Piacenza sotto l'occupazione tedesca, di Romano Repetti
(Relazione introduttiva alla conferenza del 28 marzo 2015 organizzata dall’Anpi di Piacenza)
(Relazione introduttiva alla conferenza del 28 marzo 2015 organizzata dall’Anpi di Piacenza)
Natura e caratteristiche della occupazione tedesca
All’indomani dell’armistizio italiano dell’8 settembre ’43 l’occupazione tedesca dell’Italia si realizzò con l’invio fino a ventisette Divisioni della Wehrmacht incaricate di proseguire la guerra contro le forze angloamericane, ma anche con l’insediamento in tutto il territorio italiano di un articolato apparato di forze militari, di polizia e di funzionari dipendenti dai ministeri del governo hitleriano, che avevano il compito di fronteggiare e piegare ogni possibile resistenza alla occupazione e di assumere il controllo delle risorse agricole, industriali e umane dell’Italia per utilizzarle al servizio del Reich e della sua guerra. Le Divisioni dell’esercito e della Luftwaffe impegnate sul fronte di guerra erano al comando inizialmente del maresciallo Rommel e poi del maresciallo Kesserling. Altre Divisioni e reparti andarono a costituire l’esercito territoriale con un proprio autonomo comando, che fu in capo al generale dell’esercito Robert Toussaint fino all’agosto ’44, quando passò al generale delle S.S. Karl Wolf. Reparti dell’esercito territoriale erano presenti in ogni provincia, con comandanti di Presidio o di Piazza. Le Divisioni della Wermacht insediate in Italia erano integrate anche da reparti di polizia militare - la Feldgendarmerie - e di servizi di spionaggio e controspionaggio. Ma a queste fu affiancata una fitta rete di reparti del corpo delle S.S. e della Sicherheitspolizei , in sigla SIPO, che includeva i tre corpi della polizia germanica preposti alla difesa del Reich nazista, il Servizio di sicurezza delle S.S., in sigla SD, la Polizia criminale e la Polizia politica segreta, cioè la Gestapo. Arrivò anche un reparto speciale delle S.S. specializzato per la cattura degli ebrei ed il loro trasferimento al campo di sterminio di Auschwitz. Il capo in Italia di questi corpi di polizia, prima di diventarlo anche dell’esercito territoriale, era il generale delle S.S. Wolf. A questa rete militare e di polizia fu accompagnata una rete di uffici dipendenti dall’amministrazione civile tedesca, anche se ricoperti in Italia con personale che indossava una divisa militare. Innanzitutto numerosi uffici e personale del Ministero tedesco degli Armamenti e della Produzione bellica (diretto da Albert Speer), con il compito di indirizzare la produzione dell’apparato industriale italiano in funzione delle esigenze delle forze armate tedesche e della guerra nazista. Poi uffici dipendenti dal Ministero tedesco dell’Alimentazione con il compito di fare la stessa cosa per le produzioni agro-alimentari italiane. Poi uffici in ogni provincia dell’Organizzazione Todt per il reclutamento di manodopera e l’organizzazione dei lavori edili richiesti dall’esercito tedesco. Ed infine un complesso apparato di uffici con a capo il generale Fritz Sauckel preposti al reperimento dei lavoratori da inviare in Germania.
L’occupazione tedesca dell’Italia avveniva dopo quattro anni di guerra nel corso dei quali i nazisti avevano avuto agio di sperimentare e sviluppare ogni possibile strumento per tenere sotto soggezione e per sfruttare economicamente le popolazioni dei vasti territori già invasi ed occupati, sia ad est che ad ovest della Germania che nella penisola balcanica. Quell’esperienza aveva anche insegnato loro che senza una qualche forma di governo locale collaborazionista che assicurasse la continuità degli apparati ammnistrativi le difficoltà di controllo della situazione sarebbero state enormi e avrebbero richiesto un numero tale di personale tedesco che la Germania non era in grado di mettere a disposizione. Hitler decise quindi, per il territorio italiano sotto il controllo del suo esercito, di rimettere in sella i vecchi capi fascisti, a cominciare da Mussolini, con il compito di far funzionare la pubblica amministrazione al servizio degli occupanti e di contribuire alla sottomissione della popolazione. Il nuovo regima fascista doveva quotidianamente rispondere del proprio operato a Rudolf Rahan, rappresentante plenipotenziario del Reich in Italia. Mussolini sapeva e riconosceva di essere un uomo fallito – aveva anche scritto una lettera a Badoglio mettendosi a sua disposizione – ma, prelevato dall’albergo-prigione sul Gran Sasso e portato in Germania, di fronte ad Hitler non fu capace ancora una volta di rifiutarne le pretese e il 15 settembre ’43 da una trasmittente radio tedesca di Monaco di Baviera comunicò ai suoi accoliti ed agli italiani che si tornava da capo. Tutti i vecchi capi fascisti, che non lo avessero rinnegato in occasione del defenestramento del 25 luglio, erano sollecitati a tornare ai loro posti di comando nel partito e negli organi dello stato, ed il loro più immediato obiettivo doveva essere quello della ricostituzione in ogni provincia delle legioni della milizia armata fascista. Gli storici hanno evidenziato che il regime fascista di Salò s’imperniò su adesioni e collaborazioni motivate da ragioni diverse. Innazitutto sui vecchi fascisti più fanatici e di ascendenza squadristica che poterono cosi ritornare alla luce e compiere le loro vendette, ma anche su fascisti velleitari che pensavano in quella situazione di poter affermare le istanze sociali che caratterizzavano propagandisticamente il movimento fascista delle origini. Vi furono poi fra le forze di Salò elementi della criminalità comune che ebbero agio di compiere i loro misfatti. Vi aderirono anche gli opportunisti sempre pronti a mettersi nella scia di chi sta al potere, presenti in particolare nel mondo economico e che ebbero occasione di fare buoni affari con le forniture all’esercito tedesco e alla Germania. Inoltre si adattarono al nuovo potere fascista gran parte degli appartenenti agli apparati pubblici, assicurandosi in tal modo la continuità dello stipendio. Viene però anche riconosciuto che alla repubblica di Salò e ai suoi gruppi armati aderì pure un numero non trascurabile di giovani che, formatosi nella retorica nazionalista fascista, vedevano nel re Vittorio Emanuele III e in Badoglio dei traditori dell’onore nazionale e che pensavano fosse invece onorevole continuare ad affiancare la Germania nazista nella sua guerra. Lo stesso Mussolini, che da Gargnano sul lago di Garda, nelle lettere quotidiane all’amante Claretta Petacci, scriveva letteralmente “La mia autorità è nulla. Il mio potere è zero. Io sono praticamente inesistente”, tuttavia si lasciava prendere di tanto in tanto dal proprio caratteristico istrionismo e velleitarismo: di tale origine l’attribuzione del nome di Repubblica Sociale Italiana al suo governo fantoccio di uno stato che per volere delle autorità tedesche di occupazione non aveva neanche una capitale; tale la legge sulla socializzazione dell’economia che avrebbe dovuto assicurare l’associazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e che rimase naturalmente lettera morta.
Il velleitarismo mussoliniano si espresse in modo nefasto per gli italiani soprattutto nell’ambizione di ricostituire un esercito da schierare al fronte accanto a quello hitleriano. Il progetto fu contrastato da Hitler che giudicava irrilevante il possibile contributo italiano alla sua guerra e che non si fidava dei soldati italiani. Secondo le autorità tedesche il governo di Salò doveva disporre solo di corpi di polizia per la lotta ai partigiani. Soldati volontari sarebbero stati incorporati direttamente nell’esercito tedesco, che infatti reclutò ed inquadrò circa 20.000 soggetti nelle Waffen S.S. Ma soprattutto le autorità germaniche avevano programmato di utilizzare i maschi italiani in età e condizione di lavoro per coprire le proprie esigenze di manodopera derivanti dal fatto che tutti i loro uomini validi erano impiegati come soldati nella guerra. Il loro progetto era di trasferire almeno un milione e mezzo di lavoratori italiani in Germania (Hitler ne avrebbe voluti tre milioni), in aggiunta ai 650.000 ex soldati italiani catturati dopo l’otto settembre e già utilizzati nei Reich per il lavoro forzato. Hitler concesse infine a Mussolini la costituzione delle note quattro Divisioni composte con i nuovi bandi di leva e, per quanto riguarda in particolare gli ufficiali, con militari già internati in Germania, quattro Divisioni che furono addestrate appositamente in Germania da istruttori tedeschi e utilizzate poi in Italia essenzialmente contro i partigiani. Ma furono proprio i bandi di leva della Repubblica di Salò ad accelerare e ad ingrossare le adesioni dei giovani al movimento partigiano di resistenza ed è anche in conseguenza del forte sviluppo di tale movimento che sarà reso impossibile il trasferimento di nuovi lavoratori italiani in Germania se non in minima parte, in tutto 65.954 seconda la contabilità delle autorità naziste. I costi dell’occupazione e della guerra in Italia, tutti quelli relativi alla presenza, ai rifornimenti e ai consumi della Werhmacht e dell’altro personale germanico, furono imposti agli italiani. Inizialmente le autorità tedesche pretesero di emettere ed utilizzare per i loro pagamenti “marchi di occupazione” – il Reichskreditkassenscheine – che erano semplicemente carta straccia, poi concordarono, cioè imposero che il Ministero della Finanze della Repubblica di Salò versasse loro ogni mese un contributo di dieci miliardi di lire del tempo (elevato successivamente a dodici miliardi), che, secondo i calcoli del ministro Gaetano Giampietro Pellegrini, era addirittura superiore all’importo dei suddetti costi. Tale onere fu sostenuto in parte con i proventi delle tasse e in parte con il tesoro della Banca d’Italia che fu prelevato da Roma e portato al Nord sotto la custodia degli uomini del generale delle S.S. Wolf.
L’occupazione tedesca a Piacenza
Le caratteristiche generali dell'occupazione hitleriana e della Repubblica di Salò che ho tracciato si riscontrano anche nella realtà piacentine di quei mesi. A Piacenza, dopo aver travolto i reparti italiani che cercavano di opporsi alla occupazione, il Comando di Piazza, la Plazkommandantur, in capo al colonnello Blecher, si insediò provvisoriamente nella sede già della Gil ora del liceo scientifico in piazzale Genova, e poi definitivamente nel palazzo al n. 38 dell’attuale Via Santa Franca, in seguito conosciuto come palazzo Enel. Una delle prime cose di cui si preoccuparono gli occupanti, oltre alla cattura e all’inoltro in Germania dei militari italiani di stanza a Piacenza, fu quella di assumere il controllo dell’Arsenale militare e della Direzione di Artiglieria, dove circa 4.000 maestranze producevano armi e munizioni. Da allora in poi la produzione fu programmata e gestita da funzionari tedeschi dipendenti dal Ministero del Reich degli Armamenti e della Produzione bellica. All’inizio del marzo ’44 fu militarizzata anche la maggiore azienda meccanica privata di Piacenza, la Massarenti, dopo che gli operai erano scesi in sciopero. In via Cavour nel palazzo al n. 64, che diventerà dopo la guerra la sede della Unione industriali, si insediò un reparto delle S.S tedesche e della Polizia di Sicurezza, la SIPO, con le sue tre branchie. In quel palazzo furono realizzate e utilizzate delle celle per trattenervi provvisoriamente le persone arrestate e interrogarle con i loro sistemi, che non escludevano la tortura. Dopo l’estate del ‘44, liberata dai partigiani Firenze, si trasferirono a Piacenza anche alcuni uomini della famigerata banda di torturatori Carità-Koch e con elementi tedeschi della Sipo e il comando del maresciallo altoatesino Maroder, costituirono, con sede in via Garibaldi n. 7, un’altra sezione per la caccia agli oppositori piacentini al nazi-fascismo. Nella primavera del ’44, presso il Comando di piazza tedesco arrivano i funzionari tedeschi preposti al reclutamento e al prelievo dalla nostra provincia dei lavoratori da inviare in Germania o da impiegare nell’organizzazione Todt, e preposti inoltre al reperimento e prelievo di risorse alimentari per l’esercito tedesco in Italia ma anche per l’invio in Germania. La Todt aveva un ufficio di reclutamento in P.za Cavalli n. 94 ed utilizzava la caserma di via Emilia Pavese come base organizzativa e per l’alloggio/custodia dei lavoratori condotti a Piacenza da altre province.
Il controllo e l’utilizzo dell’aeroporto di San Damiano era già nelle mani della Luftwaffe prima dell’armistizio dell’otto settembre. Dopo l’armistizio venne assunto il controllo della stazione ferroviaria (tramite uomini del Genio ferroviario germanico) e delle principali infrastrutture di comunicazione, a cominciare dai ponti stradale e ferroviario sul Po. Sotto controllo anche le comunicazioni telefoniche e postali. Per tutte queste funzioni occorreva un insieme di persone di cui le autorità germaniche non disponevano. Ma avevano appunto rimesso in piedi Mussolini e il regime fascista perché assicurasse agli occupanti i servizi indispensabili al conseguimento dei loro obiettivi.
Il controllo e l’utilizzo dell’aeroporto di San Damiano era già nelle mani della Luftwaffe prima dell’armistizio dell’otto settembre. Dopo l’armistizio venne assunto il controllo della stazione ferroviaria (tramite uomini del Genio ferroviario germanico) e delle principali infrastrutture di comunicazione, a cominciare dai ponti stradale e ferroviario sul Po. Sotto controllo anche le comunicazioni telefoniche e postali. Per tutte queste funzioni occorreva un insieme di persone di cui le autorità germaniche non disponevano. Ma avevano appunto rimesso in piedi Mussolini e il regime fascista perché assicurasse agli occupanti i servizi indispensabili al conseguimento dei loro obiettivi.
Le autorità piacentine del regime fascista di Salò
Sotto la protezione delle armi tedesche anche a Piacenza infatti alcuni dei vecchi esponenti fascisti ritornarono allo scoperto, promossero la ricostituzione della federazione fascista assumendone la direzione e ripresero nelle loro mani tutti gli organismi pubblici della città. Altri esponenti compromessi per il loro passato, che ora preferivano tenersi in disparte, furono probabilmente costretti a farsi avanti dalle pressioni e dai ricatti dei vecchi camerati. Il cosiddetto partito fascista repubblicano sarebbe arrivato a contare 910 iscritti a Piacenza e 1.500 nel resto della provincia: una struttura ed una presenza nella società piacentina ben lontana dall’organizzazione del vecchio partito fascista di massa articolato in ogni organismo istituzionale, economico e sociale. Risulta che fra le due passate componenti del partito a Piacenza, quella vandeana/ conservatrice che raccoglieva in particolare esponenti degli interessi economici tradizionali, e quella barbiellina, più movimentista e popolare ma anche più squadristica, siano stati esponenti di questa seconda ad essere protagonisti a Piacenza di questa nuova fase del fascismo. Peraltro, se pure a Piacenza non mancò l’adesione di un certo numero di giovani ed in particolare di giovani donne che entrarono nel Servizio ausiliario femminile, non si manifestarono, come avvenuto invece in altre province, gruppi portatrici di istanze di rigenerazione del fascismo rispetto al passato partito dei gerarchi, né apparvero sulla stampa prese di posizione al riguardo. Il quotidiano La Scure, tornato in edicola e consistente generalmente di un unico foglio, ospitava nella prima pagina solo articoli dell’agenzia nazionale del regime, definita "corrispondenza repubblicana", con le posizioni ufficiali degli organi nazionali del partito e del governo di Salò, e con l’esaltazione dei successi delle forze armate hitleriane, che erano in realtà in ritirata su tutti i fronti, ma si trattava, scriveva La Scure, di “ritirate strategiche”. Nella seconda pagina spettacoli, sport, ordinanze delle autorità militari tedesche e fasciste, vita di partito, e, ma non sistematicamente, commemorazioni dei caduti di parte fascista negli scontri con i partigiani, informazioni sulle azioni delle milizie fasciste contro i ribelli, compreso alcune delle esecuzioni tramite fucilazione; nessuna informazione invece sui successi conseguiti dai partigiani, nemmeno un accenno ai comuni passati sotto il controllo di questi, che giunsero ad assommare oltre i tre quinti del territorio provinciale. Una caratteristica del nuovo regime a Piacenza sono i frequenti mutamenti di uomini che si verificarono al vertice del partito e dei più importanti organi pubblici di potere.
Qualche giorno dopo il 9 settembre, Pier Luigi Pansera, segretario federale del partito fascista fino alla prima caduta del regime e che dopo il 25 luglio si era tenuto in disparte se non nascosto, riprende il suo posto con una segreteria provvisoria di cinque componenti impegnata a ricostruire l’organizzazione fascista. La sede era nell’edificio già citato nell’attuale piazza Cittadella, che chiamavano Casa Littoria. Viene posto mano innazitutto alla ricostituzione della Legione provinciale della tradizionale Milizia fascista, con sede in via Roma n. 33. Dopo una quindicina di giorni Pansera viene però nominato segretario federale a Venezia e a Piacenza lo sostituisce il fascista originario di Travo Carlo Anguissola fino al 28 novembre quando viene nominato Antonino Maccagni, anche lui piacentino, 63enne, nel partito fascista dal 1919, che era stato vicino a Barbiellini e con trascorsi di ufficiale della milizia. Dal giugno ’44, quando Mussolini dispone che anche il partito sia militarizzato e che gli iscritti dai 18 ai 60 anni vadano a formare le Brigate Nere, il Maccagni diventa anche comandante della Brigata Nera “Pippo Astorri”. Intanto il Carlo Anguissola era andato a fare il podestà del comune di Piacenza ma si dimetterà nell’agosto ’44 e sarà sostituito dall’avvocato Carlo Cappelini, anche lui uomo della vecchia guarda fascista, il quale però, sulla base dell’ultima invenzione demagogica di Mussolini, sarà a sua volta sostituito nel mese di novembre da un operaio, Angiolo Cappelli, dipendente dell’Arsenale, ma anche lui più avanti sarà sostituito da un altro podestà, Ernesto Mariani. Anche alla più alta carica pubblica provinciale, quello di prefetto/capo della Provincia, viene nominato dal ministro degli interni Buffarini Guidi un esponete fascista, già ispettore nazionale del partito e nel 1940 segretario federale a Bari, Davide Fossa. Nel maggio del ’44 al posto di Fossa che va a Modena viene nominato a Piacenza Mario Piazzesi, già squadrista della marcia su Roma e segretario federale del partito a Piacenza nel 1938. Quando nell’agosto ’44 il federale Maccagni viene catturato a Caratta di Gossolendo da una squadra di partigiani di Paolo Araldi ed il prefetto/Capo della provincia Piazzesi viene trasferito ad Alessandria, assume congiuntamente la carica di segretario federale del partito, comandante della Brigata Nera “Astorri” e prefetto/Capo della Provincia, Alberto Graziani, già ufficiale dei carristi e già segretario provinciale fascista a Treviso. Il cerchio si è chiuso. A capo del partito, della sua milizia armata e al vertice di tutti gli apparati pubblici della città e provincia era arrivato il fascista duro impegnato in una lotta mortale contro gli antifascisti, non disponibile a trattare con questi uno scambio di prigionieri nemmeno per salvare la vita al suo predecessore Maccagni e che emulerà invece i nazisti nelle rappresaglie contro i partigiani, dieci fucilati contro uno. C’era poi a Piacenza la Questura con un corpo di polizia che cercava nei limiti del possibile di tenersi un po’ defilato, in qualche modo sul terreno della legalità, rispetto alle pretese dei fascisti. Questore era rimasto dopo l’8 settembre Pietro Alicò, il quale ebbe occasione di lamentare gli illegali ed arbitrari arresti, perquisizioni domiciliari e sequestri di beni che giornalmente venivano compiuti dagli altri corpi di polizia fascisti. Prima gli fu affiancato come vice il funzionario Amedeo Pondrelli, che era invece, come si scrisse, di “provata fede fascista”, finché nel giugno ’44 Alicò fu collocato a riposo e sostituito non con una scelta interna alla Polizia ma da Giocchino Grampini, che proveniva dalla Milizia fascista. Con la Repubblica di Salò era stati ricostituiti anche gli organi propri dell’esercito: quindi a Piacenza operava anche un Comando militare provinciale con diversi distaccamenti ed il Distretto militare con diversi uffici. Significativo il fatto che in queste strutture vi erano collocati più ufficiali, addirittura un centinaio, e sottufficiali, che militari di truppa: erano formate cioè da militari di carriera con stipendio assicurato. Ma il corpo armato fondamentale creato in ogni provincia dal regime per il controllo della popolazione e la repressione degli oppositori, era la Guardia Nazionale Repubblicana, con un suo Ufficio Politico Investigativo.
La Gnr fu costituita all’inizio del dicembre ’43, con l’accorpamento della ricostituita Milizia armata fascista con l’arma dei carabinieri, allo scopo evidentemente anche di porre sotto controllo i carabinieri appunto perché questi, legati dal giuramento di fedeltà al re, tendevano a mantenere le loro azioni sul terreno della legalità e a non prestarsi ad esempio alle spedizioni di cattura dei renitenti alla leva. A Piacenza il Comando provinciale della Gnr aveva sede al n. 19 dello Stradone Farnese ed il corpo utilizzava la caserma Neve in via Scalabrini (dove sta ora il Politecnico). Comandanti provinciali furono il colonnello Ottorino Ghezzi, che proveniva appunto dalla Milizia, poi il colonnello Roteo Certo e infine il colonnello Cesare Falla Garetta. La consistenza del corpo a Piacenza giunse ad assommare oltre 500 componenti, con 33 ufficiali e 99 sottufficiali. Fu la GNR il primo corpo ad essere utilizzato nella caccia ai renitenti alla leva e poi nelle incursioni contro i partigiani. A sua volta l’Upi della Gnr discendeva direttamente dall’Upi della vecchia MVSN fascista, l’organismo che anche durante il ventennio, assieme agli agenti segreti dell’OVRA, era specificamente preposto a scoprire e arrestare gli oppositori del regime e a sottoporli ad interrogatorio con ogni sistema utile per farli confessare e possibilmente costringerli a tradire i propri compagni. Ora l’Upi che aveva una sede autonoma in via Borghetto n. 10, usava più che mai gli stessi sistemi. A capo di questi uomini era inizialmente il Pondrelli già citato che poi divenne vice-questore, successivamente il tenente colonnello Giulio Antonelli ed infine il capitano Filippo Zanoni che si fece particolarmente conoscere per il suo zelo investigativo, per le incursione antipartigiane, per gli arresti di antifascisti destinati non solo al carcere cittadino ma anche alla fucilazione.
Questi organismi militari e di polizia furono nella nostra provincia affiancate da altre piccole formazioni: la Compagnia della Morte, il gruppo Onore e Combattimento, la Guardia repubblicana giovanile, le Squadre d’azione fascista, il Servizio ausiliario femminile. Si moltiplicavano i centri di reclutamento di soggetti di qualunque età, sesso, condizione morale, e tutti questi gruppi armati avevano il compito di tenere in soggezione la popolazione con la forza delle armi e del terrore. Scorrazzavano per la città in camicia nera o vestendo divise raccogliticce, rialzavano teatralmente sugli edifici i simboli del vecchio regime, ripristinavano i nomi fascisti delle vie, ostentavano atteggiamenti vendicativi, fermavano e perquisivano i cittadini, entravano nelle case, sequestravano beni, arrestavano i giovani renitenti alla leva e gli ex-militari sfuggiti dopo l’otto settembre alla cattura, nonché le persone sospette di azioni o atteggiamenti antifascisti o antitedeschi, le malmenavo negli interrogatori e le consegnavo poi alla polizia tedesca che ne decideva il destino: campo di concentramento e lavoro coatto nel Reich, oppure lavoro obbligatorio in Italia per la Wermacht, oppure fucilazione. I comportamenti e le pretese dei fascisti non furono seguiti però da tutti gli appartenenti ai corpi della pubblica amministrazione che dopo l’8 settembre si prestarono a convivere con l’occupazione tedesca ed il regime di Salò. In una relazione della GNR si lamentava ad esempio che “La condotta politica degli impiegati statali è attendista: giornalmente si assiste a manifestazioni di equilibrismo, a contegni non compromettenti con le autorità repubblicane, tali da consentire domani la convivenza con le autorità regie-badogliane”. E’ ben noto inoltre come molti carabinieri, dopo il loro accorpamento con la milizia fascista, decisero di abbandonare il corpo ed unirsi alla formazione partigiana di Fausto Cossu. Claudio Oltremonti con il libro “Nelle S.P.I.R.E del regime” ha documentato gli atteggiamenti critici che maturarono anche all’interno della Questura e la presenza in essa di un gruppo di funzionari che collaborarono attivamente con le formazioni partigiane. Peraltro a Piacenza nel 1944 e ’45 non scorrazzavano solo le formazione armate costituite localmente. Per i grandi rastrellamenti antipartigiani furono inviati nella nostra provincia e in parte furono di passaggio e di sosta anche nel capoluogo reparti di almeno tre della quattro Divisioni del cosiddetto esercito di Graziani addestrato in Germania, a cominciare dai reparti della Divisione alpina Monterosa inviati nell’agosto ’44 a riprendere il controllo della Val Trebbia. Inoltre già a partire dalla primavera del ’44 ma soprattutto dopo l’estate, quando, per l’avanzata delle fronte verso la Val Padana il territorio della Repubblica di Salò si era andato via via restringendo e Piacenza aveva assunto un posizione territoriale ancora più strategica, nella nostra città, approfittando del fatto che, da vecchia piazzaforte militare, aveva abbondanza di caserme e depositi, furono inviati o arrivarono reparti delle più diverse formazioni armate fasciste: in particolare, un reparto della Decima Mas di Valerio Borghese, due compagnie del Gruppo corazzato Leonessa di Brescia, i resti, un centinaio di uomini, della Brigata Nera di Lucca, nonché gruppi della Legione autonoma Ettore Muti, di famigerata reputazione, che aveva come comandante un ex caporale squadrista autoproclamatosi colonnello.
Le sofferenze della popolazione piacentina
Come visse e cosa subì la popolazione piacentina in quei venti mesi di occupazione hitleriana e di fascismo di ritorno? L’occupazione tedesca con il supporto del ricostituito fascismo ebbe innanzitutto l’effetto di prolungare la guerra di altri venti mesi e di trasformare la stessa città di Piacenza in campo di battaglia nel momento in cui la guerra stessa entrava nella sua fase più aspra, più cruenta e più distruttrice. Aumentarono i lutti nelle famiglie: furono alla fine della guerra poco meno di 2.400 gli appartenenti ai corpi militari e alle formazione partigiane nati in provincia di Piacenza - circa un quarto nella città - che vi persero la vita, uomini nel fiore dell’età, molti i giovanissimi. Si viveva nella preoccupazioni per i propri cari internati nei campi di prigionia: erano circa 5.000 i militari piacentini - un migliaio quelli residenti in città - deportati in Germania dopo l’8 settembre e costretti ad una durissima vita di lavoro coatto e d’indigenza alimentare. Quelli furono poi i mesi in cui anche i civili che abitavano o lavoravano in città erano giornalmente sottoposti al rischio della morte che arrivava dal cielo. Infatti l’esercito anglo-americano, difronte alla tenace resistenza delle forze militari tedesche, fece ricorso massimo alla propria superiorità aerea per colpire quelle avversarie, disorganizzarne le retrovie, distruggere depositi, interromperne le vie di comunicazione demolendo stazioni, linee ferroviarie e ponti stradali. Piacenza che a tale riguardo si trovava in una posizione strategica fu duramente e ripetutamente colpita. L’obiettivo erano le infrastrutture, ma i piloti non andavano certo per il sottile, e già con il primo bombardamento, fra il due e tre maggio ’44, fu pesantemente colpito il centro storico della città. Vi furono su Piacenza una trentina d’incursioni diurne con grandi formazioni di bombardieri ed un’altra sessantina di sorvoli con rilascio di bombe. Nel complesso si contarono 266 vittime dei bombardamenti, più centinaia di feriti, 205 case completamente distrutte, 116 semidistrutte e diverse altre centinaia danneggiate.
Durante la notte poi imperversavano i singoli incursori, i caccia bombardieri monoposto denominati “Pippo” dalla nostra gente, che con la motivazione di impedire movimenti di truppe e rifornimenti, lasciavano cadere bombe verso ogni fonte di luce, e che erano quindi anche strumenti di guerra psicologica, mantenendo le forze militari avverse ma anche la popolazione in condizione permanente di pericolo e di allarme. Per la difesa dai bombardamenti erano stati predisposti i rifugi antiaerei: se ne contarono ben 1.477 nella città, di varia dimensione e adeguatezza, per una capienza di circa 50.000 persone. Per sottrarsi al pericolo delle incursioni aeree molti piacentini, donne con i figli, anziani, ma anche lavoratori occupati a Piacenza, sfollarono verso la campagna, verso i piccoli centri della provincia. Secondo i dati ufficiali del tempo gli sfollati sarebbero stati poco meno di 10.000, ma furono certamente in numero ben superiore. Andiamo per un attimo con la mente a quel tempo. Quando non bombardamenti comunque allarmi aerei, negli ultimi mesi quasi ogni giorno. Coprifuoco al tramontare del sole e poi completo oscuramento. Fame, code davanti ai negozi per ritirare quel poco che passa il razionamento, mancano anche tabacco e sigarette.
Chi ha mezzi si rivolge al mercato nero, va in campagna alla ricerca di alimenti, ma al ritorno in città rischia il sequestro di quello che ha reperito. Gli automezzi sono tutti requisiti dalle autorità germaniche e fasciste, i combustibili sono riservati solo a loro. Si usa la bicicletta ma non si trovano più gomme di ricambio. Non si trovano nemmeno scarpe nuove, perché le industrie lavorano solo per l’esercito tedesco e ricevono solo materie prime a quel fine, e perché quanto è ancora disponibile nei magazzini prende la strada della Germania. E poi il freddo, non arriva più in città né carbone né legna, anche perché non funzionano più i trasporti: anche tutti i cavalli e i muli sono censiti e requisiti per i trasporti militari. Per assicurare una provvista di legna per il riscaldamento degli edifici durante l’inverno ’44-’45 viene proposto in Comune di abbattere i grandi alberi che contornano il Pubblico Passeggio. Il podestà dice che personalmente è d’accordo ma che occorre l’autorizzazione del colonnello Blecher. Ma Blecher dice no, quegli alberi potrebbero servire come copertura degli automezzi militari tedeschi dagli avvistamenti aerei. Il Comune d’altra parte è anch’esso innanzitutto al servizio degli occupanti, deve requisire e mettere a loro disposizioni sedi e alloggi, procurare arredi, perfino biancheria e personale di servizio per i militari e gli impiegati tedeschi, e naturalmente pagare tutte le spese.
L’angoscia e la paura
Inimmaginabili poi l’angoscia e la paura che gravava in quei mesi sui cittadini con quell’incombente presenza di armati di ogni risma, di sospetti, di controlli, di perquisizioni, arresti, interrogatori, quel rischio di finire in un girone infernale. Qualche esempio, escludendo i mesi di più dura, diffusa e sanguinosa repressione, quelli da gennaio a marzo del ’45, che saranno trattati in una successiva comunicazione, ed utilizzando solo informazioni contenute nei rapporti della GNR provinciale al loro Comando generale a Verona. Questi rapporti ci dicono fra l’altro che fra gli abitanti della città ad essere colpiti e a correre pericolo non erano solo quelli che solidarizzavano in modo attivo con la Resistenza, ma anche le persone che semplicemente non si dimostravano fiduciosi e zelanti nei confronti degli oppressori, quelli, ad esempio, a cui sfuggiva di dire che la guerra era ormai persa per la Germania.
•Rapporto del 2 settembre ’44 - D’accordo con il capo della Provincia Graziani, le S.S. germaniche stanno provvedendo ad una radicale epurazione degli elementi ostili alla Rsi: specialmente molti arresti fra gli intellettuali.
•4 settembre - Arrestati sette appartenenti a partiti sovversivi, quattro persone per atti sovversivi, otto sospetti fuorilegge … e Taina Assunta, comunista, informatrice dei fuorilegge.
•9 settembre – L’Upi della Gnr ha arrestato diverse persone, dei quali un renitente alla leva, due dipendenti del Consorzio CNB sospetti di essere contrari all’attuale Governo, quattro impiegati della Prefettura sospetti di disfattismo, due assenti arbitrariamente dal lavoro obbligatorio, un favoreggiatore dei fuorilegge.
•15 settembre: Elementi dell’Upi hanno arrestato due renitenti alla leva e due individui sospetti di propaganda sovversiva.
Naturalmente la conseguenze dopo l’arresto non era solo la reclusione nel carcere cittadino, ma poteva arrivare alla fucilazione. Fra l’altro, infatti, il 21 giugno del ’44, mentre l’esercito tedesco era in ritirata dal centro Italia verso la linea gotica sull’appennino ligure emiliano, il maresciallo Kesserling aveva pubblicamente comunicato per radio le sue disposizioni contro i ribelli e contro i cittadini che non collaborassero con i nazifascisti per isolare e denunciare i ribelli, disposizione che riprendevano quelli in uso sul fronte orientale, nei territori dell’Unione sovietica, fra cui: prelevare ostaggi fra la popolazione civile da passare per le armi in occasione di sabotaggi da parte dei ribelli; distruggere col fuoco le abitazioni poste nelle zone dove fossero stati sparati colpi di arma da fuoco nei confronti di militari germanici; impiccare nelle piazze gli elementi colpevoli di tali azioni; imputare alla popolazione locale la responsabilità di ogni atto ostile che si verificasse nella loro zona, quali danneggiamenti a linee di comunicazioni, telefoniche, ecc,.
•Rapporto del 2 settembre ’44 - D’accordo con il capo della Provincia Graziani, le S.S. germaniche stanno provvedendo ad una radicale epurazione degli elementi ostili alla Rsi: specialmente molti arresti fra gli intellettuali.
•4 settembre - Arrestati sette appartenenti a partiti sovversivi, quattro persone per atti sovversivi, otto sospetti fuorilegge … e Taina Assunta, comunista, informatrice dei fuorilegge.
•9 settembre – L’Upi della Gnr ha arrestato diverse persone, dei quali un renitente alla leva, due dipendenti del Consorzio CNB sospetti di essere contrari all’attuale Governo, quattro impiegati della Prefettura sospetti di disfattismo, due assenti arbitrariamente dal lavoro obbligatorio, un favoreggiatore dei fuorilegge.
•15 settembre: Elementi dell’Upi hanno arrestato due renitenti alla leva e due individui sospetti di propaganda sovversiva.
Naturalmente la conseguenze dopo l’arresto non era solo la reclusione nel carcere cittadino, ma poteva arrivare alla fucilazione. Fra l’altro, infatti, il 21 giugno del ’44, mentre l’esercito tedesco era in ritirata dal centro Italia verso la linea gotica sull’appennino ligure emiliano, il maresciallo Kesserling aveva pubblicamente comunicato per radio le sue disposizioni contro i ribelli e contro i cittadini che non collaborassero con i nazifascisti per isolare e denunciare i ribelli, disposizione che riprendevano quelli in uso sul fronte orientale, nei territori dell’Unione sovietica, fra cui: prelevare ostaggi fra la popolazione civile da passare per le armi in occasione di sabotaggi da parte dei ribelli; distruggere col fuoco le abitazioni poste nelle zone dove fossero stati sparati colpi di arma da fuoco nei confronti di militari germanici; impiccare nelle piazze gli elementi colpevoli di tali azioni; imputare alla popolazione locale la responsabilità di ogni atto ostile che si verificasse nella loro zona, quali danneggiamenti a linee di comunicazioni, telefoniche, ecc,.
E’ anche sulla base di quelle disposizione che militari tedeschi e dei corpi della Repubblica di Salò si sentirono coperti nel compiere, il 30 luglio ’44, la Strage di Strà, nove vittime, fra cui un bambino di due anni ed una donna di 85 anni. E anche a Piacenza il 7 agosto ’44 venne “inaugurato” il muro dei fucilati al cimitero, con la prima esecuzione, quella di Artemio Zurla, originario di Travo, 21 anni. Ne seguiranno poi molte altre presso quel muro, non solo di combattenti partigiani come Paolo Araldi, ma anche di persone della città incarcerate per sospetto antifascismo e poi fucilate in occasione di rappresaglie. Quale fosse il clima che si viveva in città da parte della popolazione lo scrisse lo stesso questore Gioacchino Grampini in una relazione del 3 settembre ’44, che affermava:
“L’Upi opera fermi, perquisizioni, arresti, con sistemi e metodi terroristici, cerca di strappare confessioni alle persone con brutali vessazioni, percosse e sevizie: le imprecazioni, gli urli, i pianti, sono sentite dagli abitanti del vicinato con terrore e raccapriccio. Da parte sua la Brigata Nera opera arresti e perquisizioni. Tutti compiono azioni di polizia con metodi propri, con la sola preoccupazione di incutere spavento e terrore nella popolazione ed appropriarsi di quanto trovano come bottino personale”.
Naturalmente anche il Grampini fu poi sostituito: nuovo questore divenne Roberto Mastrogiacomo.
“L’Upi opera fermi, perquisizioni, arresti, con sistemi e metodi terroristici, cerca di strappare confessioni alle persone con brutali vessazioni, percosse e sevizie: le imprecazioni, gli urli, i pianti, sono sentite dagli abitanti del vicinato con terrore e raccapriccio. Da parte sua la Brigata Nera opera arresti e perquisizioni. Tutti compiono azioni di polizia con metodi propri, con la sola preoccupazione di incutere spavento e terrore nella popolazione ed appropriarsi di quanto trovano come bottino personale”.
Naturalmente anche il Grampini fu poi sostituito: nuovo questore divenne Roberto Mastrogiacomo.
Tuttavia proprio in quei mesi dell’estate ed autunno ’44 lo sviluppo del movimento di Resistenza e di lotta partigiana fu irrefrenabile. Ancora qualche citazione dai rapporti della GNR:
•Due settembre ’44 – “L’attività dei banditi va gradualmente aumentando il suo campo d’azione, con scorrerie in pianura e alla periferia della città. Le armi e le munizioni vengono procurate con frequenti visite alle nostre polveriere. Anche l’elemento femminile incomincia ad affluire numeroso alle forze partigiane e viene utilizzato specialmente per i servizi d’informazione e di collegamento. / Attraverso l’esame della corrispondenza censurata si leggono molte lettere di mamme e spose che incitano i figli ed i mariti ad abbandonare i nostri reparti, a tornare a casa e ad unirsi ai ribelli.”
•13 novembre – “A Piacenza i banditi, passando per un cancello secondario, già aperto da operai conniventi con loro, sono penetrati nell’arsenale dell’esercito e dopo aver immobilizzate le guardie hanno asportato un fucile mitragliatore, tre mitraglie pesanti, bombe e munizioni.”
• Ancora nel novembre ‘44 – “Una delle finalità del movimento dei banditi, cioè quello di impegnare forti reparti italo-germanici e sottrarli all’impiego al fronte, può considerarsi raggiunta. Infatti oltre alla Divisione alpina Monterosa e alcuni reparti della Divisione San Marco, ora arriverà anche una Divisione germanica a presiedere il territorio.”
La Divisione germanica come sappiamo era la Turkestan, che fu utilizzata per un poderoso e sanguinoso rastrellamento fra la fine del novembre ’43 ed il gennaio ’44. Mentre le precedenti incursioni ed i rastrellamenti effettuati da forze di polizia e militari della Repubblica di Salò non avevano mai conseguito successi significativi e duraturi sulle formazioni partigiane, il rastrellamento dei reparti nazi-mongoli sconvolse e temporaneamente paralizzò il movimento di resistenza. E in quei mesi, forti della protezione assicurata dalla presenza di quelle migliaia di soldati dell’esercito tedesco, e dello stesso arrivo ed impiego nel territorio piacentino di due battaglioni delle Waffen S.S italiane al comando del colonnello tedesco Franz Binz, fra dicembre ‘44 e marzo ’45 anche nella città di Piacenza da parte delle milizie fasciste e dagli organismi di polizia naziste vennero compiute le azioni più barbare nei confronti dei resistenti e più in generale dei cittadini. Basti dire che i registri del carcere documentano l’ingresso in quel periodo di 1.122 persone nelle sue celle, a cui seguirono deportazioni in Germania e fucilazioni. (Questo periodo sarà trattato da un’altra comunicazione).
•Due settembre ’44 – “L’attività dei banditi va gradualmente aumentando il suo campo d’azione, con scorrerie in pianura e alla periferia della città. Le armi e le munizioni vengono procurate con frequenti visite alle nostre polveriere. Anche l’elemento femminile incomincia ad affluire numeroso alle forze partigiane e viene utilizzato specialmente per i servizi d’informazione e di collegamento. / Attraverso l’esame della corrispondenza censurata si leggono molte lettere di mamme e spose che incitano i figli ed i mariti ad abbandonare i nostri reparti, a tornare a casa e ad unirsi ai ribelli.”
•13 novembre – “A Piacenza i banditi, passando per un cancello secondario, già aperto da operai conniventi con loro, sono penetrati nell’arsenale dell’esercito e dopo aver immobilizzate le guardie hanno asportato un fucile mitragliatore, tre mitraglie pesanti, bombe e munizioni.”
• Ancora nel novembre ‘44 – “Una delle finalità del movimento dei banditi, cioè quello di impegnare forti reparti italo-germanici e sottrarli all’impiego al fronte, può considerarsi raggiunta. Infatti oltre alla Divisione alpina Monterosa e alcuni reparti della Divisione San Marco, ora arriverà anche una Divisione germanica a presiedere il territorio.”
La Divisione germanica come sappiamo era la Turkestan, che fu utilizzata per un poderoso e sanguinoso rastrellamento fra la fine del novembre ’43 ed il gennaio ’44. Mentre le precedenti incursioni ed i rastrellamenti effettuati da forze di polizia e militari della Repubblica di Salò non avevano mai conseguito successi significativi e duraturi sulle formazioni partigiane, il rastrellamento dei reparti nazi-mongoli sconvolse e temporaneamente paralizzò il movimento di resistenza. E in quei mesi, forti della protezione assicurata dalla presenza di quelle migliaia di soldati dell’esercito tedesco, e dello stesso arrivo ed impiego nel territorio piacentino di due battaglioni delle Waffen S.S italiane al comando del colonnello tedesco Franz Binz, fra dicembre ‘44 e marzo ’45 anche nella città di Piacenza da parte delle milizie fasciste e dagli organismi di polizia naziste vennero compiute le azioni più barbare nei confronti dei resistenti e più in generale dei cittadini. Basti dire che i registri del carcere documentano l’ingresso in quel periodo di 1.122 persone nelle sue celle, a cui seguirono deportazioni in Germania e fucilazioni. (Questo periodo sarà trattato da un’altra comunicazione).
Concludo con un’ultima annotazione. Parlando di quei lunghi mesi a Piacenza ho richiamato le sofferenze e le angosce della popolazione. Ma è anche vero che lo spirito umano è in grado di reagire pure alle situazioni più terribili. C’è un passo degli scritti di Giulio Cattivelli raccolti nel volume “La guerra di Cat” in cui ricorda che, “nonostante tutti i dolori, i disagi, i pericoli e le privazioni in quei mesi a Piacenza si lavorava, si viveva, si amava”. E aggiunge “In quel tempo disperato e ferreo, senza quattrini, senza divertimenti, senza prospettive, e con la morte alla calcagna, si riuscì anche ad essere felici perché una esistenza cosi precaria abituò ad accettare ogni nuovo giorno come un dono supplementare del destino e a viverlo più intensamente...”
Ma ci fu anche qualche segmento di cittadinanza che in quei mesi si trovava a suo agio proprio fra occupanti tedeschi e oppressori fascisti. Si legge sulla Scure come ha annotato il compianto Ennio Concarotti nel suo libro “Piacenza 1940-’45”: “Capodanno 1945. Graziani e Blecher al Municipale per l’esecuzione dell’Andrea Chenier. Pubblico straripante ed entusiasta. Nei palchi ed in platea accanto ad ufficiali tedeschi e della Rsi i signori e le signore della Piacenza bene, in parte provenienti dal ceto dei neoricchi della borsa nera” .
Quel capodanno era quello in cui i partigiani piacentini, per sfuggire alla cattura e alla morte, erano costretti a spostarsi continuamente, di giorno e di notte, nel freddo e nel gelo, dall’una all’altra delle zone più impervie dell’appenino piacentino, parmense e ligure. A maggior ragione, nei confronti di quei combattenti, che con i loro sacrifici hanno aperto per il popolo italiano la strada della liberta e della democrazia, è doveroso manifestare il nostro omaggio e la nostra riconoscenza.
Ma ci fu anche qualche segmento di cittadinanza che in quei mesi si trovava a suo agio proprio fra occupanti tedeschi e oppressori fascisti. Si legge sulla Scure come ha annotato il compianto Ennio Concarotti nel suo libro “Piacenza 1940-’45”: “Capodanno 1945. Graziani e Blecher al Municipale per l’esecuzione dell’Andrea Chenier. Pubblico straripante ed entusiasta. Nei palchi ed in platea accanto ad ufficiali tedeschi e della Rsi i signori e le signore della Piacenza bene, in parte provenienti dal ceto dei neoricchi della borsa nera” .
Quel capodanno era quello in cui i partigiani piacentini, per sfuggire alla cattura e alla morte, erano costretti a spostarsi continuamente, di giorno e di notte, nel freddo e nel gelo, dall’una all’altra delle zone più impervie dell’appenino piacentino, parmense e ligure. A maggior ragione, nei confronti di quei combattenti, che con i loro sacrifici hanno aperto per il popolo italiano la strada della liberta e della democrazia, è doveroso manifestare il nostro omaggio e la nostra riconoscenza.