Rastrellamento in Val Chero
(di Emanuele Bergonzi)
(di Emanuele Bergonzi)
A Servota di Groppo Visdomo, frazione di Gropparello, nell’estate del 1944, una camionetta carica di soldati tedeschi, staccatosi dalla colonna che transitava sulla provinciale, arrivava nel cortile della nostra abitazione. Quei militari, dividendosi in coppie, dopo aver perlustrato attentamente ovunque, prendevano la posizione di ogni punto strategico nei dintorni della casa, la cascina, la stalla, l’ovile e il pollaio, e piazzavano una grossa arma con un “treppiedi” sull’altura che domina la curva ad “S” della strada sottostante. Questa unica arteria (non asfaltata a quei tempi) proveniente da Gropparello, Castellana e Croviano, passa vicino alle case di Servota, prosegue fino al paese Groppo Visdomo, poi arriva ad Obolo e Passo Prato Barbieri, 900 metri di altitudine. A Prato Barbieri si incontrano diverse diramazioni: verso destra si va a Bramaiano e Bettola, Val Nure; a sinistra, dopo la frazione dei Guselli, si può raggiungere Morfasso, Val d’Arda; oppure S. Michele, Veleia, in Val Chero. Quegli uomini armati avevano preceduto i loro comandanti, tre ufficiali, che arrivavano poco dopo. Il più anziano dei tre, in perfetto italiano, chiedeva a mia madre se sapeva preparare una frittata, e faceva scaricare dall’automezzo un bel cesto di uova, poi molti altri generi alimentari: pane bianco, salumi, formaggi e olio di olive. Di fronte a tanta abbondanza nostra madre sperava di poter dare qualcosa da mangiare anche a noi bambini e per questo assicurava gli ospiti, evitando di rispondere in dialetto, che avrebbe soddisfatto la loro richiesta. In quel momento eravamo presenti quattro fratelli: tre maschietti e una femminuccia di 12 anni. C’ero io di nove, l’altro di sei e l’ultimo arrivato in famiglia, di un anno. Con il più piccolo, tenuto in braccio dalla sorellina, componevamo un bel numero alla attenzione degli inaspettati ospiti che ci dedicavano molte gentilezze. Un’altra sorella che ne aveva 15 di anni, assente in quel momento, sarebbe tornata poco dopo. Siccome sentivamo sempre che i soldati tedeschi si comportavano da cattivi, questi, non lo sembravano davvero. A noi ragazzi facevano paura le divise e le armi, ma quei tre “Superiori” che avevano un berretto diverso, “imponente” e tante mostrine sul petto, non procuravano alcun timore. Mentre nostra madre, che aveva preparato la tavola con l’unica tovaglia bella che avevamo, rispondeva alle loro domande, noi tutti in fila, stavamo ad osservarli attentamente. Uno degli ufficiali si complimentava con la sorella maggiore che, appena arrivata, si era messa ad aiutare la mamma. Dal paese, distante circa un chilometro in linea d’aria, sentivamo delle grida e anche dei pianti. Dal pontile di casa nostra, punto di vedetta, scorgevamo delle fiamme, ma non potevamo sapere cosa fosse successo. I soldati che erano arrivati in paese, avevano scoperto una vettura nascosta sotto il fieno e covoni di grano e l’avevano incendiata bruciando tutto, riducendo in un mucchio di cenere anche l’immobile. Il proprietario della macchina, signor Cella, residente a Bergamo, che aveva sposato una ragazza del nostro paese, si trovava ospite degli suoceri. Era arrivato fin qui con l’illusione di trovarsi al sicuro; invece veniva fatto prigioniero e costretto a eseguire gli ordini dei tedeschi. Cella era stato il primo, preso prigioniero dei tedeschi, poi veniva aggiunto il parroco don Bianchi, prelevato in chiesa. Subito dopo anche il dottor Poggi, medico condotto, e Giovanni il carrettiere subivano la stessa sorte. I sequestrati venivano posizionati in testa alla colonna dei militari, che proseguiva verso il Passo di Prato Barbieri. Erano le prime ore del pomeriggio quando i nostri ospiti ripartivano. Nostra madre rimaneva molto sorpresa sentendosi ringraziare per la squisita frittata! Inoltre, i tedeschi, lasciavano a casa nostra anche tutto quel ben di Dio avanzato, dicendo a lei: "Dai da mangiare ai tuoi bambini, sono molto gracili."
Foto sopra a sinistra: il papà Giuseppe traina con i suoi buoi un carro di fieno; sopra il carro, il primo a sinistra è Emanuele, autore del presente scritto. Foto sopra a destra: Gino Bergonzi, fratello di Emanuele più grande, in uniforme da partigiano della Divisione "Val d'Arda", 141esima Brigata, Distaccamento "Sartori". Il nome di battaglia di Gino era "Gilera".
Ma il fatto più eclatante doveva ancora succedere: il fratello Piero, classe 1927, l’unico che non aveva seguito gli altri due (Gino e Savino) confluiti nelle file dei partigiani, era andato dagli zii, congiunti di nostra madre, a prendere i loro buoi perché servivano per arare un campo. Ignaro dell’arrivo delle truppe tedesche, mentre si immetteva sulla strada all’altezza di Costa della Mora gli veniva intimato “l’alto là”. Sapendo che non avrebbe potuto fuggire, sarebbe stato peggio, si offriva disponibile a caricare sul suo carro qualsiasi materiale che i tedeschi dovevano trasportare. Sul pianale in legno di quell’artigianale “quattro ruote” con i cerchioni in ferro, poco comodo, veniva caricato un ferito e poi armi e bagagli della truppa. In testa alla colonna sempre il parroco, il dottore, il povero Giovanni, che era pure zoppo. I soldati dovevano andare a Obolo e poi al Passo di Prato Barbieri dove convergeva un’altra colonna della stessa divisione Tedesca, proveniente da Bettola. Il parroco, stremato dal caldo e tutto sudato, si era messo un fazzoletto bianco sotto il cappello dai “tre cantoni” e si faceva quasi trascinare, attaccato al carro. Le persone che incontrava lungo il succedersi dei piccoli gruppi di case lo salutavano e gli auguravano ogni bene, ma notavano che aveva una paura tremenda. Arrivati a Obolo, davanti alla chiesa, i tedeschi gli dicevano che era libero di andarsene. Recuperato il coraggio, ritornava di corsa verso la sua canonica e ci faceva sapere del nostro familiare fatto prigioniero. La notizia sconvolgeva mamma e papà (che nel frattempo era ritornato dal lavoro) Il papà lavorava in miniera a Montechino, alla Forgia, della società “Petroli d’Italia”. Disperati tutti e due, ma decisi di cercare clemenza presso gli ufficiali che si erano fatti servire a casa nostra, veniva inviata la figlia quindicenne insieme ad una cugina perché chiedessero ai comandanti di lasciare libero il loro fratello, che era l’unico sostegno della famiglia. Le due ragazze intrapreso la strada di corsa, raggiungevano il comando tedesco e si presentavano agli ufficiali, reduci da casa nostra, piangendo. Ascoltato nostra sorella, l’ufficiale, che sembrava quello maggiore di grado rispetto agli altri, andava a parlottare con i colleghi e, dopo il consulto, ordinava ai subalterni di lasciarlo libero. Arrivarono a casa, con carro e buoi, quasi a mezzanotte. Altre mercanzie, che ha quei soldati non servivano più, ma molto utili a noi, erano state lasciate sul carro. Finiva così lo strazio dei nostri genitori e nostro. Finiva in modo felicissimo per tutti. Alcuni giorni dopo anche gli altri del gruppo, sequestrati a Groppo Visdomo, ritornavano a casa indenni: Poggi, Giovanni e Cella.
Conclusione: dovevamo essere “riconoscenti” verso quegli ufficiali? Non lo so. Quello che so è che altrove, a parità di condizioni, sono accaduti fatti di sangue gravissimi. Mi vien da credere che la storia, anche quella minuta, la fanno gli uomini: se sono buoni e intelligenti fanno una buona storia; se sono malvagi, o semplicemente stupidi, fanno una triste, brutale e dolorosa storia…
Conclusione: dovevamo essere “riconoscenti” verso quegli ufficiali? Non lo so. Quello che so è che altrove, a parità di condizioni, sono accaduti fatti di sangue gravissimi. Mi vien da credere che la storia, anche quella minuta, la fanno gli uomini: se sono buoni e intelligenti fanno una buona storia; se sono malvagi, o semplicemente stupidi, fanno una triste, brutale e dolorosa storia…
Prato Barbieri, frazione di Bettola. Durante la Guerra di Liberazione, qui avevano sede il comando operativo e le officine con il parco veicoli della Divisione "Val d'Arda" . Il comando era situato nell'Albergo Touring; l'edificio è tuttora esistente.
Le foto inserite in questa pagina appartengono agli archivi fotografici di Emanuele Bergonzi e Pierlino Bergonzi.
Pagina pubblicata il 06 giugno 2020
Pagina pubblicata il 06 giugno 2020