Il rifugio di Palazzo Romagnoli
di Giuseppe Zurla
di Giuseppe Zurla
Un amico mi avverte che c’è la possibilità di visitare uno scantinato che fu adibito a rifugio antiaereo negli ultimi anni della seconda guerra mondiale e che (particolare ancora più importante) nel corso di tutti questi anni non aveva subito variazioni.
Di quei siti avevamo già fatto una ricerca cominciandone un censimento quindi per noi era un argomento di grande interesse. L’edificio è in una zona centralissima al civico 253 di Corso Vittorio Emanuele ll. Si tratta di una costruzione imponente occupante sulla via un fronte di almeno 30 metri e dotata di quattro piani fuori terra ognuno dei quali alto all’incirca quattro metri. In lunghezza i suoi spazi occupano tutto l’isolato fino a confinare con il cortile della caserma dei carabinieri di via Beverora.
Di quei siti avevamo già fatto una ricerca cominciandone un censimento quindi per noi era un argomento di grande interesse. L’edificio è in una zona centralissima al civico 253 di Corso Vittorio Emanuele ll. Si tratta di una costruzione imponente occupante sulla via un fronte di almeno 30 metri e dotata di quattro piani fuori terra ognuno dei quali alto all’incirca quattro metri. In lunghezza i suoi spazi occupano tutto l’isolato fino a confinare con il cortile della caserma dei carabinieri di via Beverora.
La costruzione così come oggi la vediamo, fu data dalla somma di tre diversi edifici, uno era di Lorenzo Bassi che lo lasciò all’erede Diego Bassi e venne poi venduto a Giuseppe Cabra il successivo era di un prelato, Don Andrea Conceveri e infine l’ultima parte di Lucio Merli. La facciata che doveva legarli e dare al tutto un aspetto unitario fu progettata dall'ingegner Francesco Grandi nel 1908 e terminata nel 1909. Committente la signora Marcellina Lugaia Romagnoli. Merita una citazione il portone d’ingresso che è opera di alto artigianato eseguita dalla falegnameria Medardo Tirotti, in quei tempi la più rinomata della città. Era un’epoca in cui nelle costruzioni signorili si privilegiava la solidità di muri e per le finiture si usavano materiali di pregio. In questo caso furono usati solamente mattoni fatti a mano di diverse misure, pietra per le scale, cotto per i pianerottoli e taluni camminatoi, legni pregiati per portoni e serramenti. Avveniristico per quei tempi l’impianto di riscaldamento a termosifoni con la caldaia alimentata a carbone di cui si può vedere la foto ancora posizionata nel locale appositamente dedicato. L’acqua calda riusciva ad arrivare in tutti i piani. Nella visita ci fa da guida con gentile disponibilità l’attuale proprietario signor Pascal Villa, noto impresario di onoranze funebri.
Nella parte sinistra del cortile vi sono le scuderie e le rimesse per le carrozze ora usate come garages, in fondo c’è un angolo con un giardino all’italiana dove troneggiano due maestose piante di Ginkgo Biloba una specie che resistette allo scoppio dell’atomica. Pare che tre mesi dopo la tragedia di Hiroshima alcune piante di questa varietà, imperterrite germogliassero nuovamente.
Nella parte sinistra del cortile vi sono le scuderie e le rimesse per le carrozze ora usate come garages, in fondo c’è un angolo con un giardino all’italiana dove troneggiano due maestose piante di Ginkgo Biloba una specie che resistette allo scoppio dell’atomica. Pare che tre mesi dopo la tragedia di Hiroshima alcune piante di questa varietà, imperterrite germogliassero nuovamente.
Infine scendiamo al rifugio per mezzo di una scala spaziosa e comoda perché progettata con un rapporto ideale tra alzata e pedata. Arrivati giù, la temperatura è più fresca ma non umida, ci sono tante frecce direzionali che aiutavano i rifugiati ad orizzontarsi nel dedalo dei corridoi, qua e la esortazioni a stare calmi probabilmente fidando nella solidità della costruzione.
Alla fine di ogni corridoio ci sono grate comunicanti con l’esterno avente la duplice funzione di arieggiare, illuminare e fungere da via di fuga qualora l’uscita principale venisse ostruita dalle macerie. Pare che questa struttura avesse funzionato come rifugio già nella prima guerra mondiale. In un angolo vediamo casse di tipo militare che testimoniano il passaggio o l’uso da parte di reparti dell’esercito. Certo non tutti i rifugi erano come questo, alcuni erano di fortuna e potevano diventare trappole mortali per gli occupanti. Ho qualche esperienza diretta. Abitavo in un rione popolare in una casa di ringhiera e una notte la sirena dell’allarme ci fece alzare. Appena fuori di casa dall’alto del terzo piano apparve una Piacenza spettrale illuminata a giorno dalle luci rossastre dei bengala, mentre già si sentivano più in lontananza il rombo dei bombardieri che venivano a compiere la loro opera. Di corsa al rifugio, dove si stava al buio stretti come conigli; alcuni piangevano, chi urlava, chi recitava giaculatorie, chi sgranava il rosario, stranamente non avevo paura, ero vicino alla mamma quindi mi ritenevo al sicuro. Ma c’era anche chi malediva gli americani giurando vendetta appena sarebbero arrivate le nuove armi del Fuhrer. Con gli alleati che avevano sfondato in più punti la linea Gotica, case, strade, ponti, ferrovie in macerie, lutti fame e miseria, la fede nel regime doveva continuare ad essere granitica. Alle elementari, alla fine di ogni componimento o problema, era ancora obbligatorio apporre le parole: "Vincere" e "Vinceremo". Erano le stesse con cui il Duce chiuse da Piazza Venezia il famoso discorso della dichiarazione di guerra cui, dobbiamo dirlo, seguì una lunghissima ovazione da parte del popolo Italiano.
A volte mi chiedo se le attuali generazioni abbiano contezza di tutto questo. Alla fine di ogni tornata elettorale mi rispondo che, in maggioranza, non ne hanno neanche la minima idea.
A volte mi chiedo se le attuali generazioni abbiano contezza di tutto questo. Alla fine di ogni tornata elettorale mi rispondo che, in maggioranza, non ne hanno neanche la minima idea.
Note bibliografiche:
Fiori Giorgio, 2005, Il centro storico di Piacenza. Palazzi, case, monumenti civili e religiosi. TEP Editore, Piacenza
Pagina pubblicata il 29 giugno 2019