La Grande Guerra ad un secolo dal cruciale 1917
Un bilancio
di Romano Repetti
(Relazione alla conferenza dell’11 novembre 2017, organizzata dall’Anpi di Piacenza in collaborazione con l’Archivio di Stato di Piacenza)
Un bilancio
di Romano Repetti
(Relazione alla conferenza dell’11 novembre 2017, organizzata dall’Anpi di Piacenza in collaborazione con l’Archivio di Stato di Piacenza)
Foto sopra a sinistra: Soldati italiani varcano il confine tra il Regno d’Italia e l’Impero Austro-Ungarico il 24 maggio 1915 (immagine tratta da www.archivioirredentista.wordpress.com). Foto sopra a destra: soldati italiani in ritirata da Caporetto il 24 ottobre 1917.
1-La rotta di Caporetto
Cento anni fa, il 24 ottobre 1917, era comincia la grande offensiva dell’esercito austriaco integrato da sette divisioni tedesche di prima qualità, contro le forze italiane attestate sul fronte dell’Isonzo, un'offensiva che scompaginò e travolse l’esercito italiano, costretto ad arretrare per 150 chilometri lasciando nelle mani degli austro-tedeschi il Friuli e parte del Veneto.
La drammatica rotta italiana di Caporetto si concluse il 9 novembre sul nuovo fronte del Piave. L’esercito italiano vi perse quasi la metà dei suoi effettivi, lasciò nelle mani degli austriaci 280.000 prigionieri ed enormi quantità di equipaggiamenti ed armi, fa cui 3.150 cannoni. 350.000 furono i soldati sbandati, 40.000 i morti e feriti, mentre le perdite nelle fasi precedenti della guerra ammontavano già, fra morti, feriti gravi e prigionieri, ad oltre un milione di uomini, la gran parte dei quali vittime delle undici offensive sul fronte dell'Isonzo ordinate dal generale Cadorna.
La drammatica rotta italiana di Caporetto si concluse il 9 novembre sul nuovo fronte del Piave. L’esercito italiano vi perse quasi la metà dei suoi effettivi, lasciò nelle mani degli austriaci 280.000 prigionieri ed enormi quantità di equipaggiamenti ed armi, fa cui 3.150 cannoni. 350.000 furono i soldati sbandati, 40.000 i morti e feriti, mentre le perdite nelle fasi precedenti della guerra ammontavano già, fra morti, feriti gravi e prigionieri, ad oltre un milione di uomini, la gran parte dei quali vittime delle undici offensive sul fronte dell'Isonzo ordinate dal generale Cadorna.
All’avanzata in territorio italiano dei soldati austro-tedeschi fu presa dal panico anche la popolazione locale: più di 400.000 furono in quella circostanza i civili in fuga dalle province di Udine, Belluno, Venezia, Treviso e Vicenza. 6.416 di quei profughi giunsero a Piacenza. Anche la nostra provincia era stata dichiarata zona di guerra e le autorità civili dovevano sottostare alle disposizioni di quelle militari.
Le causa della rotta italiana di Caporetto furono in seguito individuate, anche da una apposita inchiesta ministeriale, sia nel fatto che, secondo la nuova tattica ideata e già sperimentata sul fronte orientale dallo Stato Maggiore tedesco, i reparti austro-tedeschi, invece di portare la loro offensiva, come si usava fare a quel tempo, sul lunghi tratti del fronte per respingerne indietro i reparti avversari appostati nelle trincee, avevano concentrato le loro forze per penetrare in due punti ristretti e da li si erano infiltrati in avanti alle spalle delle divisioni italiane, interrompendone i collegamenti e scompaginandone l’organizzazione; sia individuate nella deficienze dei comandi italiani, che, avendo puntato tutto su una strategia offensiva, non si erano preoccupati di fortificare il fronte anche sul terreno difensivo, di avere una vera seconda linea e adeguati reparti di riserva da mettere in campo in caso di necessità.
Le causa della rotta italiana di Caporetto furono in seguito individuate, anche da una apposita inchiesta ministeriale, sia nel fatto che, secondo la nuova tattica ideata e già sperimentata sul fronte orientale dallo Stato Maggiore tedesco, i reparti austro-tedeschi, invece di portare la loro offensiva, come si usava fare a quel tempo, sul lunghi tratti del fronte per respingerne indietro i reparti avversari appostati nelle trincee, avevano concentrato le loro forze per penetrare in due punti ristretti e da li si erano infiltrati in avanti alle spalle delle divisioni italiane, interrompendone i collegamenti e scompaginandone l’organizzazione; sia individuate nella deficienze dei comandi italiani, che, avendo puntato tutto su una strategia offensiva, non si erano preoccupati di fortificare il fronte anche sul terreno difensivo, di avere una vera seconda linea e adeguati reparti di riserva da mettere in campo in caso di necessità.
Il generale Cadorna, invece, già il 29 ottobre emise un comunicato con il quale attribuiva la responsabilità della disfatta ai soldati, scrivendo che "quelli della II Armata si erano vilmente ritirati senza combattere o si erano ignominiosamente arresi al nemico". Poi, il 2 novembre, nominò ispettore generale del movimento di sgombero il generale Andrea Graziani, il quale cominciò a girare nelle retrovie con potere illimitati, compresa la licenza di uccidere quei "vili soldati" responsabili della rotta. Il generale non perde tempo. Nel pomeriggio del 3 novembre fa fucilare un artigliere che a suo dire lo aveva guardato con atteggiamento sfrontato e con un sigaro in bocca; il 10 ordina la fucilazione nella schiena di 18 soldati e 3 civili a San Pelagio di Treviso, il 16 a Padova altri 32 militari e 6 borghesi sono messi al muro.
Nel territorio piacentino, considerato retrovia del fronte, vennero fatti confluire i resti di quella II Armata, che secondo Cadorna si era ritirata senza combattere, per essere riorganizzati nella nuova V Armata: il comando dell’armata s'insediò a Fiorenzuola, nel Castello di Gossolengo fu collocato il Tribunale di Guerra e circa 25.000 soldati vissero sparsi nelle campagna di diversi comuni, avendo come ricovero le cascine e le stalle. Secondo la ricostruzione che ne ha fatto ultimamente Ippolito Negri sulla rivista “L’Urtiga”, il Tribunale militare proseguì ad emettere sentenze di morte: due soldati accusati di diserzione vennero fucilati alla schiena, perché avevano tardato a ripresentarsi al loro reparto oltre i 30 giorni ammessi, altri due con motivazioni diverse furono uccisi dai rispettivi ufficiali, l’uno a Vigolo Marchese l’altro a Pieve Dugliara di Rivergaro e in questo caso il colpo mortale alla testa del soldato fu innescato dal fatto che questi "cantava una canzone che suonava atroce offesa al comandante suprema dell’esercito". L’ufficiale subì un breve processo per omicidio volontario ma fu completamente assolto ed il giornale Libertà apprezzò la sentenza, quello era il clima della guerra.
Nel territorio piacentino, considerato retrovia del fronte, vennero fatti confluire i resti di quella II Armata, che secondo Cadorna si era ritirata senza combattere, per essere riorganizzati nella nuova V Armata: il comando dell’armata s'insediò a Fiorenzuola, nel Castello di Gossolengo fu collocato il Tribunale di Guerra e circa 25.000 soldati vissero sparsi nelle campagna di diversi comuni, avendo come ricovero le cascine e le stalle. Secondo la ricostruzione che ne ha fatto ultimamente Ippolito Negri sulla rivista “L’Urtiga”, il Tribunale militare proseguì ad emettere sentenze di morte: due soldati accusati di diserzione vennero fucilati alla schiena, perché avevano tardato a ripresentarsi al loro reparto oltre i 30 giorni ammessi, altri due con motivazioni diverse furono uccisi dai rispettivi ufficiali, l’uno a Vigolo Marchese l’altro a Pieve Dugliara di Rivergaro e in questo caso il colpo mortale alla testa del soldato fu innescato dal fatto che questi "cantava una canzone che suonava atroce offesa al comandante suprema dell’esercito". L’ufficiale subì un breve processo per omicidio volontario ma fu completamente assolto ed il giornale Libertà apprezzò la sentenza, quello era il clima della guerra.
------------------------------------------------------------------
"Contro questi ignobili simulatori deve essere applicato, immediato ed esemplare, tutto il rigore delle leggi disciplinari e penali; ogni titubanza sarebbe interpretata come debolezza e non farebbe che allargare il nefasto contagio."
Cadorna, prevedendo il "fenomeno" del "rifiuto di morire" dei suoi soldati, in data 19 maggio 1915 emette la Circolare n° 6... il passo sopra riportato è indirizzato ai medici che dovevano stabilire l'idoneità al servizio.
In settembre Cadorna porta "migliorie" alla Circolare, autorizzando gli ufficiali e i Carabinieri Reali a punire con l’esecuzione sommaria i militari che si macchiavano di gravi reati:
"Deve ogni soldato esser certo di trovare, all’occorrenza, nel superiore il fratello od il padre, ma anche deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi. Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta a tutti: la via dell’onore, quella che porta alla vittoria od alla morte sulle linee avversarie; ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà, inesorabile, esemplare, immediata quella dei tribunali militari; ad infamia dei colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita."
Un mese dopo, nell’ottobre 1915 Cadorna apportò altre misure alla famigerata circolare (suggeritagli quasi certamente da Satana in persona), con questa nuova modifica impone di tirare sui reparti italiani, che hanno qualche incertezza negli assalti, con armi pesanti:
"Mentre la gran massa dell’Esercito si addimostra disciplinata e possente strumento di guerra nella mani dei capi, in qualche reparto si sono verificati casi di riluttanza e di esitazione nel compiere il proprio dovere, fuggendo in faccia al nemico. Affinché onta vergognosa di tanta abbiezione, non abbia ad appannare il fulgore dell’Esercito Italiano, e non venga a propagarsi il malo esempio, ordino di usare, senza restrizione, e con immediatezza esemplare provvedimenti più gravi, fino a quelli estremi, contro chiunque, e più di tutto contro chi tolleri ed anche contro interi reparti. Il Comando Supremo darà intero suo appoggio agli ufficiali di ogni grado che daranno in tali casi prove di fermezza e di salutare rigore et sanzionerà senza esitazione provvedimenti imposti dalle circostanze."
Nel mese successivo il Comando della 2ª Armata autorizzò il ricorso al fuoco d’artiglieria contro i reparti che si rifiutavano di andare all’attacco o che ripiegavano invece di avanzare.
-----------------------------------------------------------------
La disciplina militare era spietata. Una ricerca ha accertato che nel corso della guerra i tribunali militari emisero 170.064 condanne a carico dei soldati, di cui oltre 15 mila all’ergastolo e 4.028 a morte, di queste ne furono eseguite 750, ma vi furono almeno altri 500 casi di morte per giustizia sommaria immediata, inoltre molti altri casi di fucilazione sul posto non sono state registrati e attribuite al piombo austriaco.
Sembrava proprio che i poveri soldati italiani avessero di fronte una sola alternativa, o morire maciullati dalle mitraglie e dalle bombe austriache negli assalti senza speranza ai reticolati davanti alle trincee nemiche o essere freddati dalle scariche di fucili italiani perché colpevoli di voler evitare quella morte assurda. Una indicazione tattica data dal generale Cadorna ai comandanti dei reparti italiani era stata infatti questa:
“Si calcoli quanti uomini le mitragliatrici nemiche potranno abbattere e si mandi all’attacco un numero di uomini superiore, in tal modo qualcuno di essi potrà arrivare vivo a quelle mitragliatrici”.
Il compito di assicurare la disciplina nelle truppe e di impedirne sbandamenti nel corso degli attacchi era affidata all’arma dei carabinieri. Una circolare spiegava che i carabinieri dovevano piazzarsi sulle posizioni di prima linea e ovunque fosse possibile ai soldati sottrarsi al combattimento per respingere immediatamente sulle linee di fuoco coloro che esitavano o arretravano, “ricorrendo in caso di disubbidienza alle misure più estreme”, vale a dire alla fucilazione sul posto dei paurosi.
Uno dei sistemi adottati per punire i reparti messi sotto accusa per il loro comportamento era la decimazione: un certo numero di soldati venivano estratti a sorte e fucilati davanti al reparto. Riguardo a questa pratica l’esponente di Casa Savoia, Emanuele Filiberto, che era stato posto al comando della III Armata, il 1° novembre del ‘16 aveva diramato la circolare in cui era scritto:” Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi”. Colpevoli o non colpevoli: dunque, anche chi non aveva commesso alcuna infrazione e rischiata fino in fondo la vita di fronte al nemico poteva essere soggetto alla decimazione, estratto a sorte e fucilato.
L’ossessione che avevano gli alti comandi era il fenomeno della diserzione. Ed è vero che fu un fenomeno di una certa consistenza: risulta che dopo Caporetto alcuni sbandati si rifugiarono anche nelle parti alte dell’Appennino piacentino e riuscirono, con l’aiuto della popolazione locale, a sottrarsi alla cattura. Ed è vero che dopo l’ordine dato da Cadorna della ritirata dal fronte dell'Isonzo, questa si era trasformata in una rotta disordinata con fiumane di militari in fuga che si preoccupavano soltanto di trovare e attraversare i ponti sul Tagliamento verso la Val Padana. E siccome parte di quei ponti erano già stati fatti saltare, molti reparti, per aver salvo la vita, si lasciarono catturare dai nemici senza opporre resistenza. E’ vero dunque che a quel punto fra i soldati e anche fra molti ufficiali si era verificato un collasso morale, si era fatta strada l’dea di farla finita con quella guerra inumana. E vi fu infatti chi buttò via le proprie armi, chi inveì contro i propri comandanti, chi inneggiò alla pace. Il fatto è che lo sfondamento nemico, oltre ad evidenziare i gravi errori strategici e tattici del Comando italiano, aveva fatto da innesco all’esplosione di una situazione diventata umanamente intollerabile.
Sembrava proprio che i poveri soldati italiani avessero di fronte una sola alternativa, o morire maciullati dalle mitraglie e dalle bombe austriache negli assalti senza speranza ai reticolati davanti alle trincee nemiche o essere freddati dalle scariche di fucili italiani perché colpevoli di voler evitare quella morte assurda. Una indicazione tattica data dal generale Cadorna ai comandanti dei reparti italiani era stata infatti questa:
“Si calcoli quanti uomini le mitragliatrici nemiche potranno abbattere e si mandi all’attacco un numero di uomini superiore, in tal modo qualcuno di essi potrà arrivare vivo a quelle mitragliatrici”.
Il compito di assicurare la disciplina nelle truppe e di impedirne sbandamenti nel corso degli attacchi era affidata all’arma dei carabinieri. Una circolare spiegava che i carabinieri dovevano piazzarsi sulle posizioni di prima linea e ovunque fosse possibile ai soldati sottrarsi al combattimento per respingere immediatamente sulle linee di fuoco coloro che esitavano o arretravano, “ricorrendo in caso di disubbidienza alle misure più estreme”, vale a dire alla fucilazione sul posto dei paurosi.
Uno dei sistemi adottati per punire i reparti messi sotto accusa per il loro comportamento era la decimazione: un certo numero di soldati venivano estratti a sorte e fucilati davanti al reparto. Riguardo a questa pratica l’esponente di Casa Savoia, Emanuele Filiberto, che era stato posto al comando della III Armata, il 1° novembre del ‘16 aveva diramato la circolare in cui era scritto:” Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi”. Colpevoli o non colpevoli: dunque, anche chi non aveva commesso alcuna infrazione e rischiata fino in fondo la vita di fronte al nemico poteva essere soggetto alla decimazione, estratto a sorte e fucilato.
L’ossessione che avevano gli alti comandi era il fenomeno della diserzione. Ed è vero che fu un fenomeno di una certa consistenza: risulta che dopo Caporetto alcuni sbandati si rifugiarono anche nelle parti alte dell’Appennino piacentino e riuscirono, con l’aiuto della popolazione locale, a sottrarsi alla cattura. Ed è vero che dopo l’ordine dato da Cadorna della ritirata dal fronte dell'Isonzo, questa si era trasformata in una rotta disordinata con fiumane di militari in fuga che si preoccupavano soltanto di trovare e attraversare i ponti sul Tagliamento verso la Val Padana. E siccome parte di quei ponti erano già stati fatti saltare, molti reparti, per aver salvo la vita, si lasciarono catturare dai nemici senza opporre resistenza. E’ vero dunque che a quel punto fra i soldati e anche fra molti ufficiali si era verificato un collasso morale, si era fatta strada l’dea di farla finita con quella guerra inumana. E vi fu infatti chi buttò via le proprie armi, chi inveì contro i propri comandanti, chi inneggiò alla pace. Il fatto è che lo sfondamento nemico, oltre ad evidenziare i gravi errori strategici e tattici del Comando italiano, aveva fatto da innesco all’esplosione di una situazione diventata umanamente intollerabile.
Foto sopra: veduta aerea del villaggio di Passchendaele prima e dopo la Terza Battaglia d'Ypres, 1917
Questa atteggiamento dei Comandi nei confronti delle proprie truppe non caratterizzava solo l’esercito italiano, e l’esplosione del malessere dei soldati che si manifestò in occasione della ritirata di Caporetto non fu l’unica in quel 1917, terzo anno di guerra per l’Italia e già quarto anno per le altre maggiori nazioni europee. La strategia delle continue offensive senza risparmio di uomini, iniziata dalla Germania, era infatti comune a tutti gli eserciti.
Ad esempio in quell’ottobre del ’17, sul tratto di fronte delle Fiandre, sul quale era attestato l’esercito inglese contro quello tedesco, si era appena conclusa la cosiddetta Terza Battaglia d'Ypres, iniziata in luglio dagli inglesi, definita poi dagli storici “un monumento d'inutilità” perché aveva portato alla morte 340.000 soldati britannici e 202.000 tedeschi senza risultati significativi per nessuna delle parti.
Quanto al malessere fra i soldati, alle proteste, agli atti di rifiuto della guerra, va ricordato quanto era avvenuto già nel maggio-giugno del ’17 nell’esercito francese, quando decine di reggimenti rifiutarono di tornare in prima linea ed inneggiarono alla pace, una crisi gravissima che fece temere il collasso dell’intero esercito. Ci fu perfino un reparto che abbandonò il fronte e su autocarri si diresse verso Parigi per andare a chiedere al Governo che si facesse la pace con la Germania.
Me l’evento più significativo del 1917 fu la progressiva disgregazione dell’esercito russo, del quale i morti in guerra si contavano già a milioni, disgregazione che nel mese di febbraio produsse la fine del potere imperiale della dinastia dei Romanov e la proclamazione della Repubblica e più avanti, all’inizio di novembre, la rivoluzione bolscevica guidata da Lenin, il quale si affrettò poi ad aprire le trattative con la Germania per portare la Russia fuori dalla guerra, pur con enormi perdite territoriali.
A fianco di Francia Inghilterra e Italia arrivarono gli Stati Uniti d’America, intervento che fu decisivo per l’esito della guerra, per l’apporto materiale prima ancora che militare. Peraltro gli Stati Uniti, che al momento dello scoppio della guerra avevano in tutto un esercito di 25.000 uomini, riuscirono alla fine a schierarne in Europa circa due milioni. Erano scarsamente addestrati al tipo di guerra in atto, ma impararono in fretta e da questo intervento in Europa gli USA ricevettero lo stimolo a diventare in seguito oltre che la prima potenza economica pure la maggiore potenza militare del mondo.
Il 1917 è considerato un anno cruciale di svolta anche perché gli alti comandi militari ed i governi qualche cosa impararono dall’esplosiva condizione in cui avevano portato i loro eserciti. In Italia fu tra l’altro licenziato il generale Cadorna e sostituito con Armando Diaz, ci si attestò in un assetto difensivo sul fiume Piave e si evitarono per il seguito i sanguinosi ed inutili attacchi offensivi contro le linee nemiche, si comprese che i sodati non potevano essere considerati e trattati come degli automi pronti a scattare a qualsiasi comando venisse loro dato, migliorò il loro trattamento, si ridussero i periodi di presenza in prima linea, furono stabiliti turni certi per le licenze in famiglia, si promise che al ritorno a casa dopo la vittoria la loro condizione di cittadini sarebbe migliorata, addirittura che ai contadini senza terra sarebbe stata distribuita parte di quella dei grandi agrari.
Ad esempio in quell’ottobre del ’17, sul tratto di fronte delle Fiandre, sul quale era attestato l’esercito inglese contro quello tedesco, si era appena conclusa la cosiddetta Terza Battaglia d'Ypres, iniziata in luglio dagli inglesi, definita poi dagli storici “un monumento d'inutilità” perché aveva portato alla morte 340.000 soldati britannici e 202.000 tedeschi senza risultati significativi per nessuna delle parti.
Quanto al malessere fra i soldati, alle proteste, agli atti di rifiuto della guerra, va ricordato quanto era avvenuto già nel maggio-giugno del ’17 nell’esercito francese, quando decine di reggimenti rifiutarono di tornare in prima linea ed inneggiarono alla pace, una crisi gravissima che fece temere il collasso dell’intero esercito. Ci fu perfino un reparto che abbandonò il fronte e su autocarri si diresse verso Parigi per andare a chiedere al Governo che si facesse la pace con la Germania.
Me l’evento più significativo del 1917 fu la progressiva disgregazione dell’esercito russo, del quale i morti in guerra si contavano già a milioni, disgregazione che nel mese di febbraio produsse la fine del potere imperiale della dinastia dei Romanov e la proclamazione della Repubblica e più avanti, all’inizio di novembre, la rivoluzione bolscevica guidata da Lenin, il quale si affrettò poi ad aprire le trattative con la Germania per portare la Russia fuori dalla guerra, pur con enormi perdite territoriali.
A fianco di Francia Inghilterra e Italia arrivarono gli Stati Uniti d’America, intervento che fu decisivo per l’esito della guerra, per l’apporto materiale prima ancora che militare. Peraltro gli Stati Uniti, che al momento dello scoppio della guerra avevano in tutto un esercito di 25.000 uomini, riuscirono alla fine a schierarne in Europa circa due milioni. Erano scarsamente addestrati al tipo di guerra in atto, ma impararono in fretta e da questo intervento in Europa gli USA ricevettero lo stimolo a diventare in seguito oltre che la prima potenza economica pure la maggiore potenza militare del mondo.
Il 1917 è considerato un anno cruciale di svolta anche perché gli alti comandi militari ed i governi qualche cosa impararono dall’esplosiva condizione in cui avevano portato i loro eserciti. In Italia fu tra l’altro licenziato il generale Cadorna e sostituito con Armando Diaz, ci si attestò in un assetto difensivo sul fiume Piave e si evitarono per il seguito i sanguinosi ed inutili attacchi offensivi contro le linee nemiche, si comprese che i sodati non potevano essere considerati e trattati come degli automi pronti a scattare a qualsiasi comando venisse loro dato, migliorò il loro trattamento, si ridussero i periodi di presenza in prima linea, furono stabiliti turni certi per le licenze in famiglia, si promise che al ritorno a casa dopo la vittoria la loro condizione di cittadini sarebbe migliorata, addirittura che ai contadini senza terra sarebbe stata distribuita parte di quella dei grandi agrari.
2 - Le vittime e le sofferenze
Richiamati gli eventi del 1917, prima di passare ad esaminare alcuni aspetti più generali della guerra debbo precisare, anche rispetto agli approcci che hanno caratterizzato altre iniziative sulla Grande Guerra svoltesi negli ultimi anni a Piacenza, che lo scopo precipuo di questa ricostruzione è quello di cogliere ed evidenziare le conseguenze di un evento che ha segnato profondamente la vita e la storia del popolo italiano e degli altri popoli europei. Ma appunto per rendere ragione delle conseguenze nel loro complesso è indispensabile rimarcare innazitutto il quadro dei lutti, delle sofferenze e dei sacrifici che quella guerra impose ai popoli europei. E ciò, quindi, non solo per un dovere di memoria nei confronti dei caduti e dei combattenti.
Le conseguenza della guerra non furono soltanto quelle dipendenti dal fatto che dopo quattro anni ci furono degli sconfitti e dei vincitori e che i vincitori - Francia, Inghilterra e Italia con altri alleati di minor peso e l’apporto da ultimo degli USA - ridisegnarono la carta degli stati europei, ponendo fine a quattro dinastie e a quattro imperi - quello germanico, quello austro-ungarico, quello russo e quello turco-ottomano - creando, nella sola Europa, otto nuovi stati nazionali indipendenti costituiti sul principio di nazionalità - la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Polonia, la Finlandia, la Lettonia, la Lituania e l’Estonia - e realizzando quelle correzioni di confini a favore dei vincitori che riunirono all'Italia gli ultimi territori di popolazione italiana, quella delle provincia di Trento, di Trieste e di Gorizia, completando sotto questo aspetto il movimento risorgimentale, e per la verità anche territori con popolazione non italiana, ma tedesca in Alto Adige e slava in Istria.
Di conseguenze ve ne furono altre e profonde, come dirò più avanti, e queste discesero fondamentalmente dalle caratteristiche che la guerra aveva avuto, dal modo in cui fu gestita dai governi e dai comandi militari, dalla tremenda esperienza vissuta dai milioni di cittadini mobilitati come combattenti e dai duri sacrifici che furono imposti più in generale alle popolazioni dei paesi in guerra.
Capita ancora oggi di constatare che mentre gli spetti anche barbarici della Seconda guerra mondiale sono abbastanza noti ai cittadini, per la prima restano diffusamente sedimentate nella mente delle persone le reminiscenze scolastiche della sua rappresentazione quale evento sì molto sanguinoso ma con un esito infine positivo per l'Italia.
Oggi nelle scuola, con la riforma dei programmi di storia realizza dal ministro alla P.I. Luigi Berlinguer, dal 1998 lo studio di questa materia nel terzo anno delle medie inferiori e nel quinto di quelle superiori è dedicato esclusivamente alle vicende del Novecento, e quindi ora la storia della Prima guerra mondiale, cosi come quella del fascismo e della seconda, è affrontata con un discreto approfondimento e con angoli visuali aggiornati. Ma in precedenza la rappresentazione e memoria ufficiale della Grande Guerra era stata fissata in Italia sotto il regime fascista e da lì si era trasmessa nella cultura storica e nel senso comune anche delle generazioni posteriori a quel regime. E per il fascismo, che era nato proprio dall’esaltazione della guerra e dei combattenti, i caduti ad esempio venivano proposti come eroi che avevano sacrificato la loro vita per la patria a cui dedicare gl’innumerevoli monumenti che sono stati realizzati negli anni venti del secolo scorso, mai come vittime di un vortice infernale in cui i popoli erano stati precipitati dalle decisioni e dalle ambizioni di circoli ristretti di potere politico, intellettuale e militare, soggetti che a quel tempio si ritenevano ancora detentori delle prerogativa di disporre, in nome della patria, della vita del proprio popolo.
Dunque, almeno in occasione del centenario, fissiamolo bene il retaggio di vittime e di sofferenze di quel quadriennio 1915-1918, che peraltro, si può dire, aprì per gli italiani addirittura un trentennio di storia sotto il segno della violenza, fino al 1945.
Di conseguenze ve ne furono altre e profonde, come dirò più avanti, e queste discesero fondamentalmente dalle caratteristiche che la guerra aveva avuto, dal modo in cui fu gestita dai governi e dai comandi militari, dalla tremenda esperienza vissuta dai milioni di cittadini mobilitati come combattenti e dai duri sacrifici che furono imposti più in generale alle popolazioni dei paesi in guerra.
Capita ancora oggi di constatare che mentre gli spetti anche barbarici della Seconda guerra mondiale sono abbastanza noti ai cittadini, per la prima restano diffusamente sedimentate nella mente delle persone le reminiscenze scolastiche della sua rappresentazione quale evento sì molto sanguinoso ma con un esito infine positivo per l'Italia.
Oggi nelle scuola, con la riforma dei programmi di storia realizza dal ministro alla P.I. Luigi Berlinguer, dal 1998 lo studio di questa materia nel terzo anno delle medie inferiori e nel quinto di quelle superiori è dedicato esclusivamente alle vicende del Novecento, e quindi ora la storia della Prima guerra mondiale, cosi come quella del fascismo e della seconda, è affrontata con un discreto approfondimento e con angoli visuali aggiornati. Ma in precedenza la rappresentazione e memoria ufficiale della Grande Guerra era stata fissata in Italia sotto il regime fascista e da lì si era trasmessa nella cultura storica e nel senso comune anche delle generazioni posteriori a quel regime. E per il fascismo, che era nato proprio dall’esaltazione della guerra e dei combattenti, i caduti ad esempio venivano proposti come eroi che avevano sacrificato la loro vita per la patria a cui dedicare gl’innumerevoli monumenti che sono stati realizzati negli anni venti del secolo scorso, mai come vittime di un vortice infernale in cui i popoli erano stati precipitati dalle decisioni e dalle ambizioni di circoli ristretti di potere politico, intellettuale e militare, soggetti che a quel tempio si ritenevano ancora detentori delle prerogativa di disporre, in nome della patria, della vita del proprio popolo.
Dunque, almeno in occasione del centenario, fissiamolo bene il retaggio di vittime e di sofferenze di quel quadriennio 1915-1918, che peraltro, si può dire, aprì per gli italiani addirittura un trentennio di storia sotto il segno della violenza, fino al 1945.
Per avere un elemento di confronto teniamo presente che gli italiani morti per effetto della barbarica seconda guerra mondiale sulla popolazione del tempo di 45 milioni sono stati calcolati in circa 450.00 mila, compresi i caduti fascisti del regime di Salò, i 7.000 ebrei sterminati, i 40.00 caduti partigiani, i quasi 10.000 civili uccisi dalle rappresaglie nazi-fascisti e i 40.00 civili morti sotto i bombardamenti.
Nel 1915 gli italiani erano 37 milioni, entro il ‘18 ne furono arruolati per la guerra 5 milioni 450 mila (compreso Marina ed Aviazione), vale a dire, salvo 282 mila dispensati per il lavoro nelle aziende, tutti i maschi abili nati fra il 1974 e il 1900 - ben 27 classi - con età dai 18 al 44 anni: fu cioè mandata in guerra il 14,8 % della popolazione. (I mobilitati residenti nella provincia di Piacenza, secondo i calcoli effettuati dal personale dell’Archivio di Stato, sarebbero stati oltre 50.000, addirittura circa il 20% della popolazione del tempo).
I militari che hanno perso la vita in conseguenza della guerra, perché colpiti dalle armi o da malattie mortali contratte in trincea, vengono solitamente calcolati in 650 mila a cui sono però da aggiungere i 25 mila italiani della provincia di Trento e della Venezia Giulia caduti dall’altra parte del fronte perché ancora sudditi dell’impero austro-ungarico: dunque il 50% in più delle vittime totali della seconda guerra mondiale, compreso i civili. (4.819 i morti piacentini).
Va inoltre tenuto presente che anche quella guerra provocò innumerevoli vittime fra i civili: vi furono navi mercantili italiani affondate dai sottomarini tedeschi, bombardamenti navali austriaci sui centri abitati della costa adriatica, primi bombardamenti aerei sulle città, morti per causa della guerra nelle province occupate dopo Caporetto dall’esercito austro-tedesco e fra i 600 mila profughi da quelle province, nonché un aumento della mortalità fra la popolazione italiana per le dure condizioni di vita del tempo. E’ stata addirittura calcolata in 600.000 persone l’eccesso di mortalità fra la popolazione civile in conseguenza della guerra, di cui 300.000 decessi causati però direttamente dell’epidemia della cosiddetta “influenza spagnola” che dilagò inarrestabile all’inizio del 1918, e gli altri 300.000 per l’insieme delle altre cause citate.
Nel 1915 gli italiani erano 37 milioni, entro il ‘18 ne furono arruolati per la guerra 5 milioni 450 mila (compreso Marina ed Aviazione), vale a dire, salvo 282 mila dispensati per il lavoro nelle aziende, tutti i maschi abili nati fra il 1974 e il 1900 - ben 27 classi - con età dai 18 al 44 anni: fu cioè mandata in guerra il 14,8 % della popolazione. (I mobilitati residenti nella provincia di Piacenza, secondo i calcoli effettuati dal personale dell’Archivio di Stato, sarebbero stati oltre 50.000, addirittura circa il 20% della popolazione del tempo).
I militari che hanno perso la vita in conseguenza della guerra, perché colpiti dalle armi o da malattie mortali contratte in trincea, vengono solitamente calcolati in 650 mila a cui sono però da aggiungere i 25 mila italiani della provincia di Trento e della Venezia Giulia caduti dall’altra parte del fronte perché ancora sudditi dell’impero austro-ungarico: dunque il 50% in più delle vittime totali della seconda guerra mondiale, compreso i civili. (4.819 i morti piacentini).
Va inoltre tenuto presente che anche quella guerra provocò innumerevoli vittime fra i civili: vi furono navi mercantili italiani affondate dai sottomarini tedeschi, bombardamenti navali austriaci sui centri abitati della costa adriatica, primi bombardamenti aerei sulle città, morti per causa della guerra nelle province occupate dopo Caporetto dall’esercito austro-tedesco e fra i 600 mila profughi da quelle province, nonché un aumento della mortalità fra la popolazione italiana per le dure condizioni di vita del tempo. E’ stata addirittura calcolata in 600.000 persone l’eccesso di mortalità fra la popolazione civile in conseguenza della guerra, di cui 300.000 decessi causati però direttamente dell’epidemia della cosiddetta “influenza spagnola” che dilagò inarrestabile all’inizio del 1918, e gli altri 300.000 per l’insieme delle altre cause citate.
Soldati con il viso deturpato ricorrono alle maschere per riprendere una sembianza umana e ritornare alla "vita normale"...
www.rarehistoricalphotos.com/anna-coleman-ladd-masks-1918
www.rarehistoricalphotos.com/anna-coleman-ladd-masks-1918
E fra i militari non ci furono solo i morti, vi furono anche circa un milione di feriti gravi, la metà dei quali riportarono delle menomazioni permanenti: mutilati degli arti, ciechi, lesionati nel sistema nervoso, turbercolotici. E solo di recente è venuto alla luce il fenomeno dei cosiddetti “scemi di guerra”. Il fatto cioè che le allucinanti condizioni di vita nelle trincee, l’incessante pericolo della morte, le tensioni nell’attesa di uscire allo scoperto ad attaccare le linee nemiche, i frastuoni delle battaglie, finivano per superare ogni soglia di tollerabilità e provocarono sia centinaia di suicidi che lesioni psichiche irreversibili in decine di migliaia di soldati e negli stessi ufficiali. Finita la guerra alcune migliaia di quei disgraziati furono lasciati languire e morire nei manicomi.
Ma il fenomeno più macroscopico è rimasto in un cono d’ombra fino al 1992, quando è stato portato alla luce da una approfondita ricerca della storica Giuliana Procacci. Si tratta della condizione dei circa 600.000 mila militari italiani fatti prigionieri dagli austro-tedeschi .
Anche a seguito della Seconda guerra mondiale vi fu all’incirca lo stesso numero di soldati italiani catturati dai soldati di Hitler, deportati nei lager tedeschi e costretti al lavoro coatto. Riguardo a questi IMI ( internati militari italiani) sono stati scritti molti libri, è nata una apposita associazione, il nostro Ministero dell'Interno ha disposto e ancora assegna medaglie di benemerenza. Viene giudicato delittuoso il fatto che 50.000 non siano più tornati vivi in Italia, dei quali circa 35.000 morti per deperimento organico, perché lo stato nazista non assicurava loro una alimentazione sufficiente. Ebbene è stato calcolato che dei 600.000 italiani della guerra ’15-’18 non ne siano più tornati a casa circa 100.000, e che la stragrande maggioranza di questi siano morti per indigenza, per fame. Di questo drammatico fatto non si è parlato e scritto né subito dopo la fine della guerra né nei decenni successivi perché la responsabilità di quei 100 mila morti faceva capo non solo alle autorità austriache ma anche alle autorità politiche e militari dell'Italia. E’ da tener presente infatti che in conseguenza dell’isolamente in cui l’Austria-Ungheria e la Germania furono ridotte dalle potenze dell'Intesa, tramite in particolare la potente flotta inglese, per le popolazioni di quei due imperi incominciarono presto a scarseggiare le risorse alimentari e questa fu alla fine una della cause fondamentali del loro collasso anche militare nell’ottobre del ’18. Già alla fine del 1915 la Germania e l’Austria fecero presente che non erano in grado di assicurare ai prigionieri il minimo vitale previsto dalle convenzioni internazionali, ma che erano disponibili, sotto il controllo della Croce Rosa, a far pervenire loro i beni alimentari che fossero stati inviati dai paesi dei prigionieri.
Ma il fenomeno più macroscopico è rimasto in un cono d’ombra fino al 1992, quando è stato portato alla luce da una approfondita ricerca della storica Giuliana Procacci. Si tratta della condizione dei circa 600.000 mila militari italiani fatti prigionieri dagli austro-tedeschi .
Anche a seguito della Seconda guerra mondiale vi fu all’incirca lo stesso numero di soldati italiani catturati dai soldati di Hitler, deportati nei lager tedeschi e costretti al lavoro coatto. Riguardo a questi IMI ( internati militari italiani) sono stati scritti molti libri, è nata una apposita associazione, il nostro Ministero dell'Interno ha disposto e ancora assegna medaglie di benemerenza. Viene giudicato delittuoso il fatto che 50.000 non siano più tornati vivi in Italia, dei quali circa 35.000 morti per deperimento organico, perché lo stato nazista non assicurava loro una alimentazione sufficiente. Ebbene è stato calcolato che dei 600.000 italiani della guerra ’15-’18 non ne siano più tornati a casa circa 100.000, e che la stragrande maggioranza di questi siano morti per indigenza, per fame. Di questo drammatico fatto non si è parlato e scritto né subito dopo la fine della guerra né nei decenni successivi perché la responsabilità di quei 100 mila morti faceva capo non solo alle autorità austriache ma anche alle autorità politiche e militari dell'Italia. E’ da tener presente infatti che in conseguenza dell’isolamente in cui l’Austria-Ungheria e la Germania furono ridotte dalle potenze dell'Intesa, tramite in particolare la potente flotta inglese, per le popolazioni di quei due imperi incominciarono presto a scarseggiare le risorse alimentari e questa fu alla fine una della cause fondamentali del loro collasso anche militare nell’ottobre del ’18. Già alla fine del 1915 la Germania e l’Austria fecero presente che non erano in grado di assicurare ai prigionieri il minimo vitale previsto dalle convenzioni internazionali, ma che erano disponibili, sotto il controllo della Croce Rosa, a far pervenire loro i beni alimentari che fossero stati inviati dai paesi dei prigionieri.
Foto sopra: "Tessera per pacco misto", riservata ai famigliari per inviare viveri e vestiti ai loro cari prigionieri. In questo caso il prigioniero era Giuseppe, internato nella Baracca nr 51 di Mauthausen. Come si può notare la moglie Bruna inviava pacchi con regolarità... (Archivio Comune di Gropparello)
La forma tradizionale di aiuto erano i pacchi individuali spediti dai famigliari, ma questa era una soluzione parziale e problematico risultava anche il recapito dei pacchi, perché gli specifici destinatari andavano reperiti in una miriade di piccoli campi sparsi in tutto il territorio dell’impero austriaco. La Francia allora, che aveva anch’essa centinaia di migliaia di suoi soldati prigionieri in Germania, concordò l’invio generalizzato, tramite appositi convogli ferroviari, di generi alimentari, di vestiario e di medicine, per tutti i propri uomini, cosa che fece si che questi fossero meglio nutriti dei soldati che li custodivano. Gli stessi prigionieri russi ricevettero soccorsi alimentari. Le autorità italiane invece rifiutarono, salvo che per gli ufficiali, qualsiasi accordo per i prigionieri e qualsiasi aiuto alimentare; ritenevano anzi un bene che la condizione dei prigionieri fosse cosi tragica perché cosi, pensavano, ne sarebbero stati scoraggiati gli altri soldati italiani ad arrendersi. Dopo la rotta di Caporetto, e l’accusa ai soldati di essersi arresi senza combattere, le autorità militari italiane arrivarono addirittura a bloccare l’invio di pacchi da parte dei famigliari e a distruggere 17 tonnellate di corrispondenza. La conseguenza fu ad esempio che fra i prigionieri francesi vi fu un tasso di mortalità quasi fisiologico del 3%, fra gli italiani un tasso del 16,5 %.
E indescrivibile fu il dramma, la disperata condizioni dei soldati italiani particolarmente nell’ultimo anno di guerra. Anche di questo aspetto della guerra con l’avvento del fascismo non si poteva parlare. Tante cerimonie pubbliche ad esaltare la vittoria e gli eroi che avevano combattuto per la patria, mentre l’immenso dolore dei genitori, delle moglie, dei bambini che avevano perduto i loro cari doveva restare un fatto privato. La profonda differenza fra il secondo dopoguerra ed il primo nella considerazione pubblica delle perdite umane, delle vittime della guerra, lo rappresenta bene la vicende di una famiglia di Borgonovo Val Tidone, la famiglia d’origine della presidente della locale Sezione Anpi, Maria Razza, maestra elementare ora in pensione.
Maria ha avuto un fratello partigiano, Luigi, catturato dai tedeschi e deportato nel lager austriaco di Mauthausen dove morì il 21 aprile 1945, a 19 anni. A quella giovane vittima delle barbarie della seconda guerra mondiale è tuttora dedicata la scuola dell’infanzia di Borgonovo, e ancora nel gennaio scorso, nell’anniversario della cattura di Luigi e in occasione della Giornata della Memoria, l’Anpi ha organizzato a Borgonovo una apposita iniziativa pubblica. Vale a dire che quella vittima della guerra non è rimasta confinata nel dolore e nel ricordo dei famigliari, ma è stata ed è considerato dalla comunità quale misfatto di cui tenere viva la memoria, anche come monito per i tempi futuri. Ma nella famiglia paterna di Maria una più vasta tragedia era stata prodotta dalla prima guerra mondiale. Famiglia composta da un padre, una madre, tre figli maschi e una femmina. I tre maschi furono tutti arruolati per la guerra e due di essi fatti poi prigionieri dagli austriaci ed internati proprio nello stesso campo dove anni dopo sarebbe morto Luigi, quello di Mauthausen, che già esisteva. Un piccolo biglietto arancione ricevuto dai genitori, intestato “Austria 30 marzo 1917” e firmato dal figlio Ernesto - l’altro si chiamava Carlo – diceva:
“Vi do mie buone notizie di salute, cosi spero di tutti voi. Ho visto Carlo e stiamo bene tutti e due, ma vi prego di inviarci pane e altri generi di sostanza. Baci a voi, miei cari vecchi che tanti vi ricordo”.
Nessuno dei due prigionieri tornò vivo a casa. Carlo risulta deceduto in Austria il 7 marzo 1918, Ernesto il 14 ottobre dello stesso anno: lasciava vedova la giovane moglie. Un borgonovese tornato vivo dalla prigionia raccontò di aver visto uno dei due fratelli strappare e mangiare l’erba di un prato. Nel frattempo la sorella dei due, priva di assistenza medica, era morta di parto. La madre Carolina, che aveva così perso 3 figli su quattro, morì anche lei qualche tempo dopo di crepacuore. Una famiglia di sei persone distrutta e ridotta a due da quella guerra. Ma tutto ciò rimase confinato al dolore e alla memoria privata, quale fosse un semplice fatalità della vita. A scavare un po’ nel passato delle famiglie piacentine si troveranno migliaia di casi simili, di tragedia ed angosce prodotti dalla Grande Guerra.
E indescrivibile fu il dramma, la disperata condizioni dei soldati italiani particolarmente nell’ultimo anno di guerra. Anche di questo aspetto della guerra con l’avvento del fascismo non si poteva parlare. Tante cerimonie pubbliche ad esaltare la vittoria e gli eroi che avevano combattuto per la patria, mentre l’immenso dolore dei genitori, delle moglie, dei bambini che avevano perduto i loro cari doveva restare un fatto privato. La profonda differenza fra il secondo dopoguerra ed il primo nella considerazione pubblica delle perdite umane, delle vittime della guerra, lo rappresenta bene la vicende di una famiglia di Borgonovo Val Tidone, la famiglia d’origine della presidente della locale Sezione Anpi, Maria Razza, maestra elementare ora in pensione.
Maria ha avuto un fratello partigiano, Luigi, catturato dai tedeschi e deportato nel lager austriaco di Mauthausen dove morì il 21 aprile 1945, a 19 anni. A quella giovane vittima delle barbarie della seconda guerra mondiale è tuttora dedicata la scuola dell’infanzia di Borgonovo, e ancora nel gennaio scorso, nell’anniversario della cattura di Luigi e in occasione della Giornata della Memoria, l’Anpi ha organizzato a Borgonovo una apposita iniziativa pubblica. Vale a dire che quella vittima della guerra non è rimasta confinata nel dolore e nel ricordo dei famigliari, ma è stata ed è considerato dalla comunità quale misfatto di cui tenere viva la memoria, anche come monito per i tempi futuri. Ma nella famiglia paterna di Maria una più vasta tragedia era stata prodotta dalla prima guerra mondiale. Famiglia composta da un padre, una madre, tre figli maschi e una femmina. I tre maschi furono tutti arruolati per la guerra e due di essi fatti poi prigionieri dagli austriaci ed internati proprio nello stesso campo dove anni dopo sarebbe morto Luigi, quello di Mauthausen, che già esisteva. Un piccolo biglietto arancione ricevuto dai genitori, intestato “Austria 30 marzo 1917” e firmato dal figlio Ernesto - l’altro si chiamava Carlo – diceva:
“Vi do mie buone notizie di salute, cosi spero di tutti voi. Ho visto Carlo e stiamo bene tutti e due, ma vi prego di inviarci pane e altri generi di sostanza. Baci a voi, miei cari vecchi che tanti vi ricordo”.
Nessuno dei due prigionieri tornò vivo a casa. Carlo risulta deceduto in Austria il 7 marzo 1918, Ernesto il 14 ottobre dello stesso anno: lasciava vedova la giovane moglie. Un borgonovese tornato vivo dalla prigionia raccontò di aver visto uno dei due fratelli strappare e mangiare l’erba di un prato. Nel frattempo la sorella dei due, priva di assistenza medica, era morta di parto. La madre Carolina, che aveva così perso 3 figli su quattro, morì anche lei qualche tempo dopo di crepacuore. Una famiglia di sei persone distrutta e ridotta a due da quella guerra. Ma tutto ciò rimase confinato al dolore e alla memoria privata, quale fosse un semplice fatalità della vita. A scavare un po’ nel passato delle famiglie piacentine si troveranno migliaia di casi simili, di tragedia ed angosce prodotti dalla Grande Guerra.
Sono stati citati fin qui dati riguardanti l'Italia, ma la dimensione della guerra e della tragedia fu naturalmente europea ed andò anche aldilà dell’Europa. Ma limitando il discorso all'Europa, ecco il suo impatto militare sulla popolazione di questo continente:
● cittadini mobilitati e schierati in guerra negli opposti eserciti: 60.000.000;
● soldati ed ufficiali morti in seguito alla guerra: 9.000.000;
● feriti gravemente, metà dei quali con conseguenze permanenti: 21.000.000;
● prigionieri o dispersi: 7.700.000;
● percentuale di perdite sulle forze militari mobilitate: 58 %;
● vedove di militari caduti (circa): 3.000.000;
● giovani orfani di militari caduti (circa): 6.000.000;
● civili morti in dipendenza diretta della guerra o in conseguenza della stessa, per fame, malattie ed epidemie (circa): 7.500.000.
Riguardo poi agli orrori della guerra si può dire che lo sterminio durante la Seconda guerra mondiale di sei milioni di ebrei fu un fatto barbarico senza precedenti nella storia, cosi pure la mostruosità più generale dei lager nazisti, il trattamento usato verso milioni di prigionieri russi rinchiusi in reciti all’aperto e lasciati morire di fame e di freddo e le stragi gratuite di popolazioni civile che abbiamo conosciuto anche in Italia. Ma tutte le altre forme possibili di violenza contro gli avversari sono state sperimentate e messe in atto già nella prima guerra mondiale, compresa la fucilazione di soldati nemici appena catturati, la fucilazione della popolazione civile che appariva avversa agli occupanti, gli orrori dei campi di prigionia con la morte per fame ed il lavoro coatto, la violenza e gli stupri sulle donne. Fu attuato anche il primo genocidio su grande scala, quello di un milione di armeni. Guai a chi osava parlare di trattative di pace, fosse pure Papa Benedetto XV: ognuna delle due parti pretendeva di arrivare alla vittoria ad ogni costo, e ci provarono anche con il gas letale che bruciava i polmoni e faceva morire i soldati fra atroci dolori. Si doveva vincere ad ogni costo. Ed infatti la fine della guerra non avvenne perché vi fu uno dei contendenti che riconobbe ad un certo punto la sua sconfitta, ma avvenne dopo quattro anni di guerra solo in conseguenza del collasso, prima ancor che militare, economico-sociale della Germania e dell’Austria, paesi in cui la popolazione era ridotta a morire di fame.
● cittadini mobilitati e schierati in guerra negli opposti eserciti: 60.000.000;
● soldati ed ufficiali morti in seguito alla guerra: 9.000.000;
● feriti gravemente, metà dei quali con conseguenze permanenti: 21.000.000;
● prigionieri o dispersi: 7.700.000;
● percentuale di perdite sulle forze militari mobilitate: 58 %;
● vedove di militari caduti (circa): 3.000.000;
● giovani orfani di militari caduti (circa): 6.000.000;
● civili morti in dipendenza diretta della guerra o in conseguenza della stessa, per fame, malattie ed epidemie (circa): 7.500.000.
Riguardo poi agli orrori della guerra si può dire che lo sterminio durante la Seconda guerra mondiale di sei milioni di ebrei fu un fatto barbarico senza precedenti nella storia, cosi pure la mostruosità più generale dei lager nazisti, il trattamento usato verso milioni di prigionieri russi rinchiusi in reciti all’aperto e lasciati morire di fame e di freddo e le stragi gratuite di popolazioni civile che abbiamo conosciuto anche in Italia. Ma tutte le altre forme possibili di violenza contro gli avversari sono state sperimentate e messe in atto già nella prima guerra mondiale, compresa la fucilazione di soldati nemici appena catturati, la fucilazione della popolazione civile che appariva avversa agli occupanti, gli orrori dei campi di prigionia con la morte per fame ed il lavoro coatto, la violenza e gli stupri sulle donne. Fu attuato anche il primo genocidio su grande scala, quello di un milione di armeni. Guai a chi osava parlare di trattative di pace, fosse pure Papa Benedetto XV: ognuna delle due parti pretendeva di arrivare alla vittoria ad ogni costo, e ci provarono anche con il gas letale che bruciava i polmoni e faceva morire i soldati fra atroci dolori. Si doveva vincere ad ogni costo. Ed infatti la fine della guerra non avvenne perché vi fu uno dei contendenti che riconobbe ad un certo punto la sua sconfitta, ma avvenne dopo quattro anni di guerra solo in conseguenza del collasso, prima ancor che militare, economico-sociale della Germania e dell’Austria, paesi in cui la popolazione era ridotta a morire di fame.
3 – Come è stato possibile tutto questo?
Nel ripensare oggi alle caratteristiche della Prima guerra mondiale emerge dunque una questione, un interrogativo: come è stato possibile ai governi e alle classi dirigenti dei paesi europei ingaggiare e continuare per quattro anni una guerra di quel tipo, con decine di milioni di uomini costretti a vivere in quell’inferno, con centinaia di miglia di caduti mese dopo mese in battaglie mai risolutive, che non avvicinavano mai la fine della guerra? Eppure quei Paesi non erano nelle mani di dittatori - come avverrà con i paesi responsabili della Seconda guerra mondiale - quasi tutti, anche quelli come l'Italia ancora a regime monarchico, avevano dei governi a base parlamentare, parlamenti composti da esponenti dei partiti notabilari ottocenteschi di dottrina liberale, ma anche dei nuovi partiti di orientamento cattolico e socialista; avevano una stampa sostanzialmente libera, per quanto poi sottoposta a censura durante la guerra.
Una risposta sintetica a tale interrogativo la si può trovare nella considerazione che i ceti sociali popolari, da cui proveniva la massa dei soldati, il ceto dei contadini in particolare, non avevano ancora peso nelle vita politica dei paesi europei, le loro convinzioni e i loro sentimenti non avevano ancora voce perché la formazione dell’opinione pubblica, la cultura ed i valori che venivano trasmessi dal sistema scolastico e contrabbandati dalla stampa nazionale, erano ancora egemonizzati dai ceti dirigenti tradizionali: gli ambienti delle corti e della nobiltà, la grande borghesia industriale che vedeva nella guerra una occasione unica per realizzare grandi profitti, gli alti ufficiali degli eserciti che nella guerra potevano vedere l’occasione di più rapide promozioni, una certo mondo intellettuale, di giornalisti, scrittori, insegnanti, professionisti, che vedevano valorizzata la loro funzione nel sentirsi interpreti e diventare cantori dei “gloriosi destini nazionali”. E’ vero che negli anni precedenti la guerra erano cresciute anche le organizzazioni politiche e sindacali di una classe operaia che stava diventando sempre più numerosa, ed era propria la Germania ad avere nel ’14 il più forte partito socialista, ma queste organizzazioni costituivano un mondo un po’ a se, non riuscivano ancora ad avere una influenza nella formazione della cultura della nazione e quando si arriverà alla stretta della guerra anche queste organizzazioni si piegheranno al clima in atto, fino ad arrivare in alcuni casi ad aderire alla scelta di entrare in guerra. Lo stesso faranno le organizzazioni espressione del mondo cattolico.
Pensiamo a come avvenne l’ingresso dell'Italia nella guerra nel maggio del 1915. Si sa che non solo il mondo operaio socialista italiano ed il mondo cattolico erano contrari alla guerra, ma ne era contrario anche la maggioranza dei parlamentari che facevano riferimento al leader liberale Giovanni Giolitti. Esplicitamente favorevoli erano, oltre al re Vittorio Emanuele III, l’allora capo del governo Antonio Salandra ed il ministro degli esteri Sydeny Sonnino, nonché l’Associazione Nazionalista Italiana, un movimento che aveva nelle sue file anche esponenti dell’alta e media borghesia ma soprattutto intellettuali come Papini e Prezzolini i quali con le loro riviste influenzavano gli orientamenti politici di alcuni ambienti, in particolare di quelli universitari. Questo movimento alle elezioni nazionali del 1913 aveva ottenuto una rappresentanza in parlamento ma di solo cinque deputati. Questa parte d’interventisti, che possiamo collocare su una posizione di destra, sostenevano che l’Italia doveva in ogni caso mettersi in gioco nella grande guerra europea già scoppiata, magari anche a fianco di Germania ed Austria con la quale il nostro paese aveva in corso dal 1882 la Triplice Alleanza.
C’erano poi una serie di movimenti interventisti definiti democratici perché si rifacevano agli obiettivi del Risorgimento italiano, aspiravano a sottrarre all’Austria gli ultimi territori a popolazione italiana e, contro il rischio di una supremazia tedesca sull’Europa, sostenevano la necessita di affiancare nella guerra le potenze democratiche, Francia ed Inghilterra. Questi movimenti, fra cui stavano dei futuri antifascisti quali Gaetano Salvemini e Leonida Bissolati, erano collegati agli esponenti irredentisti che dal trentino e da Trieste si erano trasferiti nel Regno d’Italia a propagandare l’ingresso in guerra dell'Italia contro l’Austria; l’esponente più noto degli irredentisti era il deputato socialista nel Parlamento di Vienna Cesare Battisti, che venne anche a Piacenza, nel gennaio del ’15, a fare una conferenza a sostegno dell’entrata in guerra dell'Italia. Scommisero poi sulla guerra alcuni soggetti come lo scrittore Gabriele d’Annunzio e l’agitatore e giornalista Benito Mussolini i quali vedevano in essa la grande occasione per diventare dei leader spirituali e politici delle masse. Mussolini, dimessosi dalla direzione dell’Avanti ed espulso dal Psi, ebbe dai francesi e dal Gruppo Ansaldo di Genova, grande produttore di armamenti, i sostegni finanziari per pubblicare il Popolo d’Italia, che fu il quotidiano di riferimento degli interventisti.
Una risposta sintetica a tale interrogativo la si può trovare nella considerazione che i ceti sociali popolari, da cui proveniva la massa dei soldati, il ceto dei contadini in particolare, non avevano ancora peso nelle vita politica dei paesi europei, le loro convinzioni e i loro sentimenti non avevano ancora voce perché la formazione dell’opinione pubblica, la cultura ed i valori che venivano trasmessi dal sistema scolastico e contrabbandati dalla stampa nazionale, erano ancora egemonizzati dai ceti dirigenti tradizionali: gli ambienti delle corti e della nobiltà, la grande borghesia industriale che vedeva nella guerra una occasione unica per realizzare grandi profitti, gli alti ufficiali degli eserciti che nella guerra potevano vedere l’occasione di più rapide promozioni, una certo mondo intellettuale, di giornalisti, scrittori, insegnanti, professionisti, che vedevano valorizzata la loro funzione nel sentirsi interpreti e diventare cantori dei “gloriosi destini nazionali”. E’ vero che negli anni precedenti la guerra erano cresciute anche le organizzazioni politiche e sindacali di una classe operaia che stava diventando sempre più numerosa, ed era propria la Germania ad avere nel ’14 il più forte partito socialista, ma queste organizzazioni costituivano un mondo un po’ a se, non riuscivano ancora ad avere una influenza nella formazione della cultura della nazione e quando si arriverà alla stretta della guerra anche queste organizzazioni si piegheranno al clima in atto, fino ad arrivare in alcuni casi ad aderire alla scelta di entrare in guerra. Lo stesso faranno le organizzazioni espressione del mondo cattolico.
Pensiamo a come avvenne l’ingresso dell'Italia nella guerra nel maggio del 1915. Si sa che non solo il mondo operaio socialista italiano ed il mondo cattolico erano contrari alla guerra, ma ne era contrario anche la maggioranza dei parlamentari che facevano riferimento al leader liberale Giovanni Giolitti. Esplicitamente favorevoli erano, oltre al re Vittorio Emanuele III, l’allora capo del governo Antonio Salandra ed il ministro degli esteri Sydeny Sonnino, nonché l’Associazione Nazionalista Italiana, un movimento che aveva nelle sue file anche esponenti dell’alta e media borghesia ma soprattutto intellettuali come Papini e Prezzolini i quali con le loro riviste influenzavano gli orientamenti politici di alcuni ambienti, in particolare di quelli universitari. Questo movimento alle elezioni nazionali del 1913 aveva ottenuto una rappresentanza in parlamento ma di solo cinque deputati. Questa parte d’interventisti, che possiamo collocare su una posizione di destra, sostenevano che l’Italia doveva in ogni caso mettersi in gioco nella grande guerra europea già scoppiata, magari anche a fianco di Germania ed Austria con la quale il nostro paese aveva in corso dal 1882 la Triplice Alleanza.
C’erano poi una serie di movimenti interventisti definiti democratici perché si rifacevano agli obiettivi del Risorgimento italiano, aspiravano a sottrarre all’Austria gli ultimi territori a popolazione italiana e, contro il rischio di una supremazia tedesca sull’Europa, sostenevano la necessita di affiancare nella guerra le potenze democratiche, Francia ed Inghilterra. Questi movimenti, fra cui stavano dei futuri antifascisti quali Gaetano Salvemini e Leonida Bissolati, erano collegati agli esponenti irredentisti che dal trentino e da Trieste si erano trasferiti nel Regno d’Italia a propagandare l’ingresso in guerra dell'Italia contro l’Austria; l’esponente più noto degli irredentisti era il deputato socialista nel Parlamento di Vienna Cesare Battisti, che venne anche a Piacenza, nel gennaio del ’15, a fare una conferenza a sostegno dell’entrata in guerra dell'Italia. Scommisero poi sulla guerra alcuni soggetti come lo scrittore Gabriele d’Annunzio e l’agitatore e giornalista Benito Mussolini i quali vedevano in essa la grande occasione per diventare dei leader spirituali e politici delle masse. Mussolini, dimessosi dalla direzione dell’Avanti ed espulso dal Psi, ebbe dai francesi e dal Gruppo Ansaldo di Genova, grande produttore di armamenti, i sostegni finanziari per pubblicare il Popolo d’Italia, che fu il quotidiano di riferimento degli interventisti.
Questo coacervo di soggetti, che sarà definito il partito della guerra, rappresentava comunque una minoranza degli italiani, ma fu una minoranza molto rumorosa, si mobilitò nelle piazze riuscendo in particolare a coinvolgere gli studenti e, favorita e protetta dagli organi di polizia dello stato, passò anche ad aggredire le opposte manifestazione dei pacifisti, giungendo addirittura, nel maggio del ’15, ad occupare e devastare la sede della Camera dei deputati. In sostanza costoro costituirono la copertura popolare al colpo di mano che venne infine compiuto, al momento della dichiarazione di guerra all’Austria, dal re, da Sonnino e da Salandra, contro la volontà del parlamento, il quale finì il 23 maggio per piegare la testa e votare a grande maggioranza i crediti di guerra .
Una annotazione su Piacenza. Si può dire che la popolazione della nostra provincia era nettamente contro la guerra; lo stesso giornale Libertà, su posizioni giolittiane, auspicava che l'Italia se ne tenesse fuori, approfittando della situazione per acquisire Trento e Trieste tramite la trattativa a cui l’Austria si era disposta su pressione della Germania. A Piacenza apertamente favorevoli alla guerra erano i pochi membri dell’Associazione Nazionalista e si ebbe a favore anche, il 5 maggio del ‘15, uno sciopero/manifestazione di studenti delle scuole superiori, che fu rintuzzato da un altro corteo pacifista di operai: furono in particolare le bottonaie ad affrontare e a venire alle mani con gli studenti. Scoppiata la guerra anche Libertà ne fu sostenitrice, come peraltro tutta la stampa italiana esclusa quella socialista che subì fra l’altro sabotaggi alla distribuzione nelle edicole da parte degli interventisti, oltre che l’intervento della censura in conseguenza della quale il quotidiano Avanti! uscirà spesso con larghi spazi bianchi.
Va detto che gli stati maggiori degli eserciti ed i governi europei, sulla base delle esperienze ottocentesche, ritenevano che la guerra si sarebbe risolta, con la propria vittoria, in pochi mesi, convinzioni che non ne alleggeriscono la responsabilità ma ne evidenziano piuttosto la cecità, di non comprendere che i tempi, le tecnologie militari ma anche le forme di coinvolgimento dei paesi e dei popoli erano cambiate. Avrebbero dovuto sapere che quando si armano e si schierano milioni di uomini e si mobilitano anche gli spiriti della popolazione civile, è poco probabile che uno dei due contendenti sia disponibile a dichiararsi sconfitto dopo aver perso qualche battaglia. Una tale leggerezza e sottovalutazione evidenzia che quei gruppi dirigenti non erano più all’altezza delle loro funzioni e non per caso la Prima Guerra Mondiale segnerà la fine di una serie di dinastie ed anche delle funzione dominate del ceto nobiliare e di quello notabilare, il quale aveva avuto un grande ruolo nella storia dell’Ottocento
E indubbiamente grande incoscienza in coloro che portarono anche l'Italia nella guerra perché nel maggio del ’15, dopo dieci mesi dal suo inizio, ne erano già ben evidenti le caratteristiche: fra l’altro era già avvenuto lo sfondamento dell’esercito tedesco in Francia dal Nord, attraverso la plateale violazione della neutralità del Belgio, ma era già avvenuta anche la battaglia della Marna con la quale l’esercito francese aveva infine arginato quell’avanzata, con una perdita complessiva, già in quei primi mesi, di mezzo milione di uomini e con una stabilizzazione del fronte occidentale che non si sarebbe sostanzialmente più spostato fino all’estate del 1918, nonostante i ripetuti e sanguinosi assalti dall’una e dall’altra parte.
Per quanto riguarda gl’interventisti democratici italiani, il fenomeno dell’arruolamento volontario fra i combattenti - che fra l’arruolamento iniziale nella Legione straniera francese, quello degli irredentisti trentini e giuliani e quello degli italiani senza obbligo di leva, è stato calcolato sui 15.000 aderenti - nonché l’ardore e lo spirito personale di sacrificio con cui arrivarono nelle trincee giovani ufficiali di complemento, si può capire ed apprezzare l’intento di completare il Risorgimento italiano con l’annessione di Trento e Trieste e la stessa preoccupazione che gli imperi tedesco ed austriaco arrivassero con una loro vittoria a dominare l’Europa. Ma ciò di cui anche loro si resero conto troppo tardi è che una guerra con le caratteristiche che andava assumendo quella iniziata nell’agosto del ‘14 non avrebbe in ogni caso esaltato e favorito per i popoli i diritti della giustizia ed i valori della libertà e della democrazia, ma avrebbe invece scatenato gli istinti e le ambizioni di potenza, di sopraffazione e di dominio.
Una annotazione su Piacenza. Si può dire che la popolazione della nostra provincia era nettamente contro la guerra; lo stesso giornale Libertà, su posizioni giolittiane, auspicava che l'Italia se ne tenesse fuori, approfittando della situazione per acquisire Trento e Trieste tramite la trattativa a cui l’Austria si era disposta su pressione della Germania. A Piacenza apertamente favorevoli alla guerra erano i pochi membri dell’Associazione Nazionalista e si ebbe a favore anche, il 5 maggio del ‘15, uno sciopero/manifestazione di studenti delle scuole superiori, che fu rintuzzato da un altro corteo pacifista di operai: furono in particolare le bottonaie ad affrontare e a venire alle mani con gli studenti. Scoppiata la guerra anche Libertà ne fu sostenitrice, come peraltro tutta la stampa italiana esclusa quella socialista che subì fra l’altro sabotaggi alla distribuzione nelle edicole da parte degli interventisti, oltre che l’intervento della censura in conseguenza della quale il quotidiano Avanti! uscirà spesso con larghi spazi bianchi.
Va detto che gli stati maggiori degli eserciti ed i governi europei, sulla base delle esperienze ottocentesche, ritenevano che la guerra si sarebbe risolta, con la propria vittoria, in pochi mesi, convinzioni che non ne alleggeriscono la responsabilità ma ne evidenziano piuttosto la cecità, di non comprendere che i tempi, le tecnologie militari ma anche le forme di coinvolgimento dei paesi e dei popoli erano cambiate. Avrebbero dovuto sapere che quando si armano e si schierano milioni di uomini e si mobilitano anche gli spiriti della popolazione civile, è poco probabile che uno dei due contendenti sia disponibile a dichiararsi sconfitto dopo aver perso qualche battaglia. Una tale leggerezza e sottovalutazione evidenzia che quei gruppi dirigenti non erano più all’altezza delle loro funzioni e non per caso la Prima Guerra Mondiale segnerà la fine di una serie di dinastie ed anche delle funzione dominate del ceto nobiliare e di quello notabilare, il quale aveva avuto un grande ruolo nella storia dell’Ottocento
E indubbiamente grande incoscienza in coloro che portarono anche l'Italia nella guerra perché nel maggio del ’15, dopo dieci mesi dal suo inizio, ne erano già ben evidenti le caratteristiche: fra l’altro era già avvenuto lo sfondamento dell’esercito tedesco in Francia dal Nord, attraverso la plateale violazione della neutralità del Belgio, ma era già avvenuta anche la battaglia della Marna con la quale l’esercito francese aveva infine arginato quell’avanzata, con una perdita complessiva, già in quei primi mesi, di mezzo milione di uomini e con una stabilizzazione del fronte occidentale che non si sarebbe sostanzialmente più spostato fino all’estate del 1918, nonostante i ripetuti e sanguinosi assalti dall’una e dall’altra parte.
Per quanto riguarda gl’interventisti democratici italiani, il fenomeno dell’arruolamento volontario fra i combattenti - che fra l’arruolamento iniziale nella Legione straniera francese, quello degli irredentisti trentini e giuliani e quello degli italiani senza obbligo di leva, è stato calcolato sui 15.000 aderenti - nonché l’ardore e lo spirito personale di sacrificio con cui arrivarono nelle trincee giovani ufficiali di complemento, si può capire ed apprezzare l’intento di completare il Risorgimento italiano con l’annessione di Trento e Trieste e la stessa preoccupazione che gli imperi tedesco ed austriaco arrivassero con una loro vittoria a dominare l’Europa. Ma ciò di cui anche loro si resero conto troppo tardi è che una guerra con le caratteristiche che andava assumendo quella iniziata nell’agosto del ‘14 non avrebbe in ogni caso esaltato e favorito per i popoli i diritti della giustizia ed i valori della libertà e della democrazia, ma avrebbe invece scatenato gli istinti e le ambizioni di potenza, di sopraffazione e di dominio.
4 - Le conseguenze
Esaminiamo infine gli effetti della guerra sulla storia dell’Europa e sulla vita dei popoli europei.
La guerra nell’immediato produsse anche immane distruzioni materiali nei territori investiti, il dissesto finanziario degli stati che dovettero contrarre enormi debiti, in particolare con gli USA, per sostenere massicce importazioni di beni dall’estero: ne conseguì per l'Italia una inflazione di oltre il 400% e quindi il quadruplicamento del costo della vita e la falcidia dei patrimoni dei piccoli risparmiatori e dei redditi fissi, mentre invece con le forniture di guerra erano cresciuti e avevano realizzato enormi profitti molti gruppi industriali e avevano guadagnato bene anche i grandi agrari. La necessaria riconversione industriale dopo la guerra provocò inoltre molti disoccupati, oltre a rimandare a casa tutte quelle donne che erano state assunte nelle aziende a sostituire i maschi arruolati per la guerra.
La guerra produsse una forte accelerazione dei processi di modernizzazione tecnologica, in particolare riguardo alla produzione di nuove armi di distruzione, con lo sviluppo dell’aviazione e l’avvio della produzione dei carri armati, gli strumenti micidiali che avrebbero contraddistinto la Seconda guerra mondiale.
Un esito significativo della guerra fu naturalmente quello già del già ricordato ridisegno da parte dei vincitori della carta europea degli stati. Questo aspetto fu quello gestito direttamente dai vertici politici e militari che avevano portato i Paesi in guerra. Le decisioni furono la risultante di un compromesso fra vecchie visione di potenza e dominio e il riconoscimento del diritto di autodeterminazioni delle popolazioni sostenuto in particolare dal presidente degli USA Woodrow Wilson.
Con i trattati di pace venne anche attribuita solo alla Germania e all’Austria la responsabilità della guerra e vennero loro imposte, in specifico alla Germania, le riparazioni di guerra, cioè il rimborso ai paesi vincitori di tutti i costi a cui questi andavano incontro a seguito della guerra, un importo esorbitante impossibile da sostenere nella sua totalità da parte del popolo tedesco: e sarà questo uno degli elementi su cui farà leva Hitler per l’ascesa del nazismo al potere.
Ma la guerra produsse degli effetti ancora più rilevanti per la successiva storia e vita dei popoli europei perché quell’enorme mobilitazione di uomini sui diversi fronti, gli immensi lutti e le sofferenze patite dai soldati e dalle loro famiglie, i grandi sacrifici imposti più in generale alle popolazione dei paesi in guerra, determinarono, nella Russia già nel 1917 e subito dopo la guerra nel resto delle nazioni, sia quelle sconfitte sia quelle vincitrice, profondi sommovimenti sociali e politici che furono definiti quale “ingresso delle masse nella storia”. Sommovimenti che investirono non solo i vertici del potere politico responsabili di aver portato i popoli in quell’inferno, ma anche i vecchi assetti economici e sociali delle nazioni.
Si ebbe dunque nel dopoguerra una esplosione di malcontento e di agitazioni sociali. Crebbero gli aderenti e la forza delle organizzazioni sindacali, ma nacquero anche organizzazioni e movimenti diversi da quelli tradizionali, che non esitavano anche a far ricorso alla violenza, violenza ai cui la guerra aveva addestrato e abituato milioni di uomini. La vita politica cambiò profondamente.
I vecchi ceti dirigenti dovettero innazitutto riconoscere che non si poteva più limitare il suffragio elettorale. In Italia nel ’19 fu esteso a tutti i maschi che avessero raggiunto i 21 anni e a tutti gli ex combattenti anche più giovani. Si previde per futuro anche l’estensione del voto alle donne e si introdusse il sistema elettorale proporzionale. Il suffragio universale maschile si generalizzò in Europa e alcuni paesi fra cui Gran Bretagna e Germania introdussero anche il suffragio femminile.
I partiti incominciarono a diventare delle organizzazioni con centinaia di miglia di iscritti ed andarono quindi in crisi i vecchi partiti di notabili. Le masse insomma con le loro rivendicazioni incominciarono a farsi sentire in campo sociale ed in campo politico.
La guerra nell’immediato produsse anche immane distruzioni materiali nei territori investiti, il dissesto finanziario degli stati che dovettero contrarre enormi debiti, in particolare con gli USA, per sostenere massicce importazioni di beni dall’estero: ne conseguì per l'Italia una inflazione di oltre il 400% e quindi il quadruplicamento del costo della vita e la falcidia dei patrimoni dei piccoli risparmiatori e dei redditi fissi, mentre invece con le forniture di guerra erano cresciuti e avevano realizzato enormi profitti molti gruppi industriali e avevano guadagnato bene anche i grandi agrari. La necessaria riconversione industriale dopo la guerra provocò inoltre molti disoccupati, oltre a rimandare a casa tutte quelle donne che erano state assunte nelle aziende a sostituire i maschi arruolati per la guerra.
La guerra produsse una forte accelerazione dei processi di modernizzazione tecnologica, in particolare riguardo alla produzione di nuove armi di distruzione, con lo sviluppo dell’aviazione e l’avvio della produzione dei carri armati, gli strumenti micidiali che avrebbero contraddistinto la Seconda guerra mondiale.
Un esito significativo della guerra fu naturalmente quello già del già ricordato ridisegno da parte dei vincitori della carta europea degli stati. Questo aspetto fu quello gestito direttamente dai vertici politici e militari che avevano portato i Paesi in guerra. Le decisioni furono la risultante di un compromesso fra vecchie visione di potenza e dominio e il riconoscimento del diritto di autodeterminazioni delle popolazioni sostenuto in particolare dal presidente degli USA Woodrow Wilson.
Con i trattati di pace venne anche attribuita solo alla Germania e all’Austria la responsabilità della guerra e vennero loro imposte, in specifico alla Germania, le riparazioni di guerra, cioè il rimborso ai paesi vincitori di tutti i costi a cui questi andavano incontro a seguito della guerra, un importo esorbitante impossibile da sostenere nella sua totalità da parte del popolo tedesco: e sarà questo uno degli elementi su cui farà leva Hitler per l’ascesa del nazismo al potere.
Ma la guerra produsse degli effetti ancora più rilevanti per la successiva storia e vita dei popoli europei perché quell’enorme mobilitazione di uomini sui diversi fronti, gli immensi lutti e le sofferenze patite dai soldati e dalle loro famiglie, i grandi sacrifici imposti più in generale alle popolazione dei paesi in guerra, determinarono, nella Russia già nel 1917 e subito dopo la guerra nel resto delle nazioni, sia quelle sconfitte sia quelle vincitrice, profondi sommovimenti sociali e politici che furono definiti quale “ingresso delle masse nella storia”. Sommovimenti che investirono non solo i vertici del potere politico responsabili di aver portato i popoli in quell’inferno, ma anche i vecchi assetti economici e sociali delle nazioni.
Si ebbe dunque nel dopoguerra una esplosione di malcontento e di agitazioni sociali. Crebbero gli aderenti e la forza delle organizzazioni sindacali, ma nacquero anche organizzazioni e movimenti diversi da quelli tradizionali, che non esitavano anche a far ricorso alla violenza, violenza ai cui la guerra aveva addestrato e abituato milioni di uomini. La vita politica cambiò profondamente.
I vecchi ceti dirigenti dovettero innazitutto riconoscere che non si poteva più limitare il suffragio elettorale. In Italia nel ’19 fu esteso a tutti i maschi che avessero raggiunto i 21 anni e a tutti gli ex combattenti anche più giovani. Si previde per futuro anche l’estensione del voto alle donne e si introdusse il sistema elettorale proporzionale. Il suffragio universale maschile si generalizzò in Europa e alcuni paesi fra cui Gran Bretagna e Germania introdussero anche il suffragio femminile.
I partiti incominciarono a diventare delle organizzazioni con centinaia di miglia di iscritti ed andarono quindi in crisi i vecchi partiti di notabili. Le masse insomma con le loro rivendicazioni incominciarono a farsi sentire in campo sociale ed in campo politico.
Si determinarono in Europa due diverse situazioni. Gli stati con regimi parlamentari e sistemi democratici consolidati, che erano essenzialmente la Francia e la Gran Bretagna più alcuni minori come il Belgio, ressero all’urto, furono in grado di recepire il nuovo protagonismo politico delle masse, anche attraverso ricambi di direzione politica: la Gran Bretagna ebbe nel 1924 un primo presidente del consiglio proveniente dal Partito laburista. Ma in questi paesi un’altra conseguenza derivò dall’esperienza della guerra. Va tenuto conto che sul fronte francese-belga, su cui era impegnato anche l’esercito della Gran Bretagna, la guerra, per il modo in cui fu condotta, senza preoccuparsi delle perdite umane, fu ancor più sanguinosa che sul fronte italiano: 910.000 morti e 2.100.000 feriti per la Gran Bretagna, 1.357.000 morti e 4.266.000 feriti per la Francia. I due paesi esaltarono la vittoria e organizzarono grandi onoranze ai loro caduti, ma nei due popoli maturò un netto sentimento di rifiuto a nuove guerre di quel tipo, sentimento di cui i loro parlamenti e governi dovettero tener conto. Francia ed Inghilterra in tempi più vicini a noi sono state accusate di non aver fermato per tempo Hitler, di aver subito il vergognoso accordo di Monaco del 1938 che permise alla Germania nazista, dopo aver già incorporato l’Austria, di invadere ed annettersi anche la Cecoslovacchia. E si è anche osservato che dopo l’invasione tedesca della Polonia, il 1° settembre del ’39, quei due paesi dichiararono finalmente guerra alla Germania ma i loro eserciti di terra rimasero passivi fino a che fu la Germania stessa, nel maggio del ’40, ad invadere la Francia. Ma il fatto è che il popolo francese e quello inglese continuavano ad essere nettamente contrari ad nuova sanguinosa guerra contro la Germania come era stato quella del ’14-’18. E quando la nuova guerra europea entrò nel vivo un imperativo dei comandi militari della Gran Bretagna e della Francia fu quello di contenere le perdite fra i loro soldati, di evitare operazioni offensive azzardate. I comandi militari francesi non furono più in grado di organizzare una battaglia della Marna a difesa di Parigi come avevano fatto nel ’14 e l’esercito tedesco dilagò facilmente nel paese. Poi certo vi fu la nascita della resistenza e la riscossa a partire dallo sbarco anglo-americano in Normandia del giugno ’44, ma si tenga presente un dato: rispetto al milione e 357 mila militari francesi che persero la vita nella Prima guerra mondiale nella Seconda furono soltanto 250.000 e i morti raggiunsero la cifra di circa 800.000 comprendendo la popolazione civile vittima delle repressioni naziste e dei bombardamenti. L'Inghilterra, che fu la grande protagonista della Seconda guerra contro la Germania, stando in campo dal primo all’ultimo giorno e su vari fronti, compreso quello italiano, rispetto ai 910.000 caduti militari della prima ne ebbe in tutto un po’ meno di 300 mila nella seconda, a cui vanno sommate circa 450 mila vittime civili. Possiamo dire che invece la Seconda guerra mondiale si combatté nelle forme della prima sul fronte orientale, cioè senza risparmio di vite umane da parte dei sovietici, che fu peraltro il modo cui riuscirono a sconfiggere l’esercito tedesco.
Si deve anche aggiungere che, se a seguito della vittoria l'Inghilterra e la Francia si divisero le colonie tedesche in Africa e i paesi appartenuti all’impero ottomano - Iraq, Siria, Libano e Palestina - dopo la prima guerra mondiale nei loro imperi coloniali cominciarono a manifestarsi segni di crisi, sia in conseguenza della nascita di movimenti indipendentisti, sia anche per il fatto che fu meno semplice, per reprimere quei movimenti, impiegare i soldati inglesi e francesi con la spietatezza del passato.
Quanto sopra riguardo ai paesi con solidi regimi parlamentari e democratici. Per il resto dell’Europa le conseguenze della guerra furono più complesse o addirittura deflagranti.
Nella grande Russia, come ho già ricordato, sulla disgregazione dell’esercito e sulle sofferenze delle popolazione si innestò un processo rivoluzionario che condusse alla leniniana Repubblica dei Soviet, di cui ricorre in questi giorni il centenario, e più avanti al regime totalitario staliniano. Quella rivoluzione, come sappiamo, avrà profonde conseguenza nella storia dell’Europa fin quasi alla fine del Novecento e ne deriveranno delle conseguenze ancora presenti oggi nel mondo, basti pensare alla Cina. E possiamo senz’altro pensare che quella rivoluzione non ci sarebbe stato senza la Prima Guerra Mondiale ed anche che quel nuovo sistema economico, sociale e politico inteso a dar attuazione alla dottrina egualitaria del socialismo, fu pesantemente segnato in negativo dal fatto di essere nato in un paese che, oltre a non aver mai conosciuto la democrazia e le moderne libertà politiche, era allora sconvolto e dilaniato dalla guerra.
Anche nella Germania stremata - i medici hanno calcolato che durante la guerra oltre 700.000 civili morirono per fame e denutrizione - esplosero negli ultimi giorni della guerra dei movimenti insurrezionali. Fra gli operai, fra i soldati e fra i marinai della flotta di guerra che si erano ammutinati all’ordine di uscire per un ultimo disperato attacco alla flotta in inglese, furono costituiti dei consigli sul modello dei soviet russi. Come perno della proclamata repubblica emerse il partito socialista, i suoi esponenti assunsero le redini del governo e repressero i movimenti più radicali diretti dai comunisti. Nell’agosto del ’19 fu approvata la cosiddetta Costituzione di Weimar, di avanzati principi sociali. Ma in una Germania piena nel dopoguerra di reduci inattivi ed immiseriti, si svilupparono anche movimenti di destra con l’adesione di ex militari ben addestrati e disponibili alla violenza. Hitler diventò il capo all’inizio del 1920 di quello che divenne il partito nazional-socialista e nella Germania sconvolta dalla crisi economica, dalla disoccupazione, dall’inflazione galoppante, quel partito politico populista che rigettava ogni responsabilità tedesca per la guerra e le sue conseguenze, indicava nei benestanti ebrei la causa delle miserie del popolo tedesco, faceva leva sull’orgoglio nazionale, si imponeva nelle manifestazioni pubbliche con la forza contro gli avversari comunisti e socialisti, andò via via crescendo di consensi. Sappiamo quale fu il seguito. Certo, senza la demonica personalità di Hitler non ci sarebbe stato un regime politico quale quello nazista né la Seconda guerra mondiale, almeno con le caratteristiche che abbiamo conosciuto, ma è indubbio che Hitler riuscì ad arrivare al potere in Germania sfruttando la situazione, il clima e la cultura della violenza prodotti dalla Prima Guerra Mondiale.
L'Italia infine, pur essendo fra i vincitori, non era però fra i paesi con un assetto democratico consolidato ed una tradizione parlamentare autorevole. Nelle elezioni politiche del novembre 1919 non furono le liste del vecchio ceto liberale e dagli interventisti a trionfare, nonostante avessero potuto presentarsi come gli esponenti della vittoria; a conseguire i migliori risultati fu un partito, quello socialista, che si era battuto contro l’ingresso dell’Italia in guerra, seguito dal Partito Popolare espressione del mondo cattolico che aveva guardato alla guerra con atteggiamento critico. Mussolini in marzo aveva costituito il suo movimento, denominandolo Fasci di Combattimento, ma le liste presentate andarono incontro ad un clamoroso insuccesso, quella capeggiata da Mussolini stesso nella circoscrizione di Milano raccolse solo l’1,7% dei voti e naturalmente non ebbe alcun eletto.
Quello che si era espresso nel voto era d’altra parte ciò che le grandi masse andavano esprimendo direttamente nella società, dando sfogo alle sofferenze accumulate durante la guerra e reagendo alla crisi economica del dopoguerra, guidate dalle organizzazioni sindacali, dai socialisti, ma anche, in particolare nel mondo dei contadini e dalle organizzazioni cattoliche. Il 1919 e il ’20 fu il cosiddetto biennio rosso, delle lotte operaie culminate nella occupazione delle fabbriche e nei grandi e ripetuti scioperi dei salariati e braccianti agricoli. Lotte in cui si esprimevano anche comportamenti indotti dal lascito della guerra, vale a dire forme d’intimidazione se non di violenza fisica nei confronti delle controparti padronali. Lotte in cui i governo, alla cui direzione era tornato Giolitti, scelse una linea di neutralità, estraniandosi quindi dagli acuti problemi e conflitti sociali del dopoguerra.
In quella situazione e clima riuscì a farsi largo il movimento fascista. Ha confidato anni dopo lo stesso Mussolini ad un suo biografo.
“Ho capito che in conseguenza della guerra erano cambiate molte cose nella posizione delle forze sociali, vi erano quelli che aveva guadagnato con la guerra e chi invece rischiava un declassamento. Vidi che c’era spazio per un nuovo movimento e scelsi di far leva sugli ufficiali inferiori e sui sottufficiali, che finita la guerra restavano sbandati e senza un lavoro; scelsi di far leva sulle persone che avevano un reddito fisso, sui piccoli risparmiatori che avevano sottoscritto prestiti dello stato i cui patrimoni venivano ora falcidiati dall’inflazione.”
Non aggiunse che scelse presto di far leva anche sugli industriali e sugli agrari preoccupati dalle rivendicazioni dei loro dipendenti, e che contro sindacalisti e socialisti scatenò squadre armate composte in gran parte da quegli ex militari rimasti senza lavoro e che la guerra aveva abituati alla violenza, e che infine fu il vecchio ceto di governo nonché la monarchia, per salvare se stessi, a spalancargli le porte del potere.
E cosi, tramite il fascismo, dalla Prima Guerra Mondiale il popolo italiano fu trascinato alla seconda e fu indispensabile oltretutto una lotta popolare di liberazione, necessariamente anche questa sanguinosa, per riportare l'Italia sulla via della pace e della democrazia.
Si deve anche aggiungere che, se a seguito della vittoria l'Inghilterra e la Francia si divisero le colonie tedesche in Africa e i paesi appartenuti all’impero ottomano - Iraq, Siria, Libano e Palestina - dopo la prima guerra mondiale nei loro imperi coloniali cominciarono a manifestarsi segni di crisi, sia in conseguenza della nascita di movimenti indipendentisti, sia anche per il fatto che fu meno semplice, per reprimere quei movimenti, impiegare i soldati inglesi e francesi con la spietatezza del passato.
Quanto sopra riguardo ai paesi con solidi regimi parlamentari e democratici. Per il resto dell’Europa le conseguenze della guerra furono più complesse o addirittura deflagranti.
Nella grande Russia, come ho già ricordato, sulla disgregazione dell’esercito e sulle sofferenze delle popolazione si innestò un processo rivoluzionario che condusse alla leniniana Repubblica dei Soviet, di cui ricorre in questi giorni il centenario, e più avanti al regime totalitario staliniano. Quella rivoluzione, come sappiamo, avrà profonde conseguenza nella storia dell’Europa fin quasi alla fine del Novecento e ne deriveranno delle conseguenze ancora presenti oggi nel mondo, basti pensare alla Cina. E possiamo senz’altro pensare che quella rivoluzione non ci sarebbe stato senza la Prima Guerra Mondiale ed anche che quel nuovo sistema economico, sociale e politico inteso a dar attuazione alla dottrina egualitaria del socialismo, fu pesantemente segnato in negativo dal fatto di essere nato in un paese che, oltre a non aver mai conosciuto la democrazia e le moderne libertà politiche, era allora sconvolto e dilaniato dalla guerra.
Anche nella Germania stremata - i medici hanno calcolato che durante la guerra oltre 700.000 civili morirono per fame e denutrizione - esplosero negli ultimi giorni della guerra dei movimenti insurrezionali. Fra gli operai, fra i soldati e fra i marinai della flotta di guerra che si erano ammutinati all’ordine di uscire per un ultimo disperato attacco alla flotta in inglese, furono costituiti dei consigli sul modello dei soviet russi. Come perno della proclamata repubblica emerse il partito socialista, i suoi esponenti assunsero le redini del governo e repressero i movimenti più radicali diretti dai comunisti. Nell’agosto del ’19 fu approvata la cosiddetta Costituzione di Weimar, di avanzati principi sociali. Ma in una Germania piena nel dopoguerra di reduci inattivi ed immiseriti, si svilupparono anche movimenti di destra con l’adesione di ex militari ben addestrati e disponibili alla violenza. Hitler diventò il capo all’inizio del 1920 di quello che divenne il partito nazional-socialista e nella Germania sconvolta dalla crisi economica, dalla disoccupazione, dall’inflazione galoppante, quel partito politico populista che rigettava ogni responsabilità tedesca per la guerra e le sue conseguenze, indicava nei benestanti ebrei la causa delle miserie del popolo tedesco, faceva leva sull’orgoglio nazionale, si imponeva nelle manifestazioni pubbliche con la forza contro gli avversari comunisti e socialisti, andò via via crescendo di consensi. Sappiamo quale fu il seguito. Certo, senza la demonica personalità di Hitler non ci sarebbe stato un regime politico quale quello nazista né la Seconda guerra mondiale, almeno con le caratteristiche che abbiamo conosciuto, ma è indubbio che Hitler riuscì ad arrivare al potere in Germania sfruttando la situazione, il clima e la cultura della violenza prodotti dalla Prima Guerra Mondiale.
L'Italia infine, pur essendo fra i vincitori, non era però fra i paesi con un assetto democratico consolidato ed una tradizione parlamentare autorevole. Nelle elezioni politiche del novembre 1919 non furono le liste del vecchio ceto liberale e dagli interventisti a trionfare, nonostante avessero potuto presentarsi come gli esponenti della vittoria; a conseguire i migliori risultati fu un partito, quello socialista, che si era battuto contro l’ingresso dell’Italia in guerra, seguito dal Partito Popolare espressione del mondo cattolico che aveva guardato alla guerra con atteggiamento critico. Mussolini in marzo aveva costituito il suo movimento, denominandolo Fasci di Combattimento, ma le liste presentate andarono incontro ad un clamoroso insuccesso, quella capeggiata da Mussolini stesso nella circoscrizione di Milano raccolse solo l’1,7% dei voti e naturalmente non ebbe alcun eletto.
Quello che si era espresso nel voto era d’altra parte ciò che le grandi masse andavano esprimendo direttamente nella società, dando sfogo alle sofferenze accumulate durante la guerra e reagendo alla crisi economica del dopoguerra, guidate dalle organizzazioni sindacali, dai socialisti, ma anche, in particolare nel mondo dei contadini e dalle organizzazioni cattoliche. Il 1919 e il ’20 fu il cosiddetto biennio rosso, delle lotte operaie culminate nella occupazione delle fabbriche e nei grandi e ripetuti scioperi dei salariati e braccianti agricoli. Lotte in cui si esprimevano anche comportamenti indotti dal lascito della guerra, vale a dire forme d’intimidazione se non di violenza fisica nei confronti delle controparti padronali. Lotte in cui i governo, alla cui direzione era tornato Giolitti, scelse una linea di neutralità, estraniandosi quindi dagli acuti problemi e conflitti sociali del dopoguerra.
In quella situazione e clima riuscì a farsi largo il movimento fascista. Ha confidato anni dopo lo stesso Mussolini ad un suo biografo.
“Ho capito che in conseguenza della guerra erano cambiate molte cose nella posizione delle forze sociali, vi erano quelli che aveva guadagnato con la guerra e chi invece rischiava un declassamento. Vidi che c’era spazio per un nuovo movimento e scelsi di far leva sugli ufficiali inferiori e sui sottufficiali, che finita la guerra restavano sbandati e senza un lavoro; scelsi di far leva sulle persone che avevano un reddito fisso, sui piccoli risparmiatori che avevano sottoscritto prestiti dello stato i cui patrimoni venivano ora falcidiati dall’inflazione.”
Non aggiunse che scelse presto di far leva anche sugli industriali e sugli agrari preoccupati dalle rivendicazioni dei loro dipendenti, e che contro sindacalisti e socialisti scatenò squadre armate composte in gran parte da quegli ex militari rimasti senza lavoro e che la guerra aveva abituati alla violenza, e che infine fu il vecchio ceto di governo nonché la monarchia, per salvare se stessi, a spalancargli le porte del potere.
E cosi, tramite il fascismo, dalla Prima Guerra Mondiale il popolo italiano fu trascinato alla seconda e fu indispensabile oltretutto una lotta popolare di liberazione, necessariamente anche questa sanguinosa, per riportare l'Italia sulla via della pace e della democrazia.
Sopra: Sala Consiliare della Provincia, Via Garibaldi, 21, Piacenza; immagini della conferenza pubblica di sabato 11 novembre 2017 durante la relazione del dott. Romano Repetti.
Bibliografia
Antonelli Quinto, Storia intima della Grande guerra, Donzelli 2014.
Audoin-Rouzeau S./ Becker J.J. (a cura), La prima guerra mondiale, Vol. I e II, Einaudi 2014.
Beaupré N./Jones H./Rasmussen A., Dans la guerre 1914-1918: accepter, endurer, refuser, Paris, Le Belles Lettres 2015.
Bottioni Augusto, Essi sono perché furono, Marvia 2017.
Collotti E./Sandri R./Sessi F, Dizionario della Resistenza, Einaudi 2006.
De Felice Renzo, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi 1995.
De Felice Renzo, Mussolini il fascista-La conquista del potere 1921-192, Einaudi 1995.
D’Orsi Angelo, 1917: l’anno della rivoluzione, Laterza 2016.
Felsini Luca, Processo a Caporetto, Donzelli 2017.
Gentile G./Ronga L./ Rossi A. – Il nuovo millenium – Corso di storia Vol. 3° - Il Novecento e l’inizio del XXI secolo, La scuola 2016.
Gilbert Martin, La grande storia della Seconda guerra mondiale, Mondadori 2003.
Hart Peter, La grande storia della Prima guerra mondiale, Newton 2015.
Horvath-Mayerhofer Christine, L’amministrazione militare austro-ungarica nei territori italiani occupati. Ottobre 2017-novembre 2018, Udine 1985.
Isnenghi M. /Rochat G., La grande guerra, Il Mulino, 2008.
Kershaw Ian – Hitler e l’enigma del consenso, Laterza 2011.
Labanca Nicola (a cura), Dizionario storico delle Prima guerra mondiale, Laterza 2014.
Labanca Nicola (a cura), Fra sterminio e sfruttamento, Le Lettere 1992.
Lombardi Filippo, Piacentini nella Grande Guerra, Marva 2014.
Ludwig Emil, Luglio 1914, Mondadori 1930.
Melograni Piero, Storia politica della Grande guerra, Mondadori 1998.
Negri Ippolito, Grande guerra, dopo la ritirata di Caporetto disertori e fucilazioni nel piacentino, in “L’urtiga” n. 15/2017.
Patricelli Marco, L’Italia delle sconfitte, Laterza 2016.
Procacci Giovanna, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Bollati Boringhieri 2016.
Silvestri Mario, Isonzo 1917, Rizzoli 2001.
Giorgio Giannini, Il generale fucilatore, rivista Mondosabino, 1917
Saggi diversi in “Piacenza e la guerra ’15-‘18”, - Istituto per la Storia del Risorgimento-Comitato di Piacenza 2014.
Saggi diversi in “Piacenza e la Grande Guerra”- Istituto per la Storia del Risorgimento-Comitato di Piacenza 2015.
Saggi diversi in “Studi Piacentini” n° 41/2011
Audoin-Rouzeau S./ Becker J.J. (a cura), La prima guerra mondiale, Vol. I e II, Einaudi 2014.
Beaupré N./Jones H./Rasmussen A., Dans la guerre 1914-1918: accepter, endurer, refuser, Paris, Le Belles Lettres 2015.
Bottioni Augusto, Essi sono perché furono, Marvia 2017.
Collotti E./Sandri R./Sessi F, Dizionario della Resistenza, Einaudi 2006.
De Felice Renzo, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi 1995.
De Felice Renzo, Mussolini il fascista-La conquista del potere 1921-192, Einaudi 1995.
D’Orsi Angelo, 1917: l’anno della rivoluzione, Laterza 2016.
Felsini Luca, Processo a Caporetto, Donzelli 2017.
Gentile G./Ronga L./ Rossi A. – Il nuovo millenium – Corso di storia Vol. 3° - Il Novecento e l’inizio del XXI secolo, La scuola 2016.
Gilbert Martin, La grande storia della Seconda guerra mondiale, Mondadori 2003.
Hart Peter, La grande storia della Prima guerra mondiale, Newton 2015.
Horvath-Mayerhofer Christine, L’amministrazione militare austro-ungarica nei territori italiani occupati. Ottobre 2017-novembre 2018, Udine 1985.
Isnenghi M. /Rochat G., La grande guerra, Il Mulino, 2008.
Kershaw Ian – Hitler e l’enigma del consenso, Laterza 2011.
Labanca Nicola (a cura), Dizionario storico delle Prima guerra mondiale, Laterza 2014.
Labanca Nicola (a cura), Fra sterminio e sfruttamento, Le Lettere 1992.
Lombardi Filippo, Piacentini nella Grande Guerra, Marva 2014.
Ludwig Emil, Luglio 1914, Mondadori 1930.
Melograni Piero, Storia politica della Grande guerra, Mondadori 1998.
Negri Ippolito, Grande guerra, dopo la ritirata di Caporetto disertori e fucilazioni nel piacentino, in “L’urtiga” n. 15/2017.
Patricelli Marco, L’Italia delle sconfitte, Laterza 2016.
Procacci Giovanna, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Bollati Boringhieri 2016.
Silvestri Mario, Isonzo 1917, Rizzoli 2001.
Giorgio Giannini, Il generale fucilatore, rivista Mondosabino, 1917
Saggi diversi in “Piacenza e la guerra ’15-‘18”, - Istituto per la Storia del Risorgimento-Comitato di Piacenza 2014.
Saggi diversi in “Piacenza e la Grande Guerra”- Istituto per la Storia del Risorgimento-Comitato di Piacenza 2015.
Saggi diversi in “Studi Piacentini” n° 41/2011