Il volto del nemico
di Alberto Magnani
di Alberto Magnani
Un gelido mattino di gennaio del tempo di guerra. Il sottotenente pilota Carlo Iavelli, che tra breve compirà ventiquattro anni, è decollato per effettuare la sua quattordicesima missione: bombardare un ponte, insieme ad altri sette cacciabombardieri. Il cielo si sta ingombrando di nubi e, più lo stormo procede, più si addensa una fitta foschia. Il comandante cerca uno squarcio nella nuvolaglia. E’ difficile proseguire. Il comandante distingue una ferrovia. Ordina di bombardare quella.
Gli aerei calano uno dopo l’altro, si sgravano delle bombe, si riuniscono in cielo. Si dividono in due gruppi di quattro e in ogni gruppo si formano due coppie: Carlo Iavelli deve tenersi all’ala del suo tenente. Nella pianura bianca di neve si snoda una lunga strada. C’è un veicolo che la percorre. Il tenente si getta in picchiata e Iavelli lo segue, entrambi sparano raffiche di mitragliatrice, poi riprendono quota. Improvvisamente il cielo si riempie di scoppi e nuvolette di fumo. Carlo Iavelli avverte una forte botta. Il suo aereo trema. Iavelli lotta disperatamente per non perdere il controllo dell’apparecchio. Sente gracchiare la radio di bordo, ma non ha tempo per rispondere. Capisce che sta per precipitare. Non è mai stato fortunato, quell’aereo: già una volta, a Pisa, con un altro pilota, è atterrato malamente e si è quasi sfasciato. Han dovuto rimetterlo in sesto, ed è toccato a lui. Iavelli chiama per radio il tenente, lo avverte, poi apre la cabina e si butta nel vuoto. L’incubo di molti piloti – buttarsi e finire sfracellati contro i timoni di coda – non si realizza. Un energico strappo e una spinta verso l’alto segnalano che il paracadute si è aperto. Iavelli è sospeso per aria: vede, di sotto, grandi strade, binari, canali che si irradiano dalla città. La città di Milano: vicina, troppo vicina. Pensare che la casa dei suoi è a una cinquantina di chilometri! Lui non l’ha mai vista. Carlo Iavelli, infatti, è nato in America ed è pilota dell’aviazione degli Stati Uniti.
Nel gennaio del 1945, l’inverno è freddo e la guerra sembra proprio non voler finire. Nelle campagne della Bassa Milanese i tedeschi sono dappertutto. Tedeschi per modo di dire: in realtà non sanno più chi arruolare, austriaci, slavi, mongoli, ex prigionieri, vecchi e giovanissimi. I militi fascisti battono le campagne. Nelle cascine sono rintanati renitenti alla leva, disertori, prigionieri in fuga. Di notte saltan fuori i partigiani: scrivono sui muri, lanciano volantini, disarmano qualche soldato. E scompaiono. E’ nevicato spesso. Il peggio, però, è quando il cielo diventa limpido e splende il sole, perché è allora che arrivano i cacciabombardieri degli Alleati. Spazzano le strade a raffiche di mitraglia. Sparano su tutto quello che si muove: veicoli, treni, carri, biciclette. Mitragliano i barconi sui Navigli. Vicino ad Abbiategrasso hanno falciato un carro funebre, e ucciso il conducente. La gente cerca di fare la vita normale. Si va al lavoro, si va a scuola. Bisogna prendere i tram che arrancano verso Milano, ma gli aerei mitragliano pure quelli. Alla Bonirola ci sono almeno una decina di morti. I proiettili perforano una finestra, rimbalzano in una stanza, colpiscono un vecchietto che se ne stava a letto. La contraerea sparacchia senza grandi risultati. I tedeschi hanno messo cannoni un po’ qua, un po’ là, ma non bastano. Ai pezzi ci sono italiani, ma anche russi e ucraini. Il 25 gennaio è nuvoloso, ma dalle nubi sbucano due aerei. L’artiglieria ne centra uno. Non capita molto spesso. L’altro se l’è svignata.
Nel 1992, un italoamericano sessantenne, Mondo Iavelli, si recò in Piemonte alla ricerca delle proprie radici. I suoi genitori avevano lasciato le colline del Canavese all’inizio del Novecento e si erano spinti sino in California, dove si erano dedicati alla produzione del vino. Mondo ritrovò diversi congiunti ed ebbe il piacere di scoprire, a San Giusto, una via intitolata a Carlo Iavelli, compositore del Seicento. Carlo era lo stesso nome di suo fratello. I parenti accolsero con entusiasmo il cugino d’America. Mondo Iavelli masticava ancora l’italiano e non aveva difficoltà a comunicare. Raccontò del posto dove viveva, Poway, nei sobborghi di San Diego, una cittadina le cui case sono sparpagliate tra massi e cespugli ai margini del deserto, in un paesaggio da film western. Ai suoi tempi, per andare a scuola si doveva raggiungere un altro paese, Pomerado, dove tutte le classi si pigiavano in un’unica aula.
Nel gennaio del 1945, l’inverno è freddo e la guerra sembra proprio non voler finire. Nelle campagne della Bassa Milanese i tedeschi sono dappertutto. Tedeschi per modo di dire: in realtà non sanno più chi arruolare, austriaci, slavi, mongoli, ex prigionieri, vecchi e giovanissimi. I militi fascisti battono le campagne. Nelle cascine sono rintanati renitenti alla leva, disertori, prigionieri in fuga. Di notte saltan fuori i partigiani: scrivono sui muri, lanciano volantini, disarmano qualche soldato. E scompaiono. E’ nevicato spesso. Il peggio, però, è quando il cielo diventa limpido e splende il sole, perché è allora che arrivano i cacciabombardieri degli Alleati. Spazzano le strade a raffiche di mitraglia. Sparano su tutto quello che si muove: veicoli, treni, carri, biciclette. Mitragliano i barconi sui Navigli. Vicino ad Abbiategrasso hanno falciato un carro funebre, e ucciso il conducente. La gente cerca di fare la vita normale. Si va al lavoro, si va a scuola. Bisogna prendere i tram che arrancano verso Milano, ma gli aerei mitragliano pure quelli. Alla Bonirola ci sono almeno una decina di morti. I proiettili perforano una finestra, rimbalzano in una stanza, colpiscono un vecchietto che se ne stava a letto. La contraerea sparacchia senza grandi risultati. I tedeschi hanno messo cannoni un po’ qua, un po’ là, ma non bastano. Ai pezzi ci sono italiani, ma anche russi e ucraini. Il 25 gennaio è nuvoloso, ma dalle nubi sbucano due aerei. L’artiglieria ne centra uno. Non capita molto spesso. L’altro se l’è svignata.
Nel 1992, un italoamericano sessantenne, Mondo Iavelli, si recò in Piemonte alla ricerca delle proprie radici. I suoi genitori avevano lasciato le colline del Canavese all’inizio del Novecento e si erano spinti sino in California, dove si erano dedicati alla produzione del vino. Mondo ritrovò diversi congiunti ed ebbe il piacere di scoprire, a San Giusto, una via intitolata a Carlo Iavelli, compositore del Seicento. Carlo era lo stesso nome di suo fratello. I parenti accolsero con entusiasmo il cugino d’America. Mondo Iavelli masticava ancora l’italiano e non aveva difficoltà a comunicare. Raccontò del posto dove viveva, Poway, nei sobborghi di San Diego, una cittadina le cui case sono sparpagliate tra massi e cespugli ai margini del deserto, in un paesaggio da film western. Ai suoi tempi, per andare a scuola si doveva raggiungere un altro paese, Pomerado, dove tutte le classi si pigiavano in un’unica aula.
Mondo aveva molto da raccontare. Parlò certamente anche di suo fratello maggiore, Carlo, che in Italia ci era tornato durante la guerra, e se l’era vista brutta. Era pilota di cacciabombardieri, nel 527th Squadron, 86th Group. La mattina del 25 gennaio 1945 era decollato da Pisa in una formazione di otto P-47, con obiettivo il ponte ferroviario di Calcinate, nel Bresciano. Intorno alle 11.00 gli aerei erano giunti in prossimità dell’obiettivo, ma, a causa della nuvolosità, il comandante si era reso conto che risultava impossibile individuarlo.
La formazione, allora, aveva avvistato e bombardato un’importante strada di collegamento, poi si era divisa in due gruppi di quattro apparecchi, ciascuno dei quali, a sua volta, aveva costituito due coppie. Iavelli, appaiato al tenente George Ramsey, si era diretto verso Milano, alla caccia di eventuali bersagli, calando per mitragliare due veicoli in transito. Nel corso dell’azione, i due aerei erano stati fatti oggetto di colpi d’artiglieria contraerea e il tenente Ramsey aveva perso di vista il suo gregario, che non rispondeva neanche alle chiamate via radio. Poco dopo il sottotenente Iavelli lo aveva chiamato, comunicandogli di essere stato colpito e di essere costretto a lanciarsi dall’aereo. Ramsey non riuscì a scorgere alcun paracadute aprirsi nell’aria. Distingueva solo una colonna di fumo nero e acre alzarsi verso il cielo.
Non sappiamo se Mondo fosse a conoscenza di tutti questi dettagli, riportati con precisione da George Ramsay nel rapporto steso al suo rientro a Pisa. All’epoca, Mondo aveva quattordici anni. Certo ricordava quando, a casa, era piombato il temuto telegramma con cui le autorità militari annunciavano alle famiglie un caduto o un disperso. Carlo Iavelli era stato catalogato come missing, disperso, ma il rapporto di Ramsey induceva a prepararsi al peggio.
Carlo era già sposato. Nel 1941, ventunenne, aveva conosciuto una ragazza di sedici anni, Elda Valpreda, anche lei figlia di piemontesi, a una scampagnata dell’Associazione degli italo-americani. Si erano sposati l’anno dopo. Poi, lui era partito per la guerra. Elda si trovava ora a vivere nell’angoscia di non sapere nulla del giovane marito. C’è chi visse quest’angoscia per anni, chi per tutta la vita. Elda trascorse così circa sei mesi, che non sono poi tanti, ma possono essere molto lunghi quando si teme di esser già vedova a diciannove anni.
Carlo era già sposato. Nel 1941, ventunenne, aveva conosciuto una ragazza di sedici anni, Elda Valpreda, anche lei figlia di piemontesi, a una scampagnata dell’Associazione degli italo-americani. Si erano sposati l’anno dopo. Poi, lui era partito per la guerra. Elda si trovava ora a vivere nell’angoscia di non sapere nulla del giovane marito. C’è chi visse quest’angoscia per anni, chi per tutta la vita. Elda trascorse così circa sei mesi, che non sono poi tanti, ma possono essere molto lunghi quando si teme di esser già vedova a diciannove anni.
L’aereo colpito, tracciando una lunga scia di fumo, se ne va a cadere dalle parti di Taliedo. Il pilota ha fatto in tempo a lanciarsi, non si è sfracellato contro il timone di coda, come a volte succede, ed è disceso in mezzo ai campi. Ma è troppo vicino a Milano. Fosse caduto un po’ più distante, forse, sarebbe riuscito a scappare. Gli Alleati bombardano, mitragliano le strade, ammazzano la gente; eppure, quando uno di loro viene abbattuto, trova sempre chi è disposto a nasconderlo e ad aiutarlo. Carlo Iavelli viene catturato. Chissà cosa pensano i militi italiani che lo vedono. C’è sempre la curiosità di guardare i nemici da vicino, di dare un’identità umana alle macchine volanti che sfrecciano micidiali sopra le nostre teste. La propaganda spesso raffigura gli americani con grotteschi tratti negroidi. Dev’essere strano ritrovarsi davanti il figlio di una famiglia di contadini piemontesi. Iavelli, comunque, se lo portano via i tedeschi. Lo spediscono in un campo di prigionia, in Germania. E si portano via anche la carcassa dell’aereo, o meglio, quello che ne resta. La gente ha già cominciato a raccogliere i rottami: in tempo di guerra manca tutto e tutto può servire. Forse Mondo Iavelli raccontò anche della prigionia di suo fratello in Germania, della sua liberazione, alla fine della guerra, del ritorno a casa, dell’abbraccio con Elda, ormai disperata. Carlo smise poi di lavorare nei vigneti: aveva aperto un distributore, quindi una ditta attiva nel settore dell’edilizia. Ed era diventato campione di uno sport singolare, tutto americano: le gare di velocità tra veicoli costruiti montando motori potenti e grandi ruote su vecchie carrozzerie di automobili. Lo stesso Mondo aveva praticato quello sport. I racconti delle corse tra quei bizzarri ordigni, che si inseguivano con grande fracasso di motori forse appassionò i parenti più dei tristi ricordi di guerra. Carlo non era più giovanissimo, ma ancora attivo. Iniziava la giornata leggendo il giornale da cima a fondo e sapeva tutto di politica internazionale. Ormai tutti lo chiamavano Carl. Era membro dell’associazione degli ex prigionieri di guerra. E stava ancora lavorando per costruire un altro dei suoi ordigni da corsa. Hanno abbattuto un aereo, ma in cielo ce ne sono altri cento. Dopo il 25 gennaio le incursioni continuano. C’è il mitragliamento del tram. Poi, il 30, c’è quello della corriera che da Milano va a Pavia. Di primo mattino, vicino a Binasco. I soccorritori trovano decine di passeggeri fatti a pezzi dalle raffiche mentre tentavano di fuggire via dalla corriera e altre decine dentro, crivellati mentre erano ancora seduti ai loro posti. Uomini, donne, giovani. Un gruppo di ragazzi che andava all’Università. Circa ottanta morti. Dopo quel macello, per un po’ le incursioni sembrano placarsi. Ma poi ricominciano. Febbraio, marzo, aprile. Alla fine c’è l’insurrezione finale e una colonna di partigiani avanza da Pavia verso Milano per liberarla. La comanda un importante capo partigiano, Domenico Mezzadra. Anche lui, come Carlo Iavelli, è nato in America, in Massachussetts, ma il padre è morto e la madre è tornata in Italia. Lo chiamano l’Americano.
(La vicenda è stata ricostruita utilizzando i seguenti documenti: rapporto sull’abbattimento di Carlo Iavelli MACR 11715 ; articolo su Carlo Iavelli pubblicato dal <<San Diego Tribune>> il 16 dicembre 2007; articolo su Carlo Iavelli pubblicato dal <<San Diego Tribune>> il 22 dicembre 2013).
Le foto presenti nella pagina sono originali e scattate dagli equipaggi durante le missioni (US Air Force Photos).
Le foto presenti nella pagina sono originali e scattate dagli equipaggi durante le missioni (US Air Force Photos).