emergenze del dopoguerra a Piacenza
Nella nuova situazione i CLN si autodefinirono Comitati consultivi, di controllo e d’iniziativa proponente rispetto agli organi dell’ AMG , impegnati oltre che a designare idonei amministrazione per gli enti pubblici locali e a promuovere l’epurazione degli stessi dal personale fascista, a porsi come portavoce dei bisogni e delle aspettative dei cittadini, ad impostare la soluzione dei problemi collaborando con gli amministratori degli enti pubblici, ma stimolandone e controllandone anche l’attività; ad assicurare l’assistenza degli ex-internati in Germania, dei reduci e degli indigenti; a promuovere strumenti di controllo dei prezzi e la creazione di posti di lavoro per disoccupati; a vigilare affinché non avvenissero più nella società abusi e soprusi e a collaborare con le autorità di polizia per assicurare l’ ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini.
Questo ruolo e questi impegni corrispondevano alle emergenze della situazione piacentina del dopoguerra.
Si usciva da una guerra durata cinque anni durante la quale lo stesso territorio piacentino era diventato campo di battaglia. Una guerra che lasciava un panorama di rovine materiali: nella sola città di Piacenza 215 edifici distrutti, circa 400 semidistrutti o gravemente lesionati; demoliti i ponti ferroviari e stradali sul Po fra Piacenza e la Lombardia e quelli sul Trebbia verso Voghera, molti altri ponti distrutti lungo le strade della provincia. Non più funzionanti le comunicazioni telefoniche, interrotto il servizio postale con le altre province, erogazione dell’energia elettrica e del gas a singhiozzo.
Pochi automezzi disponibili anche per gli approvvigionamenti delle derrate alimentari, scarsità di combustibili non solo per il riscaldamento ma anche per il funzionamento degli impianti industriali, privi inoltre di materie prime essenziali. La guerra aveva portato alla popolazione della città anche freddo e fame, ma pure dopo la sua conclusione perdura il razionamento per i generi alimentari di base, la razione di pane è ancora fissata a 200 grammi, mancano ancora generi come lo zucchero. In Italia l’annata agricola del ’45 è disastrosa, circa il 60% della produzione anteguerra, perché si è dovuto fare a meno dei concimi e nelle aree di pianura meccanizzate è mancato il carburanti per i trattori. Piacenza ha la fortuna di stare al centro di un vasto territorio agricolo dove si producano i più diversi beni alimentari ma gli ammassi dei beni destinati al razionamento, quali cereali e latte, vanno in crisi perché gli agricoltori, non più preoccupati del sistema di repressione del regime fascista, pensano che questa sia occasione per fare un po’ di soldi vendendo quei beni al mercato nero ad operatori commerciali che arrivano da altre parti nella nostra provincia, soldi che, per coloro che li hanno messi sotto il materasso saranno poi falcidiati dall’inflazione, galoppante nel ’47 e nel ’48. E anche chi commercia vuol fare un po’ di soldi e ricarica pesantemente i beni venduti alla borsa nera. A Piacenza alla borsa nera si trova tutto il necessario per alimentarsi, ma bisogna disporre di abbastanza denaro. Invece durante e dopo la guerra i redditi normali sono stati colpiti dall’inflazione che continua nel dopoguerra e ed ora vi sono anche migliaia di cittadini disoccupati perché certe attività sono cessate. Migliaia di soldati che erano stati internati in Germani ritornano a casa deperiti ed ammalati. Più avanti arriveranno anche i profughi dall’Istria. Vi sono centinaia di vedove e di piccoli orfani in condizione di grave disagio economico. Perlomeno, il governo formato dai partiti antifascisti ha concordato con la rinata CGIL, sindacato al momento unitario, che negli enti pubblici e nell’industria in cambio del blocco dei salari deve essere attuato il blocco dei licenziamenti: nei casi in cui la produzione sia ferma totalmente o parzialmente il salario dei lavoratori inattivi viene assicurato per i due terzi dallo stato, ma ridotto al solo elemento base della retribuzione, circa il 75% del normale: si dice, in questi casi, che vengono assicurati ai lavoratori i soli alimenti. Quest’accordo mantiene in servizio per il momento i quasi 12.000 dipendenti degli stabilimenti militari piacentini anche se per due terzi inattivi e gli altri impegnati a cercare di realizzare produzioni alternative alle armi e munizioni. Ci sarebbero da occupare subito molte persone nella ricostruzione degli edifici e degli altri manufatti distrutti o rovinati durante la guerra, ma prima occorre riattivare le fabbriche per la produzioni di cemento, di laterizi, di strutture in ferro e legno, e per riattivare le fabbriche servono carbone e altri combustibili, serve energia elettrica sufficiente. Sta di fatto che nella solo Comune di Piacenza, che al tempo aveva poco più di 70.000 abitanti, in agosto sono iscritti all’ufficio di collocamento 5.600 disoccupati. Difficile anche il reinserimento di molti ex partigiani nella vita lavorativa: complessivamente la provincia superava i 300.00 abitanti, in certe zone si viveva in stato di vera indigenza e vi abitavano anche degli ex partigiani che avrebbero voluto trasferirsi a lavorare e a vivere in città ma ne furono subito scoraggiati.
Il dopoguerra è anche un periodo in cui diversi fattori - la facilità a procurarsi armi, l’assuefazione alla violenza, il debole controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine - determinano anche nella nostra provincia diffusi fenomeni di banditismo, con assalti a mano armata a banche, negozi, ville isolate. Nuove vittime della guerra, sopratutte fra i bambini, sono prodotte dall’affiorare di ordigni bellici, di bombe che esplodono appena sfiorate.
Nel Governo Militare Alleato riguardo alla situazione italiana dopo la guerra coesistevano inizialmente due diverse posizioni. Per gli inglesi queste difficoltà e sofferenze costituivano una giusta punizione per gli italiani che la guerra l’avevano voluta; Wiston Churchill avrebbe voluto trasformare l’Italia in una specie di protettorato inglese ed evitare addirittura la ripresa della nostra produzione industriale per favorire l’esportazione delle industrie inglesi; alle elezioni politiche del giugno ’45 Churchill fu però sconfitto dai laburisti e questi incominciarono ad abbandonare quelle velleità imperiali per occuparsi delle emergenze sociali proprie, lasciando agli USA di vedersela con i problemi del dopoguerra in paesi del Mediterraneo come l’Italia e la Grecia. Gli americani invece, la cui economia si era potentemente sviluppata durante la guerra, pensavano che questi Paesi sarebbero slittati verso il comunismo se non venivano aiutati a realizzare una sollecita ricostruzione e a conseguire discrete condizioni di benessere, ma fine al mese di agosto sono ancora in guerra con il Giappone e ricorreranno infine alle bombe atomiche per costringerlo alla resa, per intanto non possono destinare navi al trasporto del loro surplus agricolo verso l’Europa affamata. Aiuti di una certa consistenza, innanzitutto alimentari, cominciarono ad arrivare in Italia solo all’inizio del ’46, sotto la sigla dell’UNRRA, che era l’agenzia dell’ONU per l’assistenza e la riabilitazione dei paesi che avevano subito la guerra.
Questo ruolo e questi impegni corrispondevano alle emergenze della situazione piacentina del dopoguerra.
Si usciva da una guerra durata cinque anni durante la quale lo stesso territorio piacentino era diventato campo di battaglia. Una guerra che lasciava un panorama di rovine materiali: nella sola città di Piacenza 215 edifici distrutti, circa 400 semidistrutti o gravemente lesionati; demoliti i ponti ferroviari e stradali sul Po fra Piacenza e la Lombardia e quelli sul Trebbia verso Voghera, molti altri ponti distrutti lungo le strade della provincia. Non più funzionanti le comunicazioni telefoniche, interrotto il servizio postale con le altre province, erogazione dell’energia elettrica e del gas a singhiozzo.
Pochi automezzi disponibili anche per gli approvvigionamenti delle derrate alimentari, scarsità di combustibili non solo per il riscaldamento ma anche per il funzionamento degli impianti industriali, privi inoltre di materie prime essenziali. La guerra aveva portato alla popolazione della città anche freddo e fame, ma pure dopo la sua conclusione perdura il razionamento per i generi alimentari di base, la razione di pane è ancora fissata a 200 grammi, mancano ancora generi come lo zucchero. In Italia l’annata agricola del ’45 è disastrosa, circa il 60% della produzione anteguerra, perché si è dovuto fare a meno dei concimi e nelle aree di pianura meccanizzate è mancato il carburanti per i trattori. Piacenza ha la fortuna di stare al centro di un vasto territorio agricolo dove si producano i più diversi beni alimentari ma gli ammassi dei beni destinati al razionamento, quali cereali e latte, vanno in crisi perché gli agricoltori, non più preoccupati del sistema di repressione del regime fascista, pensano che questa sia occasione per fare un po’ di soldi vendendo quei beni al mercato nero ad operatori commerciali che arrivano da altre parti nella nostra provincia, soldi che, per coloro che li hanno messi sotto il materasso saranno poi falcidiati dall’inflazione, galoppante nel ’47 e nel ’48. E anche chi commercia vuol fare un po’ di soldi e ricarica pesantemente i beni venduti alla borsa nera. A Piacenza alla borsa nera si trova tutto il necessario per alimentarsi, ma bisogna disporre di abbastanza denaro. Invece durante e dopo la guerra i redditi normali sono stati colpiti dall’inflazione che continua nel dopoguerra e ed ora vi sono anche migliaia di cittadini disoccupati perché certe attività sono cessate. Migliaia di soldati che erano stati internati in Germani ritornano a casa deperiti ed ammalati. Più avanti arriveranno anche i profughi dall’Istria. Vi sono centinaia di vedove e di piccoli orfani in condizione di grave disagio economico. Perlomeno, il governo formato dai partiti antifascisti ha concordato con la rinata CGIL, sindacato al momento unitario, che negli enti pubblici e nell’industria in cambio del blocco dei salari deve essere attuato il blocco dei licenziamenti: nei casi in cui la produzione sia ferma totalmente o parzialmente il salario dei lavoratori inattivi viene assicurato per i due terzi dallo stato, ma ridotto al solo elemento base della retribuzione, circa il 75% del normale: si dice, in questi casi, che vengono assicurati ai lavoratori i soli alimenti. Quest’accordo mantiene in servizio per il momento i quasi 12.000 dipendenti degli stabilimenti militari piacentini anche se per due terzi inattivi e gli altri impegnati a cercare di realizzare produzioni alternative alle armi e munizioni. Ci sarebbero da occupare subito molte persone nella ricostruzione degli edifici e degli altri manufatti distrutti o rovinati durante la guerra, ma prima occorre riattivare le fabbriche per la produzioni di cemento, di laterizi, di strutture in ferro e legno, e per riattivare le fabbriche servono carbone e altri combustibili, serve energia elettrica sufficiente. Sta di fatto che nella solo Comune di Piacenza, che al tempo aveva poco più di 70.000 abitanti, in agosto sono iscritti all’ufficio di collocamento 5.600 disoccupati. Difficile anche il reinserimento di molti ex partigiani nella vita lavorativa: complessivamente la provincia superava i 300.00 abitanti, in certe zone si viveva in stato di vera indigenza e vi abitavano anche degli ex partigiani che avrebbero voluto trasferirsi a lavorare e a vivere in città ma ne furono subito scoraggiati.
Il dopoguerra è anche un periodo in cui diversi fattori - la facilità a procurarsi armi, l’assuefazione alla violenza, il debole controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine - determinano anche nella nostra provincia diffusi fenomeni di banditismo, con assalti a mano armata a banche, negozi, ville isolate. Nuove vittime della guerra, sopratutte fra i bambini, sono prodotte dall’affiorare di ordigni bellici, di bombe che esplodono appena sfiorate.
Nel Governo Militare Alleato riguardo alla situazione italiana dopo la guerra coesistevano inizialmente due diverse posizioni. Per gli inglesi queste difficoltà e sofferenze costituivano una giusta punizione per gli italiani che la guerra l’avevano voluta; Wiston Churchill avrebbe voluto trasformare l’Italia in una specie di protettorato inglese ed evitare addirittura la ripresa della nostra produzione industriale per favorire l’esportazione delle industrie inglesi; alle elezioni politiche del giugno ’45 Churchill fu però sconfitto dai laburisti e questi incominciarono ad abbandonare quelle velleità imperiali per occuparsi delle emergenze sociali proprie, lasciando agli USA di vedersela con i problemi del dopoguerra in paesi del Mediterraneo come l’Italia e la Grecia. Gli americani invece, la cui economia si era potentemente sviluppata durante la guerra, pensavano che questi Paesi sarebbero slittati verso il comunismo se non venivano aiutati a realizzare una sollecita ricostruzione e a conseguire discrete condizioni di benessere, ma fine al mese di agosto sono ancora in guerra con il Giappone e ricorreranno infine alle bombe atomiche per costringerlo alla resa, per intanto non possono destinare navi al trasporto del loro surplus agricolo verso l’Europa affamata. Aiuti di una certa consistenza, innanzitutto alimentari, cominciarono ad arrivare in Italia solo all’inizio del ’46, sotto la sigla dell’UNRRA, che era l’agenzia dell’ONU per l’assistenza e la riabilitazione dei paesi che avevano subito la guerra.
La fase ciellenista nella vita piacentina
Sono dunque essenzialmente le forze CLN e gli amministratori pubblici da questi designati che dovettero misurarsi con le emergenze economiche, sociali e civili dei primi mesi dopo la guerra. E in effetti, pur con i vincoli e i limiti imposti dal Governo Militare Alleato, la vita pubblica e la vita civile più in generale di Piacenza e dei comuni della provincia furono per alcuni mesi caratterizzati dalla presenza e dall’iniziativa ciellenista, del CLN provinciale e di quelli comunali, di questi comitati unitari dei partiti antifascisti e degli uomini della Resistenza, che non solo assunsero la direzione delle istituzioni pubbliche locali ma promossero una più generale partecipazione e responsabilizzazione dei lavoratori e dei cittadini attorno ai problemi di interesse comune.
Dopo la Liberazione la composizione del CLN provinciale si assestò con due esponenti per ognuno dei quattro partiti che avevano affiancato il movimento partigiano: per il Pci Ettore Crovini e Natale Di Giacomo, per il Psi Emilio Piatti e Giuseppe Arata, per il Partito d’azione Raffaele Cantù e Filippo La Latta, per la DC Emilio Molinari e Carlo Cerri. All’inizio di luglio vi furono inclusi anche due esponenti del Pli, Gaetano Grandi e Fiorino Berretta, inoltre, con voto consultivo, Emilio Canzi in rappresentanza dell’Anpi e Sergio Podestà per la CGIL rinata come sindacato unitario. Alla presidenza fu nominato Crovini e come vice Grandi.
Un incisivo ruolo del CLN provinciale si manifestò innanzitutto appunto nell’assicurare con uomini espressione della Resistenza antifascista il rinnovo generale dei vertici delle istituzioni pubbliche provinciali e cittadine, tramite l’indicazione di candidature che in generale vennero fatte proprie dal Commissario dell’AMG.
Nell’Archivio di Stato piacentino è conservato la “Rubrica delle nomine”, dalla quale risulta che il CLN provinciale per la sola città di Piacenza ha cambiato i vertici amministrativi di 99 organismi, ha effettuato 314 designazioni, ha impegnato in incarichi significativi 142 diverse persone.
Dopo Prefettura, Provincia e Comune di Piacenza, il CLN ha portato alla presidenza della Camera di Commercio il dottore commercialista Emilio Piatti, alla direzione del Provveditorato agli Studi il prof. Antonino La Rosa, alla Presidenza della Cassa di risparmio Ettore Crovini, che aveva il diploma di ragioniere, affiancato da quattro consiglieri uno dei quali era il Ferruccio Tansini sindaco socialista di Piacenza prima dell’arrivo del fascismo; alla SEPRAL, che era la Sezione Provinciale per l’Alimentazione incaricata dell’ammasso e della distribuzione dei beni razionati fu portato Gugliemo Sperzagni. Dopo oltre vent’anni di potere podestarile fu ricomposto anche il Consiglio comunale di Piacenza e fra i quaranta consiglieri entrò per la prima volta anche una donna, la staffetta partigiana Giuseppina Buttafuoco, che fu quindi in assoluto la prima donna a farne parte.
Le scelte apparivano rispondere a criteri di competenza e di serietà tanto che il Commissario dell’AMG, superate le diffidenze iniziali, fu lui stesso a richiedere e a sollecitare al CLN la designazione dei candidati per taluni organismi. Ciò avvenne in specifico per l’istituzione della Commissione di epurazione, epurazione che doveva investire il personale degli enti pubblici e delle aziende private che gestissero servizi pubblici che avesse appartenuto al vecchio squadrismo fascista o che durante il regime fascista di Salò fosse stato iscritto al partito e si fosse caratterizzato al servizio di quel regime. La Commissione poteva comminare la semplice ammonizione o la sospensione a tempo determinato o indeterminato con il riconoscimento dei soli alimenti, o il licenziamento, pronunciandosi sulle proposte di epurazione che le dovevano pervenire dai responsabili degli enti ed aziende, ai quali competeva innanzitutto di far compilare un lungo questionario biografico a tutto il personale. Presidente della Commissione di epurazione fu nominato Carlo Bernardelli che dal regime mussoliniano aveva conosciuto personalmente anche il confino di polizia; la commissione ebbe alla fine 40 componenti suddivisi in 4 sottocommissione; ne fece parte anche Fausto Cossu.
Altro impegno, subito dopo la Liberazione, del CLN provinciale e delle forze politiche in esso rappresentate, fu quello di assicurare la costituzione di Comitati di Liberazione unitari in tutti i comuni della provincia dove già non erano sorti durante la lotta di Liberazione, con il compito di designare i sindaci e gli altri amministratori pubblici e promuovere la vita democratica locale. In archivio è conservata un po’ di documentazione per ogni CLN comunale dalla quale si notano situazione molto differenziate fra le realtà che avevano una tradizione di intensa vita politica già prima del regime fascista, soprattutto attraverso la presenza del Partito socialista, e comuni di montagna dove prima della Liberazione non si era ancora sviluppata una articolata presenza di forze politiche. In questi casi a comporre il Cln e soprattutto ad assumere la direzione dell’Amministrazione comunale sono ancora in prevalenza i tradizionali notabili locali. A Piozzano ad esempio entra in Giunta anche l’ex partigiano Remigio Albasi, il proprietario della casa a La Senese dove aveva sede il Comando partigiano di Fausto, ma sindaco diventa il nobile possidente Ferdinando Rizzi di Torre Rizzi. A Bobbio, che pure aveva avuto una ricca vita partigiana e addirittura vissuta l’esperienza della cosiddetta repubblica partigiana, è fatto sindaco il più noto avvocato della cittadina, Roberto Olmi, anche lui proveniente da una famiglia nobiliare.
Ulteriore impegno delle forze politiche del CLN provinciale, ma in questo caso soprattutto quelle di sinistra, fu quello di promuovere la costituzione di CLN di base nei luoghi di lavoro, fabbriche ed enti pubblici, ma anche fra le stesse categorie professionali e nei quartieri.
Un documento del CLN cita l’esistenza di ben 150 di questi comitati; nell’Archivio di Stato è documentata l’esistenza di una cinquantina di Cln aziendali. Era sorto un comitato unitario in ognuno degli stabilimenti militari, nelle principali aziende private, fra i dipendenti del Comune, fra il personale della società telefonica TIMO, fra i Vigili del Fuoco, al Consorzio Agrario, fra il personale della scuola. Compito di questi organismi era a quello di rappresentare le categorie dei lavoratori dipendenti e professionali, di promuovere l’epurazione antifascista nel proprio settore, ma anche di mobilitare tutte le risorse della propria azienda per assicurare la ripresa intensiva del lavoro ed il migliore utilizzo degli impianti, ed inoltre raccogliere dati, studiare i problemi e la loro soluzione.
Di fatto questi Comitati furono anche i primi organi di base del sindacato unitario, la CGIL, che andava costruendo la propria organizzazione nelle aziende con strutture che tornarono a chiamarsi Commissioni interne, anche se composte dalle stesse persone. In qualche caso anche a Piacenza vi fu un’evoluzione del CLN aziendale verso un organismo, il Consiglio di Gestione, con il quale le maestranze partecipavano alla direzione dell’azienda o addirittura ne assumevano direttamente la direzione. Questo secondo caso avvenne alla Carenzi, che produceva rimorchi e alla Oreglia, che produceva gruppi elettrogeni, i cui proprietari nei primi tempi dopo la Liberazione avevano sospeso l’attività che fu appunto riavviata dal Consiglio di gestione dei dipendenti. Un caso interessante fu poi quello della Massarenti, la maggior officina meccanica del tempo con circa 200 dipendenti, scesi in sciopero nel marzo ’44 sotto occupazione tedesca, quaranta dei quali lasciarono poi il lavoro per entrare fra i partigiani dove ebbero tre caduti. Dopo la Liberazione i dipendenti rifiutarono di avere ancora come amministratore il James Massarenti che aveva collaborato con i tedeschi. Il CLN nominò un commissario ma non riuscì ad insediarsi perché il maggior azionista dell’azienda, la Edison, gli contrappose un direttore provvisoria dello stabilimento, l’ing. Pighini; non mise però a disposizione i capitali necessari per far ripartire appieno la produzione. Il Massarenti fece sapere che se fosse tornato lui alla direzione dell’azienda le risorse le avrebbe trovate. Alla fine i lavoratori accettarono un compromesso, tornò il James Massarenti ma fu inizialmente affiancato dal Consiglio di gestione dei dipendenti.
Un incisivo ruolo del CLN provinciale si manifestò innanzitutto appunto nell’assicurare con uomini espressione della Resistenza antifascista il rinnovo generale dei vertici delle istituzioni pubbliche provinciali e cittadine, tramite l’indicazione di candidature che in generale vennero fatte proprie dal Commissario dell’AMG.
Nell’Archivio di Stato piacentino è conservato la “Rubrica delle nomine”, dalla quale risulta che il CLN provinciale per la sola città di Piacenza ha cambiato i vertici amministrativi di 99 organismi, ha effettuato 314 designazioni, ha impegnato in incarichi significativi 142 diverse persone.
Dopo Prefettura, Provincia e Comune di Piacenza, il CLN ha portato alla presidenza della Camera di Commercio il dottore commercialista Emilio Piatti, alla direzione del Provveditorato agli Studi il prof. Antonino La Rosa, alla Presidenza della Cassa di risparmio Ettore Crovini, che aveva il diploma di ragioniere, affiancato da quattro consiglieri uno dei quali era il Ferruccio Tansini sindaco socialista di Piacenza prima dell’arrivo del fascismo; alla SEPRAL, che era la Sezione Provinciale per l’Alimentazione incaricata dell’ammasso e della distribuzione dei beni razionati fu portato Gugliemo Sperzagni. Dopo oltre vent’anni di potere podestarile fu ricomposto anche il Consiglio comunale di Piacenza e fra i quaranta consiglieri entrò per la prima volta anche una donna, la staffetta partigiana Giuseppina Buttafuoco, che fu quindi in assoluto la prima donna a farne parte.
Le scelte apparivano rispondere a criteri di competenza e di serietà tanto che il Commissario dell’AMG, superate le diffidenze iniziali, fu lui stesso a richiedere e a sollecitare al CLN la designazione dei candidati per taluni organismi. Ciò avvenne in specifico per l’istituzione della Commissione di epurazione, epurazione che doveva investire il personale degli enti pubblici e delle aziende private che gestissero servizi pubblici che avesse appartenuto al vecchio squadrismo fascista o che durante il regime fascista di Salò fosse stato iscritto al partito e si fosse caratterizzato al servizio di quel regime. La Commissione poteva comminare la semplice ammonizione o la sospensione a tempo determinato o indeterminato con il riconoscimento dei soli alimenti, o il licenziamento, pronunciandosi sulle proposte di epurazione che le dovevano pervenire dai responsabili degli enti ed aziende, ai quali competeva innanzitutto di far compilare un lungo questionario biografico a tutto il personale. Presidente della Commissione di epurazione fu nominato Carlo Bernardelli che dal regime mussoliniano aveva conosciuto personalmente anche il confino di polizia; la commissione ebbe alla fine 40 componenti suddivisi in 4 sottocommissione; ne fece parte anche Fausto Cossu.
Altro impegno, subito dopo la Liberazione, del CLN provinciale e delle forze politiche in esso rappresentate, fu quello di assicurare la costituzione di Comitati di Liberazione unitari in tutti i comuni della provincia dove già non erano sorti durante la lotta di Liberazione, con il compito di designare i sindaci e gli altri amministratori pubblici e promuovere la vita democratica locale. In archivio è conservata un po’ di documentazione per ogni CLN comunale dalla quale si notano situazione molto differenziate fra le realtà che avevano una tradizione di intensa vita politica già prima del regime fascista, soprattutto attraverso la presenza del Partito socialista, e comuni di montagna dove prima della Liberazione non si era ancora sviluppata una articolata presenza di forze politiche. In questi casi a comporre il Cln e soprattutto ad assumere la direzione dell’Amministrazione comunale sono ancora in prevalenza i tradizionali notabili locali. A Piozzano ad esempio entra in Giunta anche l’ex partigiano Remigio Albasi, il proprietario della casa a La Senese dove aveva sede il Comando partigiano di Fausto, ma sindaco diventa il nobile possidente Ferdinando Rizzi di Torre Rizzi. A Bobbio, che pure aveva avuto una ricca vita partigiana e addirittura vissuta l’esperienza della cosiddetta repubblica partigiana, è fatto sindaco il più noto avvocato della cittadina, Roberto Olmi, anche lui proveniente da una famiglia nobiliare.
Ulteriore impegno delle forze politiche del CLN provinciale, ma in questo caso soprattutto quelle di sinistra, fu quello di promuovere la costituzione di CLN di base nei luoghi di lavoro, fabbriche ed enti pubblici, ma anche fra le stesse categorie professionali e nei quartieri.
Un documento del CLN cita l’esistenza di ben 150 di questi comitati; nell’Archivio di Stato è documentata l’esistenza di una cinquantina di Cln aziendali. Era sorto un comitato unitario in ognuno degli stabilimenti militari, nelle principali aziende private, fra i dipendenti del Comune, fra il personale della società telefonica TIMO, fra i Vigili del Fuoco, al Consorzio Agrario, fra il personale della scuola. Compito di questi organismi era a quello di rappresentare le categorie dei lavoratori dipendenti e professionali, di promuovere l’epurazione antifascista nel proprio settore, ma anche di mobilitare tutte le risorse della propria azienda per assicurare la ripresa intensiva del lavoro ed il migliore utilizzo degli impianti, ed inoltre raccogliere dati, studiare i problemi e la loro soluzione.
Di fatto questi Comitati furono anche i primi organi di base del sindacato unitario, la CGIL, che andava costruendo la propria organizzazione nelle aziende con strutture che tornarono a chiamarsi Commissioni interne, anche se composte dalle stesse persone. In qualche caso anche a Piacenza vi fu un’evoluzione del CLN aziendale verso un organismo, il Consiglio di Gestione, con il quale le maestranze partecipavano alla direzione dell’azienda o addirittura ne assumevano direttamente la direzione. Questo secondo caso avvenne alla Carenzi, che produceva rimorchi e alla Oreglia, che produceva gruppi elettrogeni, i cui proprietari nei primi tempi dopo la Liberazione avevano sospeso l’attività che fu appunto riavviata dal Consiglio di gestione dei dipendenti. Un caso interessante fu poi quello della Massarenti, la maggior officina meccanica del tempo con circa 200 dipendenti, scesi in sciopero nel marzo ’44 sotto occupazione tedesca, quaranta dei quali lasciarono poi il lavoro per entrare fra i partigiani dove ebbero tre caduti. Dopo la Liberazione i dipendenti rifiutarono di avere ancora come amministratore il James Massarenti che aveva collaborato con i tedeschi. Il CLN nominò un commissario ma non riuscì ad insediarsi perché il maggior azionista dell’azienda, la Edison, gli contrappose un direttore provvisoria dello stabilimento, l’ing. Pighini; non mise però a disposizione i capitali necessari per far ripartire appieno la produzione. Il Massarenti fece sapere che se fosse tornato lui alla direzione dell’azienda le risorse le avrebbe trovate. Alla fine i lavoratori accettarono un compromesso, tornò il James Massarenti ma fu inizialmente affiancato dal Consiglio di gestione dei dipendenti.
In conseguenza delle tanti e gravi emergenze che avevano di fronte e i pochi mezzi a disposizione, i nuovi amministratori dei diversi organismi pubblici designati dal CLN non avevano bisogno di essere molto creativi nella scelta delle cose da fare. Nella prima riunione di Giunta ad esempio il Sindaco Visconti fece presente che la prima cosa da fare era liberare le strade dalle macerie della guerra, trovare ricoveri per gli sfollati, utilizzando strutture pubbliche quali il Palazzo Farnese e requisendo edifici privati vuoti, dare assistenza agli indigenti, promuovere il ripristino del servizio postale, di quello telefoniche, degli autoservizi di trasporto verso gli altri comuni, nonché la ricostruzione dei ponti che isolavano la città verso la Lombardia. Un’iniziativa creativa però il sindaco Visconti la avanzò, per evitare che i piacentini nell’inverno ‘45/’46 non avessero più a soffrire il freddo di quello precedente propose di costituire un Ente comunale per i combustibili, che avrebbe provveduto per tempo ad approvvigionarsi per tempo di legna e di carbone da vendere anche alle famiglie a prezzi calmierati. L’organismo fu poi costituito e nel primo inverno si dimostrò utile ma a Visconti portò poi sfortuna perché, tornato sindaco con le elezioni del marzo ’46, per un buco di bilancio in quella gestione si dovette dimettere già nel febbraio del ’47.
Il CLN provinciale fungeva da snodo fra i problemi che via via emergevano e le autorità amministrative. Ha la propria sede in via Mazzini e tiene riunioni quasi giornaliere con lunghi O.d.G. Per i rapporti con i cittadini viene costituita anche una Segreteria Informazioni e Reclami. Alle riunioni, in relazione agli argomenti da trattare, intervengono a volte anche il prefetto Minoia, il sindaco Visconti, il commissario della Sepral e altri amministratori. Viene convocato e si presenta il direttor dell’Arsenale, col. Farinelli, per fare il punto sulla ripresa dell’attività e perché si vorrebbe far assumere qualche ex-partigiano disoccupato presso gli stabilimenti militari. Anche un generale, comandante del Genio miliare di Bologna, e altre autorità di passaggio a Piacenza ritengono loro dovere presentarsi a conferire con gli esponenti del CLN provinciale. Con i rappresentanti dell’AMG è invece soprattutto il Prefetto Minoia ad avere frequenti rapporti diretti.
Al CLN provinciale fa capo il quotidiano “Piacenza Nuova”, uscito subito dopo la Liberazione e che rimane l’unico quotidiano pubblicato a Piacenza fino a metà agosto quando tornerà nelle edicole anche “Libertà”. Piacenza Nuova è diretta collegialmente dal prof. Di Giacomo, comunista, e dall’avv. Cerri, democristiano, entrambi membri del CLN, ed è uno strumento importante anche per la formazione dell’opinione pubblica piacentina. Le forze politiche del CLN promuovono la costituzione dell’Unione Donne Italiane, quale strumento di partecipazione femminile alla nuova vita democratica, una associazione unitaria nella quale però si riconosceranno prevalentemente le donne che fanno riferimento alle forze di sinistra, perché in campo cattolico e democristiano era già nato il Centro Italiano Femminile.
Il problema più grave che s’impone è quello alimentare, derivante, come ricordavo, anche dal fatto che i produttori sottraggono parte delle derrate agricolo all’ammasso. Il CLN promuove dapprima, attraverso l’UDI, l’organizzazione di mense popolari ed inoltre la costituzione di Commissioni di quartiere, composte in prevalenza da massaie, per il controllo dei prezzi al mercato libero. Ma da poi il via anche alla costituzione di un Corpo volontario di Polizia annonaria che arriverà a comprendere 250 elementi, la cui azione risulta avere avuto una certa efficacia soprattutto nel sequestro e quindi recupero di beni sottratti all’ammasso. Il CLN vorrebbe, ma non ne ottiene l’autorizzazione, che tale corpo volontario affiancasse anche la polizia in servizi di ordine pubblico per fronteggiare le diffuse situazioni di violenza, di furto, di estorsione. Su questo grave problema del tempo esce su “Piacenza Nuova” un comunicato con il quale il CLN “denuncia chi indulge o pratica la violenza”, “ denuncia e sconfessa gli elementi che si sono abusivamente introdotti nelle organizzazioni politiche al solo scopo di raggiungere obiettivi criminosi”, e “invita i cittadini a stringersi e a collaborare con le autorità nella necessaria ricostruzione morale e materiale”.
Costituita, anche con la collaborazione del CLN, la Corte straordinaria d’Assise contro i reati fascisti di cui erano accusati alcune centinaia di esponenti sotto custodia nel carcere di Piacenza, a partire dal mese di maggio e per tutta l’estate ‘45 si susseguirono le udienza e le sentenze. Quelle a morte eseguite dopo il visto della Corte di Cassazione furono tre: fra questi ultimi tre fucilati al cimitero vi fu il capitano Filippo Zanoni riconosciuto e arrestato a Milano, che era accusato di essere responsabile, quale capo dell’Upi della GNR, dell’arresto e della messa a morte di diverse partigiani e antifascisti.
Le richiesta di giustizia, i sentimenti di rancore e di vendetta, resteranno vivi per mesi e si manifesteranno soprattutto in una animosa partecipazione alle suddette udienze processuali, con atteggiamenti che almeno in un caso intimorirono i giudici al punto da trasformare una sentenza appena pronunciata a trenta anni di carcere in sentenza di morte, che poi non verrà comunque eseguita. Contro tali comportamenti alle udienze prese una ferma posizione il CLN, e va anche detto che a quel clima e a quei comportamenti alle udienze non furono in genere partecipi gli ex partigiani che la violenza e la morte l’avevano vissuta per mesi ed che ora aspiravo soprattutto ad un vita tranquilla.
Intanto via via i servizi pubblici venivano riattivati. Per ricostituire il collegamento ferroviario verso Voghera si provvide dapprima, durante l’estate, a poggiare i binari su un terrapieno realizzato nel greto del fiume. Anche il ponte in ferro sul Po fu rapidamente ricostruito e già il 10 ottobre ’45 il primo treno da Milano arrivò nella stazione di Piacenza.
Il CLN provinciale fungeva da snodo fra i problemi che via via emergevano e le autorità amministrative. Ha la propria sede in via Mazzini e tiene riunioni quasi giornaliere con lunghi O.d.G. Per i rapporti con i cittadini viene costituita anche una Segreteria Informazioni e Reclami. Alle riunioni, in relazione agli argomenti da trattare, intervengono a volte anche il prefetto Minoia, il sindaco Visconti, il commissario della Sepral e altri amministratori. Viene convocato e si presenta il direttor dell’Arsenale, col. Farinelli, per fare il punto sulla ripresa dell’attività e perché si vorrebbe far assumere qualche ex-partigiano disoccupato presso gli stabilimenti militari. Anche un generale, comandante del Genio miliare di Bologna, e altre autorità di passaggio a Piacenza ritengono loro dovere presentarsi a conferire con gli esponenti del CLN provinciale. Con i rappresentanti dell’AMG è invece soprattutto il Prefetto Minoia ad avere frequenti rapporti diretti.
Al CLN provinciale fa capo il quotidiano “Piacenza Nuova”, uscito subito dopo la Liberazione e che rimane l’unico quotidiano pubblicato a Piacenza fino a metà agosto quando tornerà nelle edicole anche “Libertà”. Piacenza Nuova è diretta collegialmente dal prof. Di Giacomo, comunista, e dall’avv. Cerri, democristiano, entrambi membri del CLN, ed è uno strumento importante anche per la formazione dell’opinione pubblica piacentina. Le forze politiche del CLN promuovono la costituzione dell’Unione Donne Italiane, quale strumento di partecipazione femminile alla nuova vita democratica, una associazione unitaria nella quale però si riconosceranno prevalentemente le donne che fanno riferimento alle forze di sinistra, perché in campo cattolico e democristiano era già nato il Centro Italiano Femminile.
Il problema più grave che s’impone è quello alimentare, derivante, come ricordavo, anche dal fatto che i produttori sottraggono parte delle derrate agricolo all’ammasso. Il CLN promuove dapprima, attraverso l’UDI, l’organizzazione di mense popolari ed inoltre la costituzione di Commissioni di quartiere, composte in prevalenza da massaie, per il controllo dei prezzi al mercato libero. Ma da poi il via anche alla costituzione di un Corpo volontario di Polizia annonaria che arriverà a comprendere 250 elementi, la cui azione risulta avere avuto una certa efficacia soprattutto nel sequestro e quindi recupero di beni sottratti all’ammasso. Il CLN vorrebbe, ma non ne ottiene l’autorizzazione, che tale corpo volontario affiancasse anche la polizia in servizi di ordine pubblico per fronteggiare le diffuse situazioni di violenza, di furto, di estorsione. Su questo grave problema del tempo esce su “Piacenza Nuova” un comunicato con il quale il CLN “denuncia chi indulge o pratica la violenza”, “ denuncia e sconfessa gli elementi che si sono abusivamente introdotti nelle organizzazioni politiche al solo scopo di raggiungere obiettivi criminosi”, e “invita i cittadini a stringersi e a collaborare con le autorità nella necessaria ricostruzione morale e materiale”.
Costituita, anche con la collaborazione del CLN, la Corte straordinaria d’Assise contro i reati fascisti di cui erano accusati alcune centinaia di esponenti sotto custodia nel carcere di Piacenza, a partire dal mese di maggio e per tutta l’estate ‘45 si susseguirono le udienza e le sentenze. Quelle a morte eseguite dopo il visto della Corte di Cassazione furono tre: fra questi ultimi tre fucilati al cimitero vi fu il capitano Filippo Zanoni riconosciuto e arrestato a Milano, che era accusato di essere responsabile, quale capo dell’Upi della GNR, dell’arresto e della messa a morte di diverse partigiani e antifascisti.
Le richiesta di giustizia, i sentimenti di rancore e di vendetta, resteranno vivi per mesi e si manifesteranno soprattutto in una animosa partecipazione alle suddette udienze processuali, con atteggiamenti che almeno in un caso intimorirono i giudici al punto da trasformare una sentenza appena pronunciata a trenta anni di carcere in sentenza di morte, che poi non verrà comunque eseguita. Contro tali comportamenti alle udienze prese una ferma posizione il CLN, e va anche detto che a quel clima e a quei comportamenti alle udienze non furono in genere partecipi gli ex partigiani che la violenza e la morte l’avevano vissuta per mesi ed che ora aspiravo soprattutto ad un vita tranquilla.
Intanto via via i servizi pubblici venivano riattivati. Per ricostituire il collegamento ferroviario verso Voghera si provvide dapprima, durante l’estate, a poggiare i binari su un terrapieno realizzato nel greto del fiume. Anche il ponte in ferro sul Po fu rapidamente ricostruito e già il 10 ottobre ’45 il primo treno da Milano arrivò nella stazione di Piacenza.
Il ritorno della provincia sotto la giurisdizione dello stato italiano e il declino dei CLN
All’inizio di agosto avvenne una cosa inattesa. Il Governo Militare Alleato, che avrebbe restituito alla sovranità del governo italiano le restanti regioni italiane del Nord solo il 31 dicembre ’45 e salvo la Venezia Giulia, decise di trasferire sotto tale sovranità tutte le province dell’Emilia Romagna già a partire dal 6 agosto, ritenendo evidentemente che qui le autorità politiche-amministrative avessero già dimostrato di saper reggere con capacità ed equilibrio la situazione. Fino alla fine del Trattato di Pace fra l’Italia e le Potenze Alleate, che avverrà nel febbraio del 1947, l’Italia e l’operato del suo governo e delle sue autorità locali sarebbero comunque rimaste sotto la vigilanza della Commissione Alleata di Controllo (ACC) ed anche a Piacenza rimase un ufficio alleato, tenuto dal cosiddetto Town Major, ma questo rappresentante degli Alleati non aveva più potere di nomina e di interferenza diretta sull’operato degli organi politici e amministrativi locali.
L’avvenimento fu salutato favorevolmente dai componenti del CLN che però si interrogarono su quali sarebbero diventate a questo punto le loro funzioni. Di positivo vi fu che già entro il mese di agosto arrivarono da Roma anche i primi soldi con i quali a Piacenza ed in provincia si poterono avviare cinquanta piccoli lotti di lavori di ricostruzione di opere pubbliche. Poi, il 27 e 28 agosto, si tenne a Teatro Municipale il Congresso provinciale di tutti i CLN piacentini, comunali e d’azienda, avvenimento che rappresentò l’apogeo, il punto più alto di arrivo della vita e del prestigio di questi organismi unitari, ma anche il suo canto del cigno, l’ultimo grande momento di vita.
Nel teatro imbandierato, nel quale erano rappresentate nel loro complesso le forze che avevano vinto il nazifascismo e che stavano provvedendo alla ricostruzione democratica della comunità piacentina, erano presenti naturalmente le nuove autorità amministrative locali espresse dal CLN, ma anche il rappresentante dell’AMG, nonché il predente del CLN AI, il socialista Rodolfo Morandi. I lavori vengono aperto dai saluti del Prefetto Minoia e si sviluppano sulla base delle relazioni di Crovini, Arata, Cerri e Piatti, che affrontano le diverse problematiche economiche sociali e politiche di quel periodo, seguite da due importanti interventi, quello del segretario della Camera del Lavoro Sergio Podestà e quello della presidente dell’UDI, Luisa Vaccari, rivolto fra l’altro a sottolineare il ruolo delle donne nella costruzione della nuova società.
Ancora oggi gli atti di quel congresso costituiscono la fotografia più ricca della condizione piacentina nei primi mesi dopo la guerra. Inoltre il resoconto del nervoso dibattito congressuale ci trasmette anche il clima di una situazione in cui le difficile condizioni di vita e le aspettative che non trovavavo risposta cominciavano a produrre malessere e protesta sociale e a differenziare le posizione dei protagonisti ed eredi del mondo delle Resistenza che attraverso i CLN avevano fino ad allora cercato di affrontare unitariamente quelle condizioni.
Un anticipo lo si era avuto già dieci giorni prima quando, promosso dalla CGIL, si era tenuto in Piazza Cavalli una grande manifestazione popolare di protesta per la penuria di generi alimentari, il carovita e la disoccupazione, manifestazione con la partecipazione di circa cinquemila persone.
Erano state invitate a presenziare le varie autorità locali, compreso il prefetto Arata che però a differenza degli altri non si era presentato e la casa era stata lamentata dal segretario sindacale Podestà nel suo discorso. Alla fine parte dei lavoratori era andato a manifestare davanti alla prefettura ed un gruppo, salito lo scalone, era entrato di forza nella stanza del prefetto Minoia. La vicenda era stata poi discussa nell’ambito del CLN con valutazioni differenziate anche se alla fine era stata deprecata non solo dal quell’organo ma anche singolarmente da tutti i partiti.
Ora anche nel Congressi dei CLN al Teatro Municipale riemergeva l’insoddisfazione dei delegati di base relativamente al fatto che le autorità non riuscissero a stanare gli imboscatori dei prodotti agricoli e gli speculatori, e che le forze dell’ordine invece di colpire questi cosiddetti affamatori del popolo si dedicassero piuttosto a perseguire le intemperanze degli affamati. Altro tema di frustrazione e divisione era quello dell’epurazione che non faceva passi avanti, perché noti fascisti trovavano sempre testimonianze a loro favore, o addirittura inscrivendosi ai nuovi partiti antifascisti venivano da questi protetti, ed inoltre, anche quando la Commissione d’epurazione arrivava a decidere che una certo soggetto doveva essere sospeso dal posto che occupava, al provvedimento non veniva dato esecuzione con la scusa che non ci si poteva privare del suo contributo lavorativo.
Da quel congresso di fine agosto la fase ciellenistica nella vita politica e amministrativa piacentina cominciò a declinare.
Il primo e determinante fattore che mette in crisi le funzioni propulsive del CLN quale erede politico unitario della lotta di Liberazione viene a farsi strada proprio in conseguenza del passaggio in agosto della nostra provincia sotto il pieno controllo dello Stato e quindi dei suoi apparati e delle sue procedure amministrative. Per il momento, essendo capo del Governo fino al mese di novembre Ferrucci Parri, non avvengono revoche di uomini designati dal CLN alla direzione degli organismi locali, ma si realizza quello che era già avvenuto nelle altre strutture pubbliche del Sud e Centro Italia rimaste o passate in precedenza sotto il controllo dell’amministrazione centrale. Avviene che la burocrazia, sentendosi le spalle coperte dall’essere rientrata nel tradizionale sistema dello stato italiano, riprende il controllo delle procedure amministrative e impugna le nome esistenti contro le innovazioni ciellenistiche, mettendo ai margini anche quelle poche figure nuove di funzionari, impiegati e poliziotti, che nei primi mesi dopo la Liberazione erano stati inseriti nelle strutture pubbliche. L’apparato della Prefettura rappresenta lo snodo per questa restaurazione normativa e procedurale nei confronti dei Comuni: sui loro atti amministrativi vengono cosi pienamente rimessi in funzione i vecchi controlli di legittimità e di merito. E i diversi uffici e servizi dei ministeri e degli enti nazionali decentrati nelle province, da quelli della Pubblica Istruzione a quelli dei Lavori pubblici, della Difesa, della Giustizia, smettono di rapportarsi con il CLN e di tener conto dei suoi impulsi. I Ministeri ora provvedono direttamente alle nomine locali di loro competenza e se per qualche nomina di competenza delle Prefettura negli ultimi mesi del ’45 si usa ancora chiedere proposte al CLN provinciale, queste vengono poi vagliate dai funzionari e se non rispondono a determinati criteri vengono rigettate.
Il secondo fattore che via via indebolisce il ruolo dei CLN quale eredi politici unitari della Resistenza, è il fatto che la vita politica italiana e quindi anche quella locale viene in modo crescente caratterizzata dallo sviluppo dei partiti politici, dalla loro iniziativa e dall’orientarsi dei cittadini in direzione dell’uno o dell’altro partito. La vita politica piacentina nell’autunno del ’45 è segnata dai congressi dei tre principali partiti, quello socialista, quello comunista e quello democristiano, congressi prima sezionali e poi provinciali, conclusi questi da esponenti nazionali. I partiti ormai si mettono nella prospettiva delle elezioni previste nella primavera del ’46, incominciano quindi ad essere in competizione fra di loro e quindi a definire meglio il proprio profilo programmatico. Quelli maggiori dispongono anche singolarmente di un proprio periodico provinciale per divulgare le rispettive posizioni: Il Pci pubblica “Il Martello” sostituito poi da “Battaglie democratiche”, il Psi pubblica “Voce proletaria, la DC “Idea democratica” . In relazione alla propria storia e alla propria ideologia ogni partito tende poi a rappresentare, nell’ambito dell’elettorato, delle specifiche forze sociali. Comunisti e socialisti si fanno in particolare portavoce di quel malessere dei lavoratori dipendenti e dei ceti popolari che si andava manifestando.
Un terzo fattore, oltre ad aprire differenziazioni fra i partiti antifascisti e quindi ad indebolire il tessuto ciellenistico, andrà incisivamente a pesare negativamente sul processo di rinnovamento dello stato e della società italiana che era inizialmente nei programmi di tutte le forze politiche antifasciste.
Si deve non dimenticare che il regime fascista con la concezione e la costruzione di uno Stato che doveva racchiudere tutte le articolazioni della società – “tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato” era uno degli slogan mussoliniani” – e con l’organizzazione corporativa e protezionistica dell’economia nazionale, aveva attivato e strutturato in una condizione di relativo privilegio degli strati sociali di una certa ampiezza, non solo i grandi industriali e proprietari fondiari, i dirigenti dei ministeri, gli ufficiali dell’esercito e i magistrati, ma anche strati di ceto medio, in particolare quelli impiegatizi che avevano trovato un posto di lavoro sicuro nell’espansione della burocrazia pubblica e degli enti parastatali. Poi il fascismo aveva trascinato tutti nell’abisso della guerra e dell’occupazione hitleriana del Paese, ma dopo la Liberazione questi gruppi, superate nei primi mesi la paura di un sovvertimento sociale, riemergono a difesa della propria posizione e cercano protezione anche nell’ambito dei partiti antifascisti ormai in competizione per il consenso elettorale, e questa protezione finiscono per trovarla.
E’ uno dei motivi, ad esempio, per cui l’epurazione finì in niente. E’ il motivo per cui i partiti antifascisti arrivarono ad elaborare assieme e ad approvare una costituzione repubblicana molto innovativa nei suoi principi e nelle sue finalità, ma non si realizzò invece una riforma delle strutture dello Stato coerente con quei principi e quelle finalità e furono addirittura mantenuti per molti anni in vigore norme di legge ereditate dal regime fascista che contrastavano con quei principi.
A leggere i verbali delle riunioni del CLN provinciale negli ultimi mesi del ’45 si vede che le riunioni si fanno meno frequenti, gli argomenti da trattare sono minori, e prevalentemente rappresentate da proteste da trasmettere all’uno o all’altra autorità o da problemi interni. Lo stesso organo quotidiano d’informazione di proprietà del CLN, “Piacenza Nuova, comincia ad avere delle difficoltà sia perché oggetto di critiche dall’una o dall’altra componente politica sia perché gradualmente surclassato nella diffusione dal quotidiano Libertà. Tuttavia, mentre i CLN comunali della provincia vanno esaurendo la loro vitalità, il CLN provinciale continua a restare un interlocutore importante particolarmente per i lavoratori che cercano sostegno per le loro cause occupazionali, ad esempio per quelli degli stabilimenti militari che temono l’avvio dello sfoltimento degli organici, e per quelli del mondo agricolo che ottengono un decreto prefettizio che blocca la disdetta sia delle affittanze agricole che dei contratti agrari fra conduttori dei fondi e salariati.
Poi, tra novembre e dicembre, avviene un sensibile mutamento nel quadro di governo nazionale. Ferruccio Parri, che non era stato in condizione di indirizzare la vita del Paese fuori dalle emergenze del dopoguerra, viene sostituito da Alcide De Gasperi. L’ascesa di questi alla guida del governo segna per tanti aspetti la fine della fase di transizione ciellenista. Fra l’altro in quel dicembre del ’45 si definiscono le norme elettorali, con il riconoscimento dell’elettorato attivo e passivo anche per le donne, e si decide di tenere nel marzo del ‘46 le prime elezioni, quelle per gli organi dei Comuni.
Il CLN provinciale, che ancora il 15 dicembre ’45 ha tenuto una riunione assieme ai rappresentanti dei partiti antifascisti sul problemi dell’alimentazione, della disoccupazione e dell’ordine pubblico, per promuovere al riguardo un orientamento comune ed un impegno solidale, il 4 gennaio ’46 costituisce una Commissione rivolta a favorire una leale competizione elettorale. Ma la sua vita è agli sgoccioli. Formalmente si scioglierà, su disposizione del CLN AI e dopo aver ordinato i propri atti e documenti per la conservazione archivistica, nell’agosto di quel 1946, ma possiamo assumere come data emblematica della fine del suo ruolo quella de 26 febbraio quando arrivò a Piacenza la comunicazione del ministro dell’Interno, il socialista Romita, che il prefetto ciellenista Vittorio Minoia veniva sostituito dal prefetto della carriera ministeriale Amerigo De Bonis. Una decisione che segnava appunto il pieno restauro della burocrazia ereditata dal fascismo. De Bonis era infatti uno dei prefetti nominati da Mussolini, in carica a Piacenza il 25 luglio del 1943. Uomo abile e attento a non compromettersi troppo, era stato confermato nella nostra città anche per il 45 giorni del Governo Badoglio, poi però rimosso e tenuto in disparte dal regime di Salò.
L’avvenimento fu salutato favorevolmente dai componenti del CLN che però si interrogarono su quali sarebbero diventate a questo punto le loro funzioni. Di positivo vi fu che già entro il mese di agosto arrivarono da Roma anche i primi soldi con i quali a Piacenza ed in provincia si poterono avviare cinquanta piccoli lotti di lavori di ricostruzione di opere pubbliche. Poi, il 27 e 28 agosto, si tenne a Teatro Municipale il Congresso provinciale di tutti i CLN piacentini, comunali e d’azienda, avvenimento che rappresentò l’apogeo, il punto più alto di arrivo della vita e del prestigio di questi organismi unitari, ma anche il suo canto del cigno, l’ultimo grande momento di vita.
Nel teatro imbandierato, nel quale erano rappresentate nel loro complesso le forze che avevano vinto il nazifascismo e che stavano provvedendo alla ricostruzione democratica della comunità piacentina, erano presenti naturalmente le nuove autorità amministrative locali espresse dal CLN, ma anche il rappresentante dell’AMG, nonché il predente del CLN AI, il socialista Rodolfo Morandi. I lavori vengono aperto dai saluti del Prefetto Minoia e si sviluppano sulla base delle relazioni di Crovini, Arata, Cerri e Piatti, che affrontano le diverse problematiche economiche sociali e politiche di quel periodo, seguite da due importanti interventi, quello del segretario della Camera del Lavoro Sergio Podestà e quello della presidente dell’UDI, Luisa Vaccari, rivolto fra l’altro a sottolineare il ruolo delle donne nella costruzione della nuova società.
Ancora oggi gli atti di quel congresso costituiscono la fotografia più ricca della condizione piacentina nei primi mesi dopo la guerra. Inoltre il resoconto del nervoso dibattito congressuale ci trasmette anche il clima di una situazione in cui le difficile condizioni di vita e le aspettative che non trovavavo risposta cominciavano a produrre malessere e protesta sociale e a differenziare le posizione dei protagonisti ed eredi del mondo delle Resistenza che attraverso i CLN avevano fino ad allora cercato di affrontare unitariamente quelle condizioni.
Un anticipo lo si era avuto già dieci giorni prima quando, promosso dalla CGIL, si era tenuto in Piazza Cavalli una grande manifestazione popolare di protesta per la penuria di generi alimentari, il carovita e la disoccupazione, manifestazione con la partecipazione di circa cinquemila persone.
Erano state invitate a presenziare le varie autorità locali, compreso il prefetto Arata che però a differenza degli altri non si era presentato e la casa era stata lamentata dal segretario sindacale Podestà nel suo discorso. Alla fine parte dei lavoratori era andato a manifestare davanti alla prefettura ed un gruppo, salito lo scalone, era entrato di forza nella stanza del prefetto Minoia. La vicenda era stata poi discussa nell’ambito del CLN con valutazioni differenziate anche se alla fine era stata deprecata non solo dal quell’organo ma anche singolarmente da tutti i partiti.
Ora anche nel Congressi dei CLN al Teatro Municipale riemergeva l’insoddisfazione dei delegati di base relativamente al fatto che le autorità non riuscissero a stanare gli imboscatori dei prodotti agricoli e gli speculatori, e che le forze dell’ordine invece di colpire questi cosiddetti affamatori del popolo si dedicassero piuttosto a perseguire le intemperanze degli affamati. Altro tema di frustrazione e divisione era quello dell’epurazione che non faceva passi avanti, perché noti fascisti trovavano sempre testimonianze a loro favore, o addirittura inscrivendosi ai nuovi partiti antifascisti venivano da questi protetti, ed inoltre, anche quando la Commissione d’epurazione arrivava a decidere che una certo soggetto doveva essere sospeso dal posto che occupava, al provvedimento non veniva dato esecuzione con la scusa che non ci si poteva privare del suo contributo lavorativo.
Da quel congresso di fine agosto la fase ciellenistica nella vita politica e amministrativa piacentina cominciò a declinare.
Il primo e determinante fattore che mette in crisi le funzioni propulsive del CLN quale erede politico unitario della lotta di Liberazione viene a farsi strada proprio in conseguenza del passaggio in agosto della nostra provincia sotto il pieno controllo dello Stato e quindi dei suoi apparati e delle sue procedure amministrative. Per il momento, essendo capo del Governo fino al mese di novembre Ferrucci Parri, non avvengono revoche di uomini designati dal CLN alla direzione degli organismi locali, ma si realizza quello che era già avvenuto nelle altre strutture pubbliche del Sud e Centro Italia rimaste o passate in precedenza sotto il controllo dell’amministrazione centrale. Avviene che la burocrazia, sentendosi le spalle coperte dall’essere rientrata nel tradizionale sistema dello stato italiano, riprende il controllo delle procedure amministrative e impugna le nome esistenti contro le innovazioni ciellenistiche, mettendo ai margini anche quelle poche figure nuove di funzionari, impiegati e poliziotti, che nei primi mesi dopo la Liberazione erano stati inseriti nelle strutture pubbliche. L’apparato della Prefettura rappresenta lo snodo per questa restaurazione normativa e procedurale nei confronti dei Comuni: sui loro atti amministrativi vengono cosi pienamente rimessi in funzione i vecchi controlli di legittimità e di merito. E i diversi uffici e servizi dei ministeri e degli enti nazionali decentrati nelle province, da quelli della Pubblica Istruzione a quelli dei Lavori pubblici, della Difesa, della Giustizia, smettono di rapportarsi con il CLN e di tener conto dei suoi impulsi. I Ministeri ora provvedono direttamente alle nomine locali di loro competenza e se per qualche nomina di competenza delle Prefettura negli ultimi mesi del ’45 si usa ancora chiedere proposte al CLN provinciale, queste vengono poi vagliate dai funzionari e se non rispondono a determinati criteri vengono rigettate.
Il secondo fattore che via via indebolisce il ruolo dei CLN quale eredi politici unitari della Resistenza, è il fatto che la vita politica italiana e quindi anche quella locale viene in modo crescente caratterizzata dallo sviluppo dei partiti politici, dalla loro iniziativa e dall’orientarsi dei cittadini in direzione dell’uno o dell’altro partito. La vita politica piacentina nell’autunno del ’45 è segnata dai congressi dei tre principali partiti, quello socialista, quello comunista e quello democristiano, congressi prima sezionali e poi provinciali, conclusi questi da esponenti nazionali. I partiti ormai si mettono nella prospettiva delle elezioni previste nella primavera del ’46, incominciano quindi ad essere in competizione fra di loro e quindi a definire meglio il proprio profilo programmatico. Quelli maggiori dispongono anche singolarmente di un proprio periodico provinciale per divulgare le rispettive posizioni: Il Pci pubblica “Il Martello” sostituito poi da “Battaglie democratiche”, il Psi pubblica “Voce proletaria, la DC “Idea democratica” . In relazione alla propria storia e alla propria ideologia ogni partito tende poi a rappresentare, nell’ambito dell’elettorato, delle specifiche forze sociali. Comunisti e socialisti si fanno in particolare portavoce di quel malessere dei lavoratori dipendenti e dei ceti popolari che si andava manifestando.
Un terzo fattore, oltre ad aprire differenziazioni fra i partiti antifascisti e quindi ad indebolire il tessuto ciellenistico, andrà incisivamente a pesare negativamente sul processo di rinnovamento dello stato e della società italiana che era inizialmente nei programmi di tutte le forze politiche antifasciste.
Si deve non dimenticare che il regime fascista con la concezione e la costruzione di uno Stato che doveva racchiudere tutte le articolazioni della società – “tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato” era uno degli slogan mussoliniani” – e con l’organizzazione corporativa e protezionistica dell’economia nazionale, aveva attivato e strutturato in una condizione di relativo privilegio degli strati sociali di una certa ampiezza, non solo i grandi industriali e proprietari fondiari, i dirigenti dei ministeri, gli ufficiali dell’esercito e i magistrati, ma anche strati di ceto medio, in particolare quelli impiegatizi che avevano trovato un posto di lavoro sicuro nell’espansione della burocrazia pubblica e degli enti parastatali. Poi il fascismo aveva trascinato tutti nell’abisso della guerra e dell’occupazione hitleriana del Paese, ma dopo la Liberazione questi gruppi, superate nei primi mesi la paura di un sovvertimento sociale, riemergono a difesa della propria posizione e cercano protezione anche nell’ambito dei partiti antifascisti ormai in competizione per il consenso elettorale, e questa protezione finiscono per trovarla.
E’ uno dei motivi, ad esempio, per cui l’epurazione finì in niente. E’ il motivo per cui i partiti antifascisti arrivarono ad elaborare assieme e ad approvare una costituzione repubblicana molto innovativa nei suoi principi e nelle sue finalità, ma non si realizzò invece una riforma delle strutture dello Stato coerente con quei principi e quelle finalità e furono addirittura mantenuti per molti anni in vigore norme di legge ereditate dal regime fascista che contrastavano con quei principi.
A leggere i verbali delle riunioni del CLN provinciale negli ultimi mesi del ’45 si vede che le riunioni si fanno meno frequenti, gli argomenti da trattare sono minori, e prevalentemente rappresentate da proteste da trasmettere all’uno o all’altra autorità o da problemi interni. Lo stesso organo quotidiano d’informazione di proprietà del CLN, “Piacenza Nuova, comincia ad avere delle difficoltà sia perché oggetto di critiche dall’una o dall’altra componente politica sia perché gradualmente surclassato nella diffusione dal quotidiano Libertà. Tuttavia, mentre i CLN comunali della provincia vanno esaurendo la loro vitalità, il CLN provinciale continua a restare un interlocutore importante particolarmente per i lavoratori che cercano sostegno per le loro cause occupazionali, ad esempio per quelli degli stabilimenti militari che temono l’avvio dello sfoltimento degli organici, e per quelli del mondo agricolo che ottengono un decreto prefettizio che blocca la disdetta sia delle affittanze agricole che dei contratti agrari fra conduttori dei fondi e salariati.
Poi, tra novembre e dicembre, avviene un sensibile mutamento nel quadro di governo nazionale. Ferruccio Parri, che non era stato in condizione di indirizzare la vita del Paese fuori dalle emergenze del dopoguerra, viene sostituito da Alcide De Gasperi. L’ascesa di questi alla guida del governo segna per tanti aspetti la fine della fase di transizione ciellenista. Fra l’altro in quel dicembre del ’45 si definiscono le norme elettorali, con il riconoscimento dell’elettorato attivo e passivo anche per le donne, e si decide di tenere nel marzo del ‘46 le prime elezioni, quelle per gli organi dei Comuni.
Il CLN provinciale, che ancora il 15 dicembre ’45 ha tenuto una riunione assieme ai rappresentanti dei partiti antifascisti sul problemi dell’alimentazione, della disoccupazione e dell’ordine pubblico, per promuovere al riguardo un orientamento comune ed un impegno solidale, il 4 gennaio ’46 costituisce una Commissione rivolta a favorire una leale competizione elettorale. Ma la sua vita è agli sgoccioli. Formalmente si scioglierà, su disposizione del CLN AI e dopo aver ordinato i propri atti e documenti per la conservazione archivistica, nell’agosto di quel 1946, ma possiamo assumere come data emblematica della fine del suo ruolo quella de 26 febbraio quando arrivò a Piacenza la comunicazione del ministro dell’Interno, il socialista Romita, che il prefetto ciellenista Vittorio Minoia veniva sostituito dal prefetto della carriera ministeriale Amerigo De Bonis. Una decisione che segnava appunto il pieno restauro della burocrazia ereditata dal fascismo. De Bonis era infatti uno dei prefetti nominati da Mussolini, in carica a Piacenza il 25 luglio del 1943. Uomo abile e attento a non compromettersi troppo, era stato confermato nella nostra città anche per il 45 giorni del Governo Badoglio, poi però rimosso e tenuto in disparte dal regime di Salò.
Almeno un importante risultato: la costruzione della democrazia
A questo punto della mia ricostruzione, può apparire che il processo di cambiamento aperto dalla lotta di Liberazione e dal suo successo sia tornato al punto di partenza. In verità, mentre altre aspirazione di rinnovamento della società italiana non si sono al momento realizzate e il nostro Paese si porterà dietro certe tare fino ai nostri giorni, quello che è stato fatto dagli uomini eredi della lotta di Liberazione nella fase di transizione un risultato fondamentale lo ha conseguito, proprio quello della costruzione della nuova condizione politica democratica. Che non è da vedere solo nel fatto che in marzo tutti i cittadini, uomini e donne, per la prima volta nella storia dell’Italia hanno potuto scegliere i propri amministratori comunali e il due giugno determinare la fine del regime monarchico e scegliere le forze politiche e gli uomini investiti del compito di dare al regime repubblicano il nuovo ordinamento costituzionale.
Costruzione delle democrazia significa anche intervenire sulla consapevolezza dei cittadini, trasformare i cittadini dalla condizione di sudditi quali erano sotto il regime fascista in sovrani, in persone che non solo sono investiti del potere ma che avvertono anche la responsabilità di determinare il futuro della propria comunità. E ciò significa che non dovranno solo rivendicare dei diritti, la soddisfazione di bisogni e la soluzione di problemi. Significa che debbono studiare e capire come quei diritti e quei bisogni possono essere soddisfatti, come certi problemi complessi e difficili debbono essere affrontati, significa porsi il problema delle priorità nell’utilizzo delle risorse pubbliche.
Ebbene, conclusa la lotta armata contro l’oppressione e la violenza del fascismo, i protagonisti ed eredi del movimento di Liberazione hanno cominciato appunto a riunirsi per discutere e decidere le iniziative necessarie e possibili per uscire dalle emergenza del dopoguerra, a misurarsi con i grandi ostacoli che in quei mesi del 1945 gravavano sul futuro della nazione italiana, sottoposta ancora al potere e agli orientamento delle autorità militari anglo-americane. E a riunirsi, a discutere, a cercare soluzioni, a scegliere gli uomini idonei per la direzione degli organismi pubblici, delle associazioni sociali, delle aziende, non furono solo i componenti del CLN provinciale, furono i componenti di oltre quaranta CLN comunali, furono i componenti di quei 150 CLN aziendali, di quartiere, di categoria, rappresentati al grande congresso di agosto nel teatro comunale. E vi fu inoltre lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, che riguardò non solo i lavoratori dipendenti ma anche i mezzadri e per la prima volta i piccoli coltivatori diretti, e lo sviluppo delle associazioni femminili, dell’UDI e del Cif, e poi l’associazione dei cittadini nei partiti, che complessivamente avevano già all’inizio del ’46 in provincia di Piacenza quasi 20.000 iscritti capillarmente organizzati nel territorio, e poi le infinite riunioni, discussioni, discorsi e comizi nelle piazze.
Tutte cose naturalmente che non ebbero sempre caratteristiche di modelli ideali, che furono anche caratterizzate da ambizioni personali e da meschinità, aspetti che potremo sempre trovare nella vita politica, ma anche sociale, di ogni tempo.
Ma pensiamo solo un attimo a cosa è accaduto e sta accadendo in paesi non lontani dal nostro, nel bacino del Mediterraneo, paesi nei quali in anni recenti furono travolti i vecchi regimi dittatoriali ma nei quali non è sorto subito un movimento vasto, pluralistico ma con una tensione unitaria, di costruzione delle democrazia, come avvenne invece in Italia dopo la Liberazione. Questi paesi sono precipitati nel caos, nella violenza di massa, sotto dei nuovi capi dittatoriali.
E pensiamo anche alle continue convulsione autoritarie, di sopraffazione e repressione sanguinosa, che anche nella seconda parte del Novecento hanno caratterizzato buona parte delle nazioni del Centro e Sud America, paesi non di religione mussulmana ma di religione cattolica, paesi non di cultura araba ma di cultura latina, paesi ricadenti nell’area d’influenza del mondo occidentale.
Credo che, nonostante i limiti che ho evidenziato, non fu una eredità da poco quello che lasciò alla nazione italiana la fase ciellenista, la fase unitaria degli uomini della Resistenza e dei partiti antifascisti.
E faremmo meglio ad aver ben presente anche oggi quell’esperienza, come ha fatto il recente congresso provinciale dell’Anpi, approvando un appello nel quale ha fra l’altro richiamato l’attenzione sul fatto che “la sovranità popolare e la democrazia, che costituirono l’obiettivo e la conquista fondamentale del movimento di Liberazione, versano oggi in una condizione di sofferenza anche perché i partiti oggi non sono più il canale di partecipazione dei cittadini alla vita e alle scelte pubbliche ed anzi, con il comportamento odierno dei loro leader ed esponenti, contribuiscono a generare nei cittadini una sfiducia profonda nei confronti della politica che finisce per investire le istituzione stesse della democrazia.”
Costruzione delle democrazia significa anche intervenire sulla consapevolezza dei cittadini, trasformare i cittadini dalla condizione di sudditi quali erano sotto il regime fascista in sovrani, in persone che non solo sono investiti del potere ma che avvertono anche la responsabilità di determinare il futuro della propria comunità. E ciò significa che non dovranno solo rivendicare dei diritti, la soddisfazione di bisogni e la soluzione di problemi. Significa che debbono studiare e capire come quei diritti e quei bisogni possono essere soddisfatti, come certi problemi complessi e difficili debbono essere affrontati, significa porsi il problema delle priorità nell’utilizzo delle risorse pubbliche.
Ebbene, conclusa la lotta armata contro l’oppressione e la violenza del fascismo, i protagonisti ed eredi del movimento di Liberazione hanno cominciato appunto a riunirsi per discutere e decidere le iniziative necessarie e possibili per uscire dalle emergenza del dopoguerra, a misurarsi con i grandi ostacoli che in quei mesi del 1945 gravavano sul futuro della nazione italiana, sottoposta ancora al potere e agli orientamento delle autorità militari anglo-americane. E a riunirsi, a discutere, a cercare soluzioni, a scegliere gli uomini idonei per la direzione degli organismi pubblici, delle associazioni sociali, delle aziende, non furono solo i componenti del CLN provinciale, furono i componenti di oltre quaranta CLN comunali, furono i componenti di quei 150 CLN aziendali, di quartiere, di categoria, rappresentati al grande congresso di agosto nel teatro comunale. E vi fu inoltre lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, che riguardò non solo i lavoratori dipendenti ma anche i mezzadri e per la prima volta i piccoli coltivatori diretti, e lo sviluppo delle associazioni femminili, dell’UDI e del Cif, e poi l’associazione dei cittadini nei partiti, che complessivamente avevano già all’inizio del ’46 in provincia di Piacenza quasi 20.000 iscritti capillarmente organizzati nel territorio, e poi le infinite riunioni, discussioni, discorsi e comizi nelle piazze.
Tutte cose naturalmente che non ebbero sempre caratteristiche di modelli ideali, che furono anche caratterizzate da ambizioni personali e da meschinità, aspetti che potremo sempre trovare nella vita politica, ma anche sociale, di ogni tempo.
Ma pensiamo solo un attimo a cosa è accaduto e sta accadendo in paesi non lontani dal nostro, nel bacino del Mediterraneo, paesi nei quali in anni recenti furono travolti i vecchi regimi dittatoriali ma nei quali non è sorto subito un movimento vasto, pluralistico ma con una tensione unitaria, di costruzione delle democrazia, come avvenne invece in Italia dopo la Liberazione. Questi paesi sono precipitati nel caos, nella violenza di massa, sotto dei nuovi capi dittatoriali.
E pensiamo anche alle continue convulsione autoritarie, di sopraffazione e repressione sanguinosa, che anche nella seconda parte del Novecento hanno caratterizzato buona parte delle nazioni del Centro e Sud America, paesi non di religione mussulmana ma di religione cattolica, paesi non di cultura araba ma di cultura latina, paesi ricadenti nell’area d’influenza del mondo occidentale.
Credo che, nonostante i limiti che ho evidenziato, non fu una eredità da poco quello che lasciò alla nazione italiana la fase ciellenista, la fase unitaria degli uomini della Resistenza e dei partiti antifascisti.
E faremmo meglio ad aver ben presente anche oggi quell’esperienza, come ha fatto il recente congresso provinciale dell’Anpi, approvando un appello nel quale ha fra l’altro richiamato l’attenzione sul fatto che “la sovranità popolare e la democrazia, che costituirono l’obiettivo e la conquista fondamentale del movimento di Liberazione, versano oggi in una condizione di sofferenza anche perché i partiti oggi non sono più il canale di partecipazione dei cittadini alla vita e alle scelte pubbliche ed anzi, con il comportamento odierno dei loro leader ed esponenti, contribuiscono a generare nei cittadini una sfiducia profonda nei confronti della politica che finisce per investire le istituzione stesse della democrazia.”
Le elezioni della primavera 1946
Concludo con un’ultima questione. Si è detto e scritto e si scrive ancora che l’adesione al movimento di Resistenza fu un fatto minoritario, non solo, come è ovvio, in termini di partecipazione alla lotta armata partigiana ma anche di consenso a quella lotta. La prevalenza anche fra la popolazione del Nord Italia e quindi di una provincia come la nostra sarebbe stata rappresentata dal cosiddetta “zona grigia”, da una grande maggioranza di cittadini che non approvavano il regime fascista di Salò ma neanche la lotta partigiana.
Orbene, può essere anche vero che la maggioranza della popolazione del tempo desiderava di restarsene fuori da ogni rischio , ma quanto sia stata in realtà profonda sulla popolazione l’influenza della lotta popolare di Liberazione e quanto sia stato condiviso l’operato di quegli uomini che cercarono nei mesi successivi alla Liberazione di realizzarne gli obiettivi di libertà, democrazia ed equità sociale, lo dimostrano nel modo più netto i risultati delle elezioni comunali del marzo ’46 e il referendum monarchia/repubblica del successivo due giugno.
Le elezioni comunali segnarono infatti, oltre ad una affluenza massiccia alle urne, un consenso generale per le forze politiche e gli uomini che si ponevano in modo più netto come continuatori dei valori e degli obiettivi della lotta antifascista. A Piacenza su 40 consiglieri 13 andarono al Pci, 13 al Psi, 12 alla Dc e gli ultimi due ad una lista mista di esponenti del Partito liberale e del Partito d’Azione. In provincia comunisti e socialisti assieme conquistarono 35 comuni su 46. In un comune come Bobbio, dove, come ho ricordato, all’indomani della Liberazione la direzione del Comune era stata assunta dai tradizionali notabili, la scelta degli elettori è caduta sulla lista popolare socialcomunista che nominò poi sindaco un falegname.
Ma altrettanto significativa è la scelta degli elettori il due giugno nel referendum monarchia/repubblica. Va tenuto presente che inizialmente era previsto che sarebbe stata l’Assemblea a compiere questa scelta. Furono le forze più moderate, i monarchici e le stesse autorità alleate ad imporre un separato referendum sul quesito monarchia/repubblica, contando che l’orientamento degli elettori, ed in particolare quello delle donne, sarebbe stato più favorevole alla monarchia di una assemblea costituente che si prevedeva composta in grande maggioranza da esponenti dei partiti legati ai valori della Resistenza. E in un certo senso avevano visto giusto perché in ben otto regioni, tutte quelle del Sud, in Sicilia, in Sardegna e nel Lazio prevalse il voto per la conservazione della monarchia mentre per la scelta della Repubblica fu decisivo l’apporto degli elettori, uomini e donne, della Toscana e delle Regioni del Nord, cioè delle popolazioni dei territori in cui si era sviluppata la lotta partigiana e l’attività dei CLN.
La Repubblica prevalse con uno scarto di un po’ meno di due milioni di voti. In Emilia-Romagna i voti per la monarchia furono 455.542, quelli per la Repubblica 1.526.677. Dunque allo scarto nazionale a favore della Repubblica hanno contribuito per più della metà i cittadini della nostra regione.
Orbene, può essere anche vero che la maggioranza della popolazione del tempo desiderava di restarsene fuori da ogni rischio , ma quanto sia stata in realtà profonda sulla popolazione l’influenza della lotta popolare di Liberazione e quanto sia stato condiviso l’operato di quegli uomini che cercarono nei mesi successivi alla Liberazione di realizzarne gli obiettivi di libertà, democrazia ed equità sociale, lo dimostrano nel modo più netto i risultati delle elezioni comunali del marzo ’46 e il referendum monarchia/repubblica del successivo due giugno.
Le elezioni comunali segnarono infatti, oltre ad una affluenza massiccia alle urne, un consenso generale per le forze politiche e gli uomini che si ponevano in modo più netto come continuatori dei valori e degli obiettivi della lotta antifascista. A Piacenza su 40 consiglieri 13 andarono al Pci, 13 al Psi, 12 alla Dc e gli ultimi due ad una lista mista di esponenti del Partito liberale e del Partito d’Azione. In provincia comunisti e socialisti assieme conquistarono 35 comuni su 46. In un comune come Bobbio, dove, come ho ricordato, all’indomani della Liberazione la direzione del Comune era stata assunta dai tradizionali notabili, la scelta degli elettori è caduta sulla lista popolare socialcomunista che nominò poi sindaco un falegname.
Ma altrettanto significativa è la scelta degli elettori il due giugno nel referendum monarchia/repubblica. Va tenuto presente che inizialmente era previsto che sarebbe stata l’Assemblea a compiere questa scelta. Furono le forze più moderate, i monarchici e le stesse autorità alleate ad imporre un separato referendum sul quesito monarchia/repubblica, contando che l’orientamento degli elettori, ed in particolare quello delle donne, sarebbe stato più favorevole alla monarchia di una assemblea costituente che si prevedeva composta in grande maggioranza da esponenti dei partiti legati ai valori della Resistenza. E in un certo senso avevano visto giusto perché in ben otto regioni, tutte quelle del Sud, in Sicilia, in Sardegna e nel Lazio prevalse il voto per la conservazione della monarchia mentre per la scelta della Repubblica fu decisivo l’apporto degli elettori, uomini e donne, della Toscana e delle Regioni del Nord, cioè delle popolazioni dei territori in cui si era sviluppata la lotta partigiana e l’attività dei CLN.
La Repubblica prevalse con uno scarto di un po’ meno di due milioni di voti. In Emilia-Romagna i voti per la monarchia furono 455.542, quelli per la Repubblica 1.526.677. Dunque allo scarto nazionale a favore della Repubblica hanno contribuito per più della metà i cittadini della nostra regione.