Varzi, zona libera, 1944
"La Repubblica democratica di Varzi fu, insieme ad altre poche esperienze simili in Italia, una vera e propria isola di libertà nel mare delle armate tedesche che avevano coperto il nostro Paese dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943." (Comune di Varzi)
L’altra repubblica: Varzi e la Zona libera 1944
di Giulio Guderzo
di Giulio Guderzo
La storia - son soliti dire gli uomini del mestiere - si fa coi documenti. Ma attenzione, documenti non son solo quelli cartacei. E, per certi tempi e temi, alle carte, se si vuol capire come e perché certi eventi si sian dati, occorre aggiungerne altri, d’altro genere. Nella fattispecie, per ricostruire la storia nostra del 1943, ’44, ’45, con l’aspro conflitto tra neofascisti e resistenti, fondamentali si sarebbero dimostrate, quando ci si mise all’opera, le testimonianze orali. Che si dovevan raccogliere, in buona misura, nei luoghi nei quali quel conflitto si era venuto maggiormente dispiegando: nel nostro caso, pertanto, nell’alto Oltrepò.
Non ci saremmo probabilmente riusciti, se non avessimo potuto contare sull’aiuto di un personaggio straordinario, varzese - il sig. Costantino Piazzardi - che si era presto convinto della bontà del lavoro avviato. Senza il suo lungo, pazientissimo lavoro di preparazione e presentazione alle diverse comunità locali, mai saremmo riusciti, da Pavia, col nostro Istituto storico e i suoi pur eccellenti collaboratori - Bossi, prima, poi Cavallini - a organizzare quegli incontri con interi paesi, che caratterizzarono la lunga ricerca, presenti in gran numero comandanti, partigiani, più e meno anziani testimoni delle vicende che in questo modo, pazientemente, riuscivamo, tassello dopo tassello, a ricostruire.
Il sig. Piazzardi, per la stessa attività - nel settore dell’autotrasporto - così a lungo esercitata dalla sua famiglia nel Varzese, era senz’altro in grado di aprire tante porte e mettere in comunicazione con forestieri - come inevitabilmente eravamo percepiti - uomini e donne per radicate consuetudini tanto giustamente prudenti quanto scarsamente propensi a dar confidenza a estranei. Quando, del resto, quella chiave non fosse bastata, ne avremmo avuto fortunatamente a disposizione un’altra, perché sull’opportunità di quella raccolta di testimonianze molto aveva insistito, a Pavia, un altro indimenticabile protagonista di quella storia: Carlo Barbieri - il commissario e poi comandante ‘Ciro’ - . E ‘Ciro’ era un amato e rispettato comunista, la cui autorità, non solo come valoroso partigiano ma altresì come uomo di partito, era in grado di aprirci tante altre porte.
Le testimonianze in tal modo raccolte spaziavano, poi, ben oltre i racconti di chi si era battuto, armi in pugno, dall’una come dall’altra parte. Si trattava di uomini, donne, ragazzi che al dramma avevano, volenti o nolenti, in vario modo partecipato. E partecipato in modo tanto più attivo - e diciamo pure forzatamente attivo - che non nelle guerre tradizionali, l’ultima delle quali sembrava essersi conclusa l’8 settembre del ’43.
Non era, d’altronde, quella avviata subito dopo - e qui, da noi, diventata sempre più impegnativa dalla primavera del ’44 - una guerra riconducibile alle memorie di chi, tra il ’15 e il ’18, aveva combattuto sul Carso o sul Piave, né a quel che delle guerre si leggeva sui libri di scuola o si sentiva raccontare da maestri più o meno patriotticamente infervorati. Paola Profumo, mia coetanea, sfollata con la famiglia da Genova a Varzi, scriverà, riandando alle impressioni d’allora, che “era una guerra strana”, priva della “gloria severa della trincea”, una guerra che stava dappertutto, senza un fronte - amici da una parte, nemici dall’altra - una “confusione” che “non lasciava distinguere patrie o eserciti”[1].
Una guerra strana, certo, capace di entrare nel bel mezzo di una famiglia e spaccarla in due. Giusto come nel caso della mia coscritta: con uno dei suoi fratelli alpino di Salò e un altro addirittura capo di una missione americana a sostegno della Resistenza tra Piemonte, Liguria e Lombardia. E non era certo un caso isolato. Una guerra che, diversamente da quelle ricordate dagli anziani, consentiva un ventaglio di scelte, tutte, beninteso, rischiose: perché militare coi Repubblicani non era, alla lunga, tanto meno pericoloso che entrare nella Resistenza, e anche restare uccel di bosco, evitando sia l’uno sia l’altro impegno, era una scelta certo non approvata ma accettata dalla Resistenza e però dai Neofascisti duramente combattuta. Così da risultar poi fondamentale nel motivare tanti ragazzi a farsi partigiani.
Era, ancora, una guerra strana perché, se il Mussolini in versione socialrepubblicana si sarebbe ritrovato accanto qualche malinconico retaggio del suo passato socialista nonché troppi giovanotti alla ricerca di un immaginario onore e della bella morte, dall’altra parte, a costituire i quadri dell’esercito partigiano, sarebbero state giovani brillanti speranze del passato ventennio, reduci e ammaestrate dall’esperienza dei diversi fronti - africano, greco, jugoslavo, sovietico - quali, ad esempio, tra noi, Felice Alberti, Giovanni Antoninetti, Franco Draghi[2], Giuseppe Ridella, sicché, come in modo solo apparentemente paradossale sintetizzerà Lucio Ceva, la Resistenza l’avrebbero fatta, in definitiva, e in buona misura, fascisti o - volendo esser precisi - exfascisti. Senza la loro esperienza e presenza, gli antifascisti della prima ora, i reduci delle brigate internazionali nella guerra di Spagna - come, il più noto tra noi, ‘Riccardo’, Alfredo Mordini - gli ex confinati o incarcerati - come, ancora nel nostro caso, Carlo Lombardi, il garibaldino ‘Remo’ - non sarebbero bastati al compito ben oneroso di dar corpo al sogno di un esercito partigiano coltivato da Parri, Longo, Mattei, Bonfantini.
Una guerra strana ma anche, per così dire, più ‘vera’, più ‘sincera’ di quelle tradizionali, innanzi tutto perché frutto di una scelta individuale. Luchino Dal Verme ne ha tante volte raccontato - tanto meglio e più convincentemente di come potrei far io - il lungo, difficile travaglio. Una guerra più o meno condizionata, certo, da fattori familiari e ambientali, ma in definitiva sempre frutto di scelta, dunque di libertà e come tale, rispetto a un passato non solo prossimo - fascista - ma anche remoto - quello, in buona parte almeno, dello Stato nato dal Risorgimento - assolutamente e più rivoluzionaria. E per ciò stesso capace - andrà sottolineato - di far emergere abilità e doti pressoché ignorate dagli stessi soggetti che se ne sarebbero ritrovati portatori in quelle condizioni di eccezionalità. Qualità e doti, poi, che, una volta ristabilita una più o meno normale quotidianità, si sarebbero facilmente offuscate, perché quel che la normalità richiedeva sarebbe stato diverso da quello che nell’eccezionalità delle situazioni era risultato indispensabile. Donde rimpianti, nostalgie. E miti, non molto diversi, del resto, da quelli che avevano accompagnato la costruzione - almeno nei suoi risvolti rivoluzionari - dello Stato nazionale, la cosiddetta ‘Resistenza tradita’ molto potendo richiamare di un Risorgimento democratico, pure, in precedenza, dichiarato ‘tradito’.
Una guerra strana, che appunto per i suoi risvolti rivoluzionari poteva metter in discussione situazioni precedentemente date più o meno per immutabili, come, per venir più vicini a noi, una supremazia di Varzi, del suo mercato, dei suoi commercianti, ritenuta pressoché naturale rispetto al circondario e ai suoi contadini, risultando, questi ultimi, o almeno i loro figli, ora animati - nei timori manifestati non solo, e a ragione, a Varzi, ma pure da più di un comandante o commissario partigiano - da un desiderio di rivalsa: tale da poter causare, in prospettiva, grossi guai a tutto il Movimento.
Non ci saremmo probabilmente riusciti, se non avessimo potuto contare sull’aiuto di un personaggio straordinario, varzese - il sig. Costantino Piazzardi - che si era presto convinto della bontà del lavoro avviato. Senza il suo lungo, pazientissimo lavoro di preparazione e presentazione alle diverse comunità locali, mai saremmo riusciti, da Pavia, col nostro Istituto storico e i suoi pur eccellenti collaboratori - Bossi, prima, poi Cavallini - a organizzare quegli incontri con interi paesi, che caratterizzarono la lunga ricerca, presenti in gran numero comandanti, partigiani, più e meno anziani testimoni delle vicende che in questo modo, pazientemente, riuscivamo, tassello dopo tassello, a ricostruire.
Il sig. Piazzardi, per la stessa attività - nel settore dell’autotrasporto - così a lungo esercitata dalla sua famiglia nel Varzese, era senz’altro in grado di aprire tante porte e mettere in comunicazione con forestieri - come inevitabilmente eravamo percepiti - uomini e donne per radicate consuetudini tanto giustamente prudenti quanto scarsamente propensi a dar confidenza a estranei. Quando, del resto, quella chiave non fosse bastata, ne avremmo avuto fortunatamente a disposizione un’altra, perché sull’opportunità di quella raccolta di testimonianze molto aveva insistito, a Pavia, un altro indimenticabile protagonista di quella storia: Carlo Barbieri - il commissario e poi comandante ‘Ciro’ - . E ‘Ciro’ era un amato e rispettato comunista, la cui autorità, non solo come valoroso partigiano ma altresì come uomo di partito, era in grado di aprirci tante altre porte.
Le testimonianze in tal modo raccolte spaziavano, poi, ben oltre i racconti di chi si era battuto, armi in pugno, dall’una come dall’altra parte. Si trattava di uomini, donne, ragazzi che al dramma avevano, volenti o nolenti, in vario modo partecipato. E partecipato in modo tanto più attivo - e diciamo pure forzatamente attivo - che non nelle guerre tradizionali, l’ultima delle quali sembrava essersi conclusa l’8 settembre del ’43.
Non era, d’altronde, quella avviata subito dopo - e qui, da noi, diventata sempre più impegnativa dalla primavera del ’44 - una guerra riconducibile alle memorie di chi, tra il ’15 e il ’18, aveva combattuto sul Carso o sul Piave, né a quel che delle guerre si leggeva sui libri di scuola o si sentiva raccontare da maestri più o meno patriotticamente infervorati. Paola Profumo, mia coetanea, sfollata con la famiglia da Genova a Varzi, scriverà, riandando alle impressioni d’allora, che “era una guerra strana”, priva della “gloria severa della trincea”, una guerra che stava dappertutto, senza un fronte - amici da una parte, nemici dall’altra - una “confusione” che “non lasciava distinguere patrie o eserciti”[1].
Una guerra strana, certo, capace di entrare nel bel mezzo di una famiglia e spaccarla in due. Giusto come nel caso della mia coscritta: con uno dei suoi fratelli alpino di Salò e un altro addirittura capo di una missione americana a sostegno della Resistenza tra Piemonte, Liguria e Lombardia. E non era certo un caso isolato. Una guerra che, diversamente da quelle ricordate dagli anziani, consentiva un ventaglio di scelte, tutte, beninteso, rischiose: perché militare coi Repubblicani non era, alla lunga, tanto meno pericoloso che entrare nella Resistenza, e anche restare uccel di bosco, evitando sia l’uno sia l’altro impegno, era una scelta certo non approvata ma accettata dalla Resistenza e però dai Neofascisti duramente combattuta. Così da risultar poi fondamentale nel motivare tanti ragazzi a farsi partigiani.
Era, ancora, una guerra strana perché, se il Mussolini in versione socialrepubblicana si sarebbe ritrovato accanto qualche malinconico retaggio del suo passato socialista nonché troppi giovanotti alla ricerca di un immaginario onore e della bella morte, dall’altra parte, a costituire i quadri dell’esercito partigiano, sarebbero state giovani brillanti speranze del passato ventennio, reduci e ammaestrate dall’esperienza dei diversi fronti - africano, greco, jugoslavo, sovietico - quali, ad esempio, tra noi, Felice Alberti, Giovanni Antoninetti, Franco Draghi[2], Giuseppe Ridella, sicché, come in modo solo apparentemente paradossale sintetizzerà Lucio Ceva, la Resistenza l’avrebbero fatta, in definitiva, e in buona misura, fascisti o - volendo esser precisi - exfascisti. Senza la loro esperienza e presenza, gli antifascisti della prima ora, i reduci delle brigate internazionali nella guerra di Spagna - come, il più noto tra noi, ‘Riccardo’, Alfredo Mordini - gli ex confinati o incarcerati - come, ancora nel nostro caso, Carlo Lombardi, il garibaldino ‘Remo’ - non sarebbero bastati al compito ben oneroso di dar corpo al sogno di un esercito partigiano coltivato da Parri, Longo, Mattei, Bonfantini.
Una guerra strana ma anche, per così dire, più ‘vera’, più ‘sincera’ di quelle tradizionali, innanzi tutto perché frutto di una scelta individuale. Luchino Dal Verme ne ha tante volte raccontato - tanto meglio e più convincentemente di come potrei far io - il lungo, difficile travaglio. Una guerra più o meno condizionata, certo, da fattori familiari e ambientali, ma in definitiva sempre frutto di scelta, dunque di libertà e come tale, rispetto a un passato non solo prossimo - fascista - ma anche remoto - quello, in buona parte almeno, dello Stato nato dal Risorgimento - assolutamente e più rivoluzionaria. E per ciò stesso capace - andrà sottolineato - di far emergere abilità e doti pressoché ignorate dagli stessi soggetti che se ne sarebbero ritrovati portatori in quelle condizioni di eccezionalità. Qualità e doti, poi, che, una volta ristabilita una più o meno normale quotidianità, si sarebbero facilmente offuscate, perché quel che la normalità richiedeva sarebbe stato diverso da quello che nell’eccezionalità delle situazioni era risultato indispensabile. Donde rimpianti, nostalgie. E miti, non molto diversi, del resto, da quelli che avevano accompagnato la costruzione - almeno nei suoi risvolti rivoluzionari - dello Stato nazionale, la cosiddetta ‘Resistenza tradita’ molto potendo richiamare di un Risorgimento democratico, pure, in precedenza, dichiarato ‘tradito’.
Una guerra strana, che appunto per i suoi risvolti rivoluzionari poteva metter in discussione situazioni precedentemente date più o meno per immutabili, come, per venir più vicini a noi, una supremazia di Varzi, del suo mercato, dei suoi commercianti, ritenuta pressoché naturale rispetto al circondario e ai suoi contadini, risultando, questi ultimi, o almeno i loro figli, ora animati - nei timori manifestati non solo, e a ragione, a Varzi, ma pure da più di un comandante o commissario partigiano - da un desiderio di rivalsa: tale da poter causare, in prospettiva, grossi guai a tutto il Movimento.
Foto sopra a sinistra il partigiano Domenico Mezzadra, nome di battaglia "Americano", 25 anni, comandante della Divisione "Aliotta". Foto sopra a destra un "Avviso" per i Repubblichini, pubblicato su "Il Garibaldino" del 20 ottobre 1944.
Quando recalcitrava a una conquista partigiana di Varzi, Domenico Mezzadra, il tenace comandante garibaldino ‘Americano’, non era d’altronde il solo a pensarla localmente così tra i responsabili del Movimento. E ciò, si osservi, sia dopo i brillanti successi conseguiti nel luglio del ’44 non solo contro Fiorentini e la sua Sicherheit, ma pure sugli allievi ufficiali della GNR - e proprio lui ne era stato tra i più brillanti protagonisti - sia dopo il drammatico rastrellamento di fine agosto ad opera, nella fattispecie, della “Monterosa”, quando i reparti alpini, a rastrellamento concluso, erano stati dispersi - Mussolini, scontento, la definiva ‘polverizzazione’ - a presidiare medi e piccoli centri delle nostre vallate.
Opponendosi a chi, come Ansaldi - l’amato comandante partigiano varzese - quella conquista armi in pugno sognava anche come riscatto e affermazione non solo militare e politica ma insieme sociale, individuale e collettiva - semplificando al massimo: ragazzi ricchi solo di coraggio contro sfruttatori dell’altrui miseria, la povera, onesta montagna contro la ricca, corrotta città - l’ ‘Americano’ e non solo lui, tra i responsabili politici del Movimento, come, ad esempio, da Milano Giorgio Agliani, si schierava, a ben vedere, contro una certa idea della Resistenza. Che, se fosse prevalsa, avrebbe aperto scenari apocalittici, paragonabili a quelli balcanici. Sostituendo, in sostanza, le logiche, i comportamenti di una guerra di classe a quell’idea di una guerra, viceversa, di liberazione, che era sostenuta da tutto l’apparato di guida del Movimento a livello nazionale.
Che poi potessero verificarsi smagliature, scivolate d’ala senz’altro pericolose da parte di politici bruscamente passati da pluriennali, estenuanti esperienze di carcere e confino alla guida di formazioni partigiane e all’organizzazione di territori strappati ai repubblicani - come giusto a Varzi - sarebbe stato, diremmo, più o meno fatale. E la vicenda di Carlo Lombardi, incolpato di deviazioni settarie per talune tesi - appunto classiste - pubblicate dal “Garibaldino”, il giornale partigiano - dopo la conquista di Varzi, sarebbe stata, al riguardo, esemplare. Ma col suo trasferimento ad altra, lontana zona operativa, altrettanto esemplare si sarebbe configurata la reazione delle centrali operative del Movimento. Il quale, senza distinzioni tra i rappresentanti delle sue diverse anime politiche, non solo negava con forza l’idea di una guerra di classe, ma addirittura anche quella di una guerra civile[3]. Un’idea, quest’ultima, che, pure, la presenza non solo di miserabili polizie quale, qui da noi, il reparto organizzato da Alfieri e capitanato poi da Fiorentini, ma di GNR, Brigate Nere, Decima Mas, e divisioni militari vere e proprie come San Marco, Monterosa, Littorio, Italia, avrebbe pur potuto giustificare.
Sempre per restare nel nostro campo di osservazione, si rifletta, del resto, sul significato dell’appello lanciato ai primi di novembre del ‘44 da Luchino Dal Verme ai suoi ragazzi, invitati a discriminare l’ “odiato tedesco” dai “fratelli italiani” che lo affiancavano: non facendo mancare ai primi “una pallottola”, ai secondi “comprensione”. Perché, tra gli Italiani schierati con Salò, accanto ai “traditori”, che meritavano solo “la morte”, non mancavano “illusi” e “ingenui”, per i quali - sosteneva Dal Verme - “una parola” sarebbe valsa “più di una pallottola”[4].
Semplificatoria, quell’immagine della montagna povera e sfruttata dalla ricca Varzi - partigiana la prima, inevitabilmente fascista la seconda - era pure, d’altronde, storicamente falsa. Intanto perché l’adesione al fascismo non era stata solo caratteristica di una parte consistente dei benestanti varzesi, avendo coinvolto, negli anni Venti, tanti piccoli proprietari e coltivatori diretti dell’Oltrepò. E ciò, in sostanza, come reazione a un Socialismo ritenuto portatore di spoliazione tout court della proprietà, fondiaria nella fattispecie, grande o piccola che fosse. Di conseguenza abbandonando, molti di loro, un Partito Popolare - inizialmente maggioritario nella nostra montagna - perché ritenuto incapace di contenere la spinta ‘rossa’, e spostando il proprio voto su liste e candidati al riguardo tanto più - e violentemente - decisi .
La guerra follemente dichiarata nel ‘40 col suo drammatico seguito di sciagure - i ragazzi lontani, gli anziani e le donne costretti a raddoppiare fatiche solo in parte compensate dai proventi del ‘libero mercato’ (la cosiddetta borsa nera), i fertilizzanti razionati, gli ammassi obbligatori, le consegne forzose di bestiame e legna, i trasporti sempre più difficili e i conseguenti rialzi nei costi di generi non prodotti localmente, come il sale e l’olio, e via enumerando - aveva poi comunque sottratto al Regime e ai suoi rappresentanti locali gran parte di quelle simpatie. Siché, più che di adesione, per un certo numero di famiglie varzesi, si trattava ormai solo di ancoraggio a un potere ritenuto ancora capace di protezione da un drammatico, incombente pericolo. E che non fossero timori fasulli avrebbero poi dimostrato i fatti, a conquista partigiana ancora in corso.
Ma si poteva per questo concludere che Varzi fosse fascista? Forse che a Varzi come in tanti altri centri, piccoli e meno piccoli, della valle non si erano dati, come altrove, segni manifesti di tutt’altre simpatie? Il comportamento del tutto spontaneo delle sorelle Camporotondo, delle loro amiche De Benedetti e Romagnese, nel portar aiuto agli ex-prigionieri alleati rifugiati nei boschi tra Mossago e Oramala[5], simile a quelli largamente diffusi in tutta la nostra provincia, in Lomellina e nel Vigevanasco non diversamente che nel Pavese e in Oltrepò, non ne era, già all’indomani dell’8 settembre, un segno chiaro? Le stesse modalità operative, agevolmente definibili come isteriche, della Sichereit a Varzi e dintorni nell’estate del ’44 l’avrebbero confermato. E del resto, a fine gennaio del ’45, le informazioni raccolte in via riservata sempre a Varzi, allora - si badi - in mano ai repubblicani, e trasmesse al comando pavese della GNR, avrebbero precisato che “l’autorità civile (…) e la maggior parte della popolazione civile” erano “di idee prettamente partigiane”. Notazione ulteriormente significativa, alla luce di quanto poc’anzi ricordato: “Le donne del paese, in special modo, sostengono ed aiutano con tutti i mezzi il movimento partigiano”[6].
A forzar la mano all’Americano e a chi condivideva i suoi timori, portando i partigiani a prender Varzi, sarebbero poi stati, imprevedibilmente, gli stessi comandanti del reparto alpino qui stanziato da non più di una decina di giorni. Perché, presto avviato lo sgretolamento dell’avamposto di Ponte Nizza ad opera dei contatti con la popolazione e coi partigiani di ‘Ciro’, e per assicurare l’ordinato rientro del nucleo superstite essendosi mossa dal capoluogo, col comandante, una buona parte dell’intera guarnigione, quel movimento era stato interpretato come un abbandono, donde la corsa a perdifiato del bravo Gigi Debenedetti da Varzi a Cella ad avvertirne Ansaldi, e l’ordine conseguentemente impartito all’intera Brigata, le cui due colonne, una da Castellaro, l’altra da Cignolo, guidate da Ansaldi e Ginetto Centenaro, sarebbero calate su Varzi, giusto in tempo per scontrarsi, nelle prime ombre della sera, alla sua immediata periferia, con gli alpini che stavano rientrando dalla loro missione di soccorso a Ponte Nizza.
Della lunga battaglia, combattutta tra il 18 e il 21 settembre del ’44, si è altre volte abbondantemente detto, coi suoi risvolti straordinariamente fortunosi - e diciamo pure fortunati - per gli assedianti nei confronti degli alpini assediati, pur dovendo gli attaccanti lamentare, a battaglia conclusa, cinque caduti: tre partigiani e due civili. E l’intervento fondamentale, propiziato da ‘Riccardo’, della pattuglia cecoslovacca con la sua micidiale mitragliatrice pesante. E ancora gli inutili tentativi del capitano repubblicano Terrabrami di ottenere un intervento esterno, che i Tedeschi di stanza ad Alessandria effettueranno solo a dramma concluso, per ragioni che i documenti esaminati non hanno sin qui consentito di spiegare compiutamente. E poi il progressivo convincimento, tra le file degli alpini assediati, delle buone ragioni degli assedianti. La cui pressione si era fatta, d’altronde, sempre più forte, col cruciale taglio delle condutture dell’acqua, in tal modo predisponendo a una trattativa che vedrà all’opera, accanto a due ‘maggiorenti’ locali - Renzo Celasco e Carlo Giacobone - un prete animoso, curato allora a Varzi: don Tino Padrini, uno di quei giovanotti in talare o in saio che - come don Rino Cristiani, Fra’ Gianni, don Giuseppe Pollarolo, e l’allora giovanissimo don Agostino Alberti - stavano offrendo al Movimento un sostegno tanto forte quanto convinto, senza in alcun modo abdicare alle ragioni e ai precetti del loro ministero.
Liberi gli alpini - secondo gli accordi presi tra le parti - di andarsene da Varzi col loro capitano e le armi individuali oppure separarsene per poi militare nelle file partigiane o fortunosamente tentar di tornare, se possibile, alle rispettive famiglie, il capitano vedrà con suo grande stupore la maggior parte dei suoi ragazzi - almeno 150 dei 170 che all’incirca erano - scegliere la seconda opzione, inevitabilmente lesiva per la sua stessa autorità e capacità di comando. Degli ufficiali, nessuno diserterà, mentre i sottufficiali, tutti meno uno, significativamente abbandoneranno il capitano.
Presa Varzi, cominciano, naturalmente, i problemi per chi, quel successo, deve gestire, possibilmente al meglio. Intanto è opportuno veder di contenere gli entusiasmi dei ragazzi che si son subito dati da fare nelle case della trentina di famiglie localmente ritenute di più stretta osservanza fascista, e non è compito facile. Quello partigiano non è un esercito regolare, e la disciplina va dosata - come ritiene nella fattispecie “l’Americano” - senza troppo pesare su giovanotti che si son messi volontariamente in gioco in quel duello mortale.
Altresì, e in fretta, si deve ragionare sulle conseguenze sia militari sia civili della vittoria. Quanto alle prime, Varzi, così amabilmente distesa nella sua bella conca valliva, non sembra consentire apprezzabili apprestamenti difensivi rispetto agli inevitabili ritorni in forze del nemico. Si deve, tra l’altro, tener conto del fatto che non solo Bobbio, diversamente da Varzi, è ancora in mano agli alpini, ma i partigiani di “Fausto” l’hanno isolata, tagliando le comunicazioni in val Trebbia sia a monte sia a valle del centro, restandone perciò gli indispensabili rifornimenti affidati, sino alla caduta di Varzi, all’agibilità delle comunicazioni dalla val Staffora. Verosimilmente, dunque, quella controffensiva che sin allora non si è - diciamo pure: incredibilmente - verificata, non dovrebbe tardare e i responsabili ritengono di non poterla seriamente contrastare. Così, quando, il 23 settembre, Tedeschi e Brigatisti genovesi ricevono l’ordine di riprender Varzi, muovendo da Ponte Nizza, dove già si trovavano accampati in attesa i Brigatisti, vengono sottoposti a un fuoco non più che di disturbo delle mitragliatrici partigiane dalle alture oltre Bagnaria, ma a Varzi partigiani non ne trovano.
Opponendosi a chi, come Ansaldi - l’amato comandante partigiano varzese - quella conquista armi in pugno sognava anche come riscatto e affermazione non solo militare e politica ma insieme sociale, individuale e collettiva - semplificando al massimo: ragazzi ricchi solo di coraggio contro sfruttatori dell’altrui miseria, la povera, onesta montagna contro la ricca, corrotta città - l’ ‘Americano’ e non solo lui, tra i responsabili politici del Movimento, come, ad esempio, da Milano Giorgio Agliani, si schierava, a ben vedere, contro una certa idea della Resistenza. Che, se fosse prevalsa, avrebbe aperto scenari apocalittici, paragonabili a quelli balcanici. Sostituendo, in sostanza, le logiche, i comportamenti di una guerra di classe a quell’idea di una guerra, viceversa, di liberazione, che era sostenuta da tutto l’apparato di guida del Movimento a livello nazionale.
Che poi potessero verificarsi smagliature, scivolate d’ala senz’altro pericolose da parte di politici bruscamente passati da pluriennali, estenuanti esperienze di carcere e confino alla guida di formazioni partigiane e all’organizzazione di territori strappati ai repubblicani - come giusto a Varzi - sarebbe stato, diremmo, più o meno fatale. E la vicenda di Carlo Lombardi, incolpato di deviazioni settarie per talune tesi - appunto classiste - pubblicate dal “Garibaldino”, il giornale partigiano - dopo la conquista di Varzi, sarebbe stata, al riguardo, esemplare. Ma col suo trasferimento ad altra, lontana zona operativa, altrettanto esemplare si sarebbe configurata la reazione delle centrali operative del Movimento. Il quale, senza distinzioni tra i rappresentanti delle sue diverse anime politiche, non solo negava con forza l’idea di una guerra di classe, ma addirittura anche quella di una guerra civile[3]. Un’idea, quest’ultima, che, pure, la presenza non solo di miserabili polizie quale, qui da noi, il reparto organizzato da Alfieri e capitanato poi da Fiorentini, ma di GNR, Brigate Nere, Decima Mas, e divisioni militari vere e proprie come San Marco, Monterosa, Littorio, Italia, avrebbe pur potuto giustificare.
Sempre per restare nel nostro campo di osservazione, si rifletta, del resto, sul significato dell’appello lanciato ai primi di novembre del ‘44 da Luchino Dal Verme ai suoi ragazzi, invitati a discriminare l’ “odiato tedesco” dai “fratelli italiani” che lo affiancavano: non facendo mancare ai primi “una pallottola”, ai secondi “comprensione”. Perché, tra gli Italiani schierati con Salò, accanto ai “traditori”, che meritavano solo “la morte”, non mancavano “illusi” e “ingenui”, per i quali - sosteneva Dal Verme - “una parola” sarebbe valsa “più di una pallottola”[4].
Semplificatoria, quell’immagine della montagna povera e sfruttata dalla ricca Varzi - partigiana la prima, inevitabilmente fascista la seconda - era pure, d’altronde, storicamente falsa. Intanto perché l’adesione al fascismo non era stata solo caratteristica di una parte consistente dei benestanti varzesi, avendo coinvolto, negli anni Venti, tanti piccoli proprietari e coltivatori diretti dell’Oltrepò. E ciò, in sostanza, come reazione a un Socialismo ritenuto portatore di spoliazione tout court della proprietà, fondiaria nella fattispecie, grande o piccola che fosse. Di conseguenza abbandonando, molti di loro, un Partito Popolare - inizialmente maggioritario nella nostra montagna - perché ritenuto incapace di contenere la spinta ‘rossa’, e spostando il proprio voto su liste e candidati al riguardo tanto più - e violentemente - decisi .
La guerra follemente dichiarata nel ‘40 col suo drammatico seguito di sciagure - i ragazzi lontani, gli anziani e le donne costretti a raddoppiare fatiche solo in parte compensate dai proventi del ‘libero mercato’ (la cosiddetta borsa nera), i fertilizzanti razionati, gli ammassi obbligatori, le consegne forzose di bestiame e legna, i trasporti sempre più difficili e i conseguenti rialzi nei costi di generi non prodotti localmente, come il sale e l’olio, e via enumerando - aveva poi comunque sottratto al Regime e ai suoi rappresentanti locali gran parte di quelle simpatie. Siché, più che di adesione, per un certo numero di famiglie varzesi, si trattava ormai solo di ancoraggio a un potere ritenuto ancora capace di protezione da un drammatico, incombente pericolo. E che non fossero timori fasulli avrebbero poi dimostrato i fatti, a conquista partigiana ancora in corso.
Ma si poteva per questo concludere che Varzi fosse fascista? Forse che a Varzi come in tanti altri centri, piccoli e meno piccoli, della valle non si erano dati, come altrove, segni manifesti di tutt’altre simpatie? Il comportamento del tutto spontaneo delle sorelle Camporotondo, delle loro amiche De Benedetti e Romagnese, nel portar aiuto agli ex-prigionieri alleati rifugiati nei boschi tra Mossago e Oramala[5], simile a quelli largamente diffusi in tutta la nostra provincia, in Lomellina e nel Vigevanasco non diversamente che nel Pavese e in Oltrepò, non ne era, già all’indomani dell’8 settembre, un segno chiaro? Le stesse modalità operative, agevolmente definibili come isteriche, della Sichereit a Varzi e dintorni nell’estate del ’44 l’avrebbero confermato. E del resto, a fine gennaio del ’45, le informazioni raccolte in via riservata sempre a Varzi, allora - si badi - in mano ai repubblicani, e trasmesse al comando pavese della GNR, avrebbero precisato che “l’autorità civile (…) e la maggior parte della popolazione civile” erano “di idee prettamente partigiane”. Notazione ulteriormente significativa, alla luce di quanto poc’anzi ricordato: “Le donne del paese, in special modo, sostengono ed aiutano con tutti i mezzi il movimento partigiano”[6].
A forzar la mano all’Americano e a chi condivideva i suoi timori, portando i partigiani a prender Varzi, sarebbero poi stati, imprevedibilmente, gli stessi comandanti del reparto alpino qui stanziato da non più di una decina di giorni. Perché, presto avviato lo sgretolamento dell’avamposto di Ponte Nizza ad opera dei contatti con la popolazione e coi partigiani di ‘Ciro’, e per assicurare l’ordinato rientro del nucleo superstite essendosi mossa dal capoluogo, col comandante, una buona parte dell’intera guarnigione, quel movimento era stato interpretato come un abbandono, donde la corsa a perdifiato del bravo Gigi Debenedetti da Varzi a Cella ad avvertirne Ansaldi, e l’ordine conseguentemente impartito all’intera Brigata, le cui due colonne, una da Castellaro, l’altra da Cignolo, guidate da Ansaldi e Ginetto Centenaro, sarebbero calate su Varzi, giusto in tempo per scontrarsi, nelle prime ombre della sera, alla sua immediata periferia, con gli alpini che stavano rientrando dalla loro missione di soccorso a Ponte Nizza.
Della lunga battaglia, combattutta tra il 18 e il 21 settembre del ’44, si è altre volte abbondantemente detto, coi suoi risvolti straordinariamente fortunosi - e diciamo pure fortunati - per gli assedianti nei confronti degli alpini assediati, pur dovendo gli attaccanti lamentare, a battaglia conclusa, cinque caduti: tre partigiani e due civili. E l’intervento fondamentale, propiziato da ‘Riccardo’, della pattuglia cecoslovacca con la sua micidiale mitragliatrice pesante. E ancora gli inutili tentativi del capitano repubblicano Terrabrami di ottenere un intervento esterno, che i Tedeschi di stanza ad Alessandria effettueranno solo a dramma concluso, per ragioni che i documenti esaminati non hanno sin qui consentito di spiegare compiutamente. E poi il progressivo convincimento, tra le file degli alpini assediati, delle buone ragioni degli assedianti. La cui pressione si era fatta, d’altronde, sempre più forte, col cruciale taglio delle condutture dell’acqua, in tal modo predisponendo a una trattativa che vedrà all’opera, accanto a due ‘maggiorenti’ locali - Renzo Celasco e Carlo Giacobone - un prete animoso, curato allora a Varzi: don Tino Padrini, uno di quei giovanotti in talare o in saio che - come don Rino Cristiani, Fra’ Gianni, don Giuseppe Pollarolo, e l’allora giovanissimo don Agostino Alberti - stavano offrendo al Movimento un sostegno tanto forte quanto convinto, senza in alcun modo abdicare alle ragioni e ai precetti del loro ministero.
Liberi gli alpini - secondo gli accordi presi tra le parti - di andarsene da Varzi col loro capitano e le armi individuali oppure separarsene per poi militare nelle file partigiane o fortunosamente tentar di tornare, se possibile, alle rispettive famiglie, il capitano vedrà con suo grande stupore la maggior parte dei suoi ragazzi - almeno 150 dei 170 che all’incirca erano - scegliere la seconda opzione, inevitabilmente lesiva per la sua stessa autorità e capacità di comando. Degli ufficiali, nessuno diserterà, mentre i sottufficiali, tutti meno uno, significativamente abbandoneranno il capitano.
Presa Varzi, cominciano, naturalmente, i problemi per chi, quel successo, deve gestire, possibilmente al meglio. Intanto è opportuno veder di contenere gli entusiasmi dei ragazzi che si son subito dati da fare nelle case della trentina di famiglie localmente ritenute di più stretta osservanza fascista, e non è compito facile. Quello partigiano non è un esercito regolare, e la disciplina va dosata - come ritiene nella fattispecie “l’Americano” - senza troppo pesare su giovanotti che si son messi volontariamente in gioco in quel duello mortale.
Altresì, e in fretta, si deve ragionare sulle conseguenze sia militari sia civili della vittoria. Quanto alle prime, Varzi, così amabilmente distesa nella sua bella conca valliva, non sembra consentire apprezzabili apprestamenti difensivi rispetto agli inevitabili ritorni in forze del nemico. Si deve, tra l’altro, tener conto del fatto che non solo Bobbio, diversamente da Varzi, è ancora in mano agli alpini, ma i partigiani di “Fausto” l’hanno isolata, tagliando le comunicazioni in val Trebbia sia a monte sia a valle del centro, restandone perciò gli indispensabili rifornimenti affidati, sino alla caduta di Varzi, all’agibilità delle comunicazioni dalla val Staffora. Verosimilmente, dunque, quella controffensiva che sin allora non si è - diciamo pure: incredibilmente - verificata, non dovrebbe tardare e i responsabili ritengono di non poterla seriamente contrastare. Così, quando, il 23 settembre, Tedeschi e Brigatisti genovesi ricevono l’ordine di riprender Varzi, muovendo da Ponte Nizza, dove già si trovavano accampati in attesa i Brigatisti, vengono sottoposti a un fuoco non più che di disturbo delle mitragliatrici partigiane dalle alture oltre Bagnaria, ma a Varzi partigiani non ne trovano.
Foto sopra: Varzi, la piazza con l'edificio del Municipio, anno 1945
Altrettanto saggiamente, Varzi è stata dichiarata, dai comandanti partigiani, “città aperta”[7]. Dove il Movimento, e per esso i responsabili garibaldini, manterrà il controllo sull’Amministrazione, ma valendosi innanzi tutto dell’apporto di quello stesso Commissario - l’avv. Fortunato Repetti, universalmente riconosciuto persona integerrima - che gestiva in precedenza la Civica amministrazione, coadiuvato da un eccellente segretario comunale - il sig. Bruno Barani - nominato e arrivato fortunosamente a ricoprire quell’incarico giusto mentre infuriava la battaglia tra partigiani e alpini. Mentre a costituire una specie di Giunta, eletta in un’assemblea pubblica dall’evidente forte significato politico e incaricata di collaborare con Repetti, pure confermato per elezione, si prestano specialmente alcuni rappresentanti del CLN, il Comitato clandestino di Liberazione interpartitico, sorto a suo tempo anche a Varzi e guidato da Guido Versari. Tra loro, ancora Versari ricorderà con particolare ammirazione Costantino Piazzardi e Giovanni Bergamini. Che, potremmo commentare, come altri membri del CLN, quale in primo luogo lo stesso Versari, rappresentavano quel meglio in fatto di competenza, onestà, dedizione al pubblico servizio che si sarebbe visto all’opera in tante situazioni eccezionali di quel tempo come dei primi anni postbellici - a prescindere, si osservi, dalle rispettive adesioni partitiche - un meglio inevitabilmente per lo più irripetibile poi, in situazioni di pacifica normalità.
La continuità, rappresentata da Repetti, tra la situazione precedente e quella successiva alla conquista partigiana, pur con un’epurazione dei quadri politico-amministrativi che avevano precedentemente gestito il Comune, varrà a porre al riparo non solo l’amministrazione, ma più in generale il Comune, coi suoi abitanti e i loro beni, da eventuali, immaginabili rappresaglie, eventualmente intese a colpire una comunità rea d’aver cooperato alla pesante sconfitta della guarnigione repubblicana. Perché non solo la necessità di rifornire la guarnigione di Bobbio per un buon mese dopo la caduta di Varzi, ma la stessa progressiva espansione del controllo partigiano sull’alto Oltrepò varranno a produrre pericolose puntate offensive tali da coinvolgere inevitabilmente la stessa Varzi. Che verrà, in tal modo, salvata, con poche, seppur dolorose perdite, sia nella prima sia nel corso di una seconda scorreria, al principio d’ottobre, prima dell’ultimo grande rastrellamento autunnale, ad opera della 162a “Turkestan”. Né a Varzi verranno collocati il Comando di Divisione e l’Intendenza della garibaldina “Aliotta”, che avrebbero potuto attirare e giustificare attacchi e rappresaglie. Ma non è che il primo passo sulla via di una gestione della vita collettiva che deve farsi, ovviamente, carico di una quantità di problemi e in primo luogo di quello annonario.
Nel ricordo di Versari, non sarebbero mancate difficoltà nel tentativo perseguito tenacemente dall’amministrazione di “vincere la speculazione e l’insensibilità” di operatori che “ammassavano ed esportavano clandestinamente grano, uova, latte e carne”, ovviamente destinati al mercato nero fuori zona. Piazzardi sottolineerà quanto e come operasse la Giunta per assicurare i rifornimenti soprattutto all’Ospedale, ricorrendo, se del caso, allo strumento coercitivo delle requisizioni, e in tal modo riuscendo ad alimentare - preciserà - “i numerosi ammalati e feriti stretti uno all’altro nel piccolo ospedale, spesso digiuni da diversi giorni”. Ancora Versari vorrà tuttavia precisare che “la stragrande maggioranza dei commercianti varzesi e i contadini delle zone limitrofe cooperarono lealmente” con la Giunta, sicché “si poterono soddisfare i bisogni dell’ospedale, dell’asilo, del ricovero dei vecchi, dei frati del convento e della popolazione” [8].
Lo schema varzese, in forme più semplici, si ripete con poche varianti in tutta l’area collinare e montana dell’Oltrepò sotto controllo partigiano. Dell’approvvigionamento alimentare, dal quale, in ultima analisi, dipende l’esistenza stessa delle formazioni, si occupano, generalmente, i rispettivi commissari, ai quali risultano in tal modo addossati compiti d’intendenza teoricamente non loro propri. E lo strumento principe resta la requisizione, con forme di pagamento rinviate alla Liberazione e attestate dal rilascio di specifici ‘buoni’. Ma sono attestate forme di coordinamento con la popolazione e di organizzazione di quest’ultima che riportano in vita modalità organizzative antiche. Così, ad esempio, Luchino dal Verme ricorderà come, per portare a buon fine l’approvvigionamento alimentare delle formazioni con le inevitabili requisizioni, risultasse fondamentale il “consenso degli anziani”.
Franco Costa, che a lungo inseguirà l’idea di un’efficiente organizzazione di serie Intendenze sia di Brigata (nello specifico, quando era stato aggregato alla “Crespi”) sia Divisionali, per l’ “Aliotta”, non mancherà d’altronde di rilevare come, nella fattispecie, nell’alta Val Tidone, dove pure non si erano date modalità più avanzate - diciamo democratiche - di rappresentanza delle rispettive popolazioni, si erano tuttavia manifestate “forme embrionali di collaborazione (…) intendendo soprattutto la volontà di sondare l’umore della popolazione da parte dei rappresentanti comunali”. Ciò che poteva realizzarsi, se non attraverso la nomina di “un vero rappresentante di frazione”, almeno interpellando “le persone più autorevoli del luogo”[9].
Quel che l’organizzazione, in forme diverse ma tendenzialmente univoche, viene a configurare progressivamente nel breve periodo di relativa quiete della zona libera è, poi, in sostanza, l’estrinsecazione di un tentativo di incanalare in forme sopportabili dalla popolazione lo scontro militare in atto, con l’accettazione per lo più tacita, da entrambe le parti in lotta, di relazioni che a entrambe conviene mantenere. Perché quel grano, quelle uova, quel latte, quella carne - che Versari giustamente si preoccupava non venissero a mancare ai bisogni alimentari di Varzi - eran poi prodotti di cui anche la pianura occupata dai repubblicani aveva bisogno, come, e anche più, della legna di cui la montagna abbondava, mentre nelle città, venendo progressivamente meno gli apporti di carbone d’oltre Brennero, i problemi non solo del riscaldamento - sia per le famiglie, sia per gli edifici destinati a usi pubblici, come, in particolare, le scuole - ma addirittura anche quelli più elementari della cottura dei cibi, si stavano facendo sempre più preoccupanti.
Appartenendo alla generazione che, non avendo partecipato alla lotta mortale in atto, è stata tuttavia coinvolta in questo genere di difficoltà, non ho certo dimenticato sia le lunghe - piacevoli per gli scolari, ma assai poco produttive - vacanze invernali adottate dalle autorità repubblicane giusto per scansare il problema, ma poi anche il grosso pezzo di legna che ogni studente era impegnato a portare la mattina in classe quando le scuole riaprivano i battenti, per alimentare la stufa di cui ogni aula era stata dotata. Né potrei dimenticare il passa-parola che una mattina - si era già nel ’45 - arrivò dal Municipio, col permesso di abbattere gli alberi - erano delle robuste acacie - del viale su cui si affacciava anche casa mia, perché altro ormai non c’era per far fuoco nelle cucine di città.
Già prima della presa di Varzi, quando ancora vi imperversava Fiorentini, che se ne sarebbe finalmente andato, poco dopo l’arrivo degli alpini - destinazione Broni - solo a mezzo settembre, il problema dei rapporti tra le aree rispettivamente controllate dai repubblicani e dai partigiani si era pertanto imposto, col tacito consenso agli spostamenti dalle une alle altre non solo di persone investite di compiti ufficiali quale poteva essere, nella fattispecie, un messo comunale, ma pure di chi attendeva al commercio di prodotti vitali per la sopravvivenza dei ‘civili’ in esse rispettivamente residenti.
S’intende - e ne erano ben coscienti entrambe le parti in lotta - che quei movimenti potevano coprire attività che col commercio e le trasmissioni di incartamenti burocratici avevano assai scarsa attinenza. Nella memoria dei responsabili partigiani via via interrogati si era, non per caso, fortemente impresso il ricordo di certi cercatori di pelli, specialmente di coniglio ma non solo, che in bicicletta, salendo dalla pianura, battevano la montagna e con le pelli tentavan poi verosimilmente di portar al piano informazioni preziose su consistenza, dislocazione, nomi di comandanti delle formazioni. Ancor più pericolosi per la stessa sopravvivenza del Movimento partigiano sarebbero stati, del resto, quegli informatori locali che, approfittando della relativa libertà di movimento accordata per le ragioni indicate, avrebbero con le loro delazioni mortalmente accresciuto i rischi dei partigiani rimasti in zona dopo il grande rastrellamento di fine anno, che aveva scompaginato l’intera organizzazione.
Cesare Pozzi, il popolare comandante “Fusco” della formazione matteottina operante in area collinare, ricorderà come, spostandosi nei difficili mesi invernali dall’una all’altra cascina col pugno di ragazzi e ragazze che gli eran rimasti accanto dopo il devastante scontro con la “Turkestan”, fosse solito lasciar cadere - come gli fosse sfuggito - il nome del paese o della cascina in cui aveva deciso di passar la notte, regolarmente poi evitandoli, sicuro com’era - e i fatti gli davano puntualmente ragione - che nella cascina o paese della prima indicazione sarebbero quella stessa notte regolarmente piombati gli sgherri della Sicherheit.
La continuità, rappresentata da Repetti, tra la situazione precedente e quella successiva alla conquista partigiana, pur con un’epurazione dei quadri politico-amministrativi che avevano precedentemente gestito il Comune, varrà a porre al riparo non solo l’amministrazione, ma più in generale il Comune, coi suoi abitanti e i loro beni, da eventuali, immaginabili rappresaglie, eventualmente intese a colpire una comunità rea d’aver cooperato alla pesante sconfitta della guarnigione repubblicana. Perché non solo la necessità di rifornire la guarnigione di Bobbio per un buon mese dopo la caduta di Varzi, ma la stessa progressiva espansione del controllo partigiano sull’alto Oltrepò varranno a produrre pericolose puntate offensive tali da coinvolgere inevitabilmente la stessa Varzi. Che verrà, in tal modo, salvata, con poche, seppur dolorose perdite, sia nella prima sia nel corso di una seconda scorreria, al principio d’ottobre, prima dell’ultimo grande rastrellamento autunnale, ad opera della 162a “Turkestan”. Né a Varzi verranno collocati il Comando di Divisione e l’Intendenza della garibaldina “Aliotta”, che avrebbero potuto attirare e giustificare attacchi e rappresaglie. Ma non è che il primo passo sulla via di una gestione della vita collettiva che deve farsi, ovviamente, carico di una quantità di problemi e in primo luogo di quello annonario.
Nel ricordo di Versari, non sarebbero mancate difficoltà nel tentativo perseguito tenacemente dall’amministrazione di “vincere la speculazione e l’insensibilità” di operatori che “ammassavano ed esportavano clandestinamente grano, uova, latte e carne”, ovviamente destinati al mercato nero fuori zona. Piazzardi sottolineerà quanto e come operasse la Giunta per assicurare i rifornimenti soprattutto all’Ospedale, ricorrendo, se del caso, allo strumento coercitivo delle requisizioni, e in tal modo riuscendo ad alimentare - preciserà - “i numerosi ammalati e feriti stretti uno all’altro nel piccolo ospedale, spesso digiuni da diversi giorni”. Ancora Versari vorrà tuttavia precisare che “la stragrande maggioranza dei commercianti varzesi e i contadini delle zone limitrofe cooperarono lealmente” con la Giunta, sicché “si poterono soddisfare i bisogni dell’ospedale, dell’asilo, del ricovero dei vecchi, dei frati del convento e della popolazione” [8].
Lo schema varzese, in forme più semplici, si ripete con poche varianti in tutta l’area collinare e montana dell’Oltrepò sotto controllo partigiano. Dell’approvvigionamento alimentare, dal quale, in ultima analisi, dipende l’esistenza stessa delle formazioni, si occupano, generalmente, i rispettivi commissari, ai quali risultano in tal modo addossati compiti d’intendenza teoricamente non loro propri. E lo strumento principe resta la requisizione, con forme di pagamento rinviate alla Liberazione e attestate dal rilascio di specifici ‘buoni’. Ma sono attestate forme di coordinamento con la popolazione e di organizzazione di quest’ultima che riportano in vita modalità organizzative antiche. Così, ad esempio, Luchino dal Verme ricorderà come, per portare a buon fine l’approvvigionamento alimentare delle formazioni con le inevitabili requisizioni, risultasse fondamentale il “consenso degli anziani”.
Franco Costa, che a lungo inseguirà l’idea di un’efficiente organizzazione di serie Intendenze sia di Brigata (nello specifico, quando era stato aggregato alla “Crespi”) sia Divisionali, per l’ “Aliotta”, non mancherà d’altronde di rilevare come, nella fattispecie, nell’alta Val Tidone, dove pure non si erano date modalità più avanzate - diciamo democratiche - di rappresentanza delle rispettive popolazioni, si erano tuttavia manifestate “forme embrionali di collaborazione (…) intendendo soprattutto la volontà di sondare l’umore della popolazione da parte dei rappresentanti comunali”. Ciò che poteva realizzarsi, se non attraverso la nomina di “un vero rappresentante di frazione”, almeno interpellando “le persone più autorevoli del luogo”[9].
Quel che l’organizzazione, in forme diverse ma tendenzialmente univoche, viene a configurare progressivamente nel breve periodo di relativa quiete della zona libera è, poi, in sostanza, l’estrinsecazione di un tentativo di incanalare in forme sopportabili dalla popolazione lo scontro militare in atto, con l’accettazione per lo più tacita, da entrambe le parti in lotta, di relazioni che a entrambe conviene mantenere. Perché quel grano, quelle uova, quel latte, quella carne - che Versari giustamente si preoccupava non venissero a mancare ai bisogni alimentari di Varzi - eran poi prodotti di cui anche la pianura occupata dai repubblicani aveva bisogno, come, e anche più, della legna di cui la montagna abbondava, mentre nelle città, venendo progressivamente meno gli apporti di carbone d’oltre Brennero, i problemi non solo del riscaldamento - sia per le famiglie, sia per gli edifici destinati a usi pubblici, come, in particolare, le scuole - ma addirittura anche quelli più elementari della cottura dei cibi, si stavano facendo sempre più preoccupanti.
Appartenendo alla generazione che, non avendo partecipato alla lotta mortale in atto, è stata tuttavia coinvolta in questo genere di difficoltà, non ho certo dimenticato sia le lunghe - piacevoli per gli scolari, ma assai poco produttive - vacanze invernali adottate dalle autorità repubblicane giusto per scansare il problema, ma poi anche il grosso pezzo di legna che ogni studente era impegnato a portare la mattina in classe quando le scuole riaprivano i battenti, per alimentare la stufa di cui ogni aula era stata dotata. Né potrei dimenticare il passa-parola che una mattina - si era già nel ’45 - arrivò dal Municipio, col permesso di abbattere gli alberi - erano delle robuste acacie - del viale su cui si affacciava anche casa mia, perché altro ormai non c’era per far fuoco nelle cucine di città.
Già prima della presa di Varzi, quando ancora vi imperversava Fiorentini, che se ne sarebbe finalmente andato, poco dopo l’arrivo degli alpini - destinazione Broni - solo a mezzo settembre, il problema dei rapporti tra le aree rispettivamente controllate dai repubblicani e dai partigiani si era pertanto imposto, col tacito consenso agli spostamenti dalle une alle altre non solo di persone investite di compiti ufficiali quale poteva essere, nella fattispecie, un messo comunale, ma pure di chi attendeva al commercio di prodotti vitali per la sopravvivenza dei ‘civili’ in esse rispettivamente residenti.
S’intende - e ne erano ben coscienti entrambe le parti in lotta - che quei movimenti potevano coprire attività che col commercio e le trasmissioni di incartamenti burocratici avevano assai scarsa attinenza. Nella memoria dei responsabili partigiani via via interrogati si era, non per caso, fortemente impresso il ricordo di certi cercatori di pelli, specialmente di coniglio ma non solo, che in bicicletta, salendo dalla pianura, battevano la montagna e con le pelli tentavan poi verosimilmente di portar al piano informazioni preziose su consistenza, dislocazione, nomi di comandanti delle formazioni. Ancor più pericolosi per la stessa sopravvivenza del Movimento partigiano sarebbero stati, del resto, quegli informatori locali che, approfittando della relativa libertà di movimento accordata per le ragioni indicate, avrebbero con le loro delazioni mortalmente accresciuto i rischi dei partigiani rimasti in zona dopo il grande rastrellamento di fine anno, che aveva scompaginato l’intera organizzazione.
Cesare Pozzi, il popolare comandante “Fusco” della formazione matteottina operante in area collinare, ricorderà come, spostandosi nei difficili mesi invernali dall’una all’altra cascina col pugno di ragazzi e ragazze che gli eran rimasti accanto dopo il devastante scontro con la “Turkestan”, fosse solito lasciar cadere - come gli fosse sfuggito - il nome del paese o della cascina in cui aveva deciso di passar la notte, regolarmente poi evitandoli, sicuro com’era - e i fatti gli davano puntualmente ragione - che nella cascina o paese della prima indicazione sarebbero quella stessa notte regolarmente piombati gli sgherri della Sicherheit.
Foto sopra, da sinistra a destra: Angelo Ansaldi, "Primula Rossa", 1945; lapide in ricordo di Lauretta Romagnesi.
Da cosa poi nascesse questa precisa volontà di nuocere, prima forse che alla Resistenza, a suoi singoli rappresentanti, non è senz’altro spiegabile in modo univoco. Ragioni ideologiche penso in molti casi valessero a nobilitare odi atavici di paese, perpetuati sull’arco di più generazioni, spesso originati da cause altrove e in tempi successivi pressoché incomprensibili. Ma potevan darsi anche ragioni assai più vicine nel tempo, come fu pressoché sicuramente quella le cui conseguenze avrebbero portato al guasto irreparabile del fisico, togliendo, alla lunga, anche il gusto di vivere ad Ansaldi, la “Primula rossa” comandante della “Capettini”.
La regola voleva naturalmente le sue eccezioni. E in un paese sotto questo profilo davvero eccezionale mi sarei imbattuto la volta che l’Istituto organizzò una raccolta di testimonianze a Dezza, auspice Piazzardi, col supporto dell’amico ‘Vigei’ Pollini, della Costa di Montemartino. All’epoca pressoché deserto, perché dopo la guerra il richiamo della pianura era stato irresistibile e il paese sarebbe risorto a nuova vita solo in seguito, in virtù di turismo e seconde case, ci aveva accolto tuttavia in quel vuoto, con qualche amico d’allora, Gino Zuffi, la cui scorreria al Brallo, nella tarda primavera del ’44, si può ben dire fosse stata la prima iniziativa - o, per dirla in modo più aulico, il battesimo del fuoco - del gruppo che avrebbe poi dato origine alla “Capettini”.
Dezza, da tutte le fonti esaminate, dell’una come dell’altra parte in lotta, era risultata del tutto esente da quelle delazioni che altrove avevano tanto spesso marchiato a fuoco paesi e famiglie. Curioso di capire perché, la risposta di Zuffi fu disarmante: “ci volevamo troppo bene”. Non era retorica. I ragazzi della banda originaria del paese avrebbero confermato: “quando c’era una battaglia - così uno di loro - si andava, tranquilli”. Perché, avrebbe precisato un altro, “si era sicuri che ognuno avrebbe fatto la propria parte”. E da Bobbio le puntate offensive che pur s’erano inevitabilmente date - anche perché i Tedeschi, a Bobbio di stanza dopo il grande rastrellamento, sapevano della presenza in paese dei loro disertori cecoslovacchi: quelli che tanta parte avevano avuto nella battaglia per Varzi -, non avevano provocato a Dezza gli effetti devastanti altrove lamentati, dovuti a incendi e distruzioni mirate, a seguito di altrettante, precise delazioni.
Sicurezza e annona erano poi, a ben vedere, le due facce di un unico fondamentale problema: il controllo del territorio. E ben s’intende come, in diverse circostanze e occasioni, l’uno o l’altro contendente avrebbe voluto incanalare in forme per così dire regolari - o, altrimenti detto, tradizionali - l’aspro confronto - o, per dirla ancora con Paola Profumo, la confusione - che, teoricamente in atto subito all’indomani dell’8 settembre del ‘43, era progressivamente cresciuta nel nostro Oltrepò dalla primavera del ’44, e nella vittoria a Varzi del successivo settembre aveva segnato uno dei suoi momenti più significativi. Giusto alla vigilia di quello che poi sarebbe passato nella pubblica memoria come il rastrellamento “dei mongoli” si sarebbe quindi situato un evento che di quella volontà sarebbe stata in Oltrepò l’espressione forse più emblematica.
All’incontro del 17 novembre a Sanguignano, in Valle Ardivestra, tra i rappresentanti delle due parti in conflitto, cui mi riferisco, di poco precedente l’inizio del grande rastrellamento operato dal generale von Heygendorff e dalla sua “Turkestan”, andrà subito detto come il nostro Movimento partigiano arrivasse con la buona coscienza di aver non solo più o meno felicemente, ma sempre decisamente, contrastato combattendo il nemico, ma pure di aver saputo progressivamente avviare forme di amministrazione del territorio liberato e controllato volte, per quanto possibile, ad assicurare e se possibile migliorare le condizioni di vita delle popolazioni interessate.
Così, nella fattispecie a Varzi, non ci si era occupati solo di annona e sicurezza in linea generale, ma pure di ordine pubblico, con l’istituzione di una “Guardia civica”, e di istruzione, con la ripresa, più o meno regolare, delle lezioni nella scuola elementare, e ancora di lavori pubblici, avviando la ricostruzione di edifici colonici devastati dai precedenti rastrellamenti e addirittura provvedendo all’allacciamento alla rete di illuminazione elettrica di frazioni che ne erano sin allora rimaste escluse. A proposito del quale, per quell’eterogenesi dei fini anche ironica che fa, non raramente, capolino fra le pagine della storia, grande o meno che sia, andrà pure ricordato come dei lavori a questo preciso scopo condotti tra Varzi e Monteforte e del relativo filo conduttore si sarebbero giovati i rastrellatori della “Turkestan” per sorprendere i garibaldini che a Monteforte stavano in totale tranquillità di presidio, convinti com’erano d’esser ben protetti dalle postazioni collocate sulla strada normale d’accesso a quella fortezza naturale[10].
Perché poi si fosse arrivati a quell’incontro a Sanguignano non è difficile capire, pur che si lascino parlare documenti e testimoni.
Il Movimento aveva nell’estate acquisito un apporto individuale - quello di Italo Pietra - per ragioni familiari legato all’Oltrepo’, che nel prosieguo si sarebbe dimostrato prezioso, soprattutto nelle viste e per il diretto intervento dei responsabili milanesi. Pietra, portatore di un’esperienza non solo, tout court, militare ma anche nei Servizi segreti del regio esercito, aveva presto assunto in Oltrepò le funzioni di ascoltato consigliere. Tanto capace e persuasivo da riuscire a convincere Orfeo Landini , il coriaceo commissario “Piero”, dell’opportunità di quell’incontro in terreno neutro con tedeschi e repubblicani di cui si conoscevano precedenti, seguiti da precisi accordi tra le parti, in aree non controllate da formazioni garibaldine o gielliste e da queste ultime seccamente condannati.
La regola voleva naturalmente le sue eccezioni. E in un paese sotto questo profilo davvero eccezionale mi sarei imbattuto la volta che l’Istituto organizzò una raccolta di testimonianze a Dezza, auspice Piazzardi, col supporto dell’amico ‘Vigei’ Pollini, della Costa di Montemartino. All’epoca pressoché deserto, perché dopo la guerra il richiamo della pianura era stato irresistibile e il paese sarebbe risorto a nuova vita solo in seguito, in virtù di turismo e seconde case, ci aveva accolto tuttavia in quel vuoto, con qualche amico d’allora, Gino Zuffi, la cui scorreria al Brallo, nella tarda primavera del ’44, si può ben dire fosse stata la prima iniziativa - o, per dirla in modo più aulico, il battesimo del fuoco - del gruppo che avrebbe poi dato origine alla “Capettini”.
Dezza, da tutte le fonti esaminate, dell’una come dell’altra parte in lotta, era risultata del tutto esente da quelle delazioni che altrove avevano tanto spesso marchiato a fuoco paesi e famiglie. Curioso di capire perché, la risposta di Zuffi fu disarmante: “ci volevamo troppo bene”. Non era retorica. I ragazzi della banda originaria del paese avrebbero confermato: “quando c’era una battaglia - così uno di loro - si andava, tranquilli”. Perché, avrebbe precisato un altro, “si era sicuri che ognuno avrebbe fatto la propria parte”. E da Bobbio le puntate offensive che pur s’erano inevitabilmente date - anche perché i Tedeschi, a Bobbio di stanza dopo il grande rastrellamento, sapevano della presenza in paese dei loro disertori cecoslovacchi: quelli che tanta parte avevano avuto nella battaglia per Varzi -, non avevano provocato a Dezza gli effetti devastanti altrove lamentati, dovuti a incendi e distruzioni mirate, a seguito di altrettante, precise delazioni.
Sicurezza e annona erano poi, a ben vedere, le due facce di un unico fondamentale problema: il controllo del territorio. E ben s’intende come, in diverse circostanze e occasioni, l’uno o l’altro contendente avrebbe voluto incanalare in forme per così dire regolari - o, altrimenti detto, tradizionali - l’aspro confronto - o, per dirla ancora con Paola Profumo, la confusione - che, teoricamente in atto subito all’indomani dell’8 settembre del ‘43, era progressivamente cresciuta nel nostro Oltrepò dalla primavera del ’44, e nella vittoria a Varzi del successivo settembre aveva segnato uno dei suoi momenti più significativi. Giusto alla vigilia di quello che poi sarebbe passato nella pubblica memoria come il rastrellamento “dei mongoli” si sarebbe quindi situato un evento che di quella volontà sarebbe stata in Oltrepò l’espressione forse più emblematica.
All’incontro del 17 novembre a Sanguignano, in Valle Ardivestra, tra i rappresentanti delle due parti in conflitto, cui mi riferisco, di poco precedente l’inizio del grande rastrellamento operato dal generale von Heygendorff e dalla sua “Turkestan”, andrà subito detto come il nostro Movimento partigiano arrivasse con la buona coscienza di aver non solo più o meno felicemente, ma sempre decisamente, contrastato combattendo il nemico, ma pure di aver saputo progressivamente avviare forme di amministrazione del territorio liberato e controllato volte, per quanto possibile, ad assicurare e se possibile migliorare le condizioni di vita delle popolazioni interessate.
Così, nella fattispecie a Varzi, non ci si era occupati solo di annona e sicurezza in linea generale, ma pure di ordine pubblico, con l’istituzione di una “Guardia civica”, e di istruzione, con la ripresa, più o meno regolare, delle lezioni nella scuola elementare, e ancora di lavori pubblici, avviando la ricostruzione di edifici colonici devastati dai precedenti rastrellamenti e addirittura provvedendo all’allacciamento alla rete di illuminazione elettrica di frazioni che ne erano sin allora rimaste escluse. A proposito del quale, per quell’eterogenesi dei fini anche ironica che fa, non raramente, capolino fra le pagine della storia, grande o meno che sia, andrà pure ricordato come dei lavori a questo preciso scopo condotti tra Varzi e Monteforte e del relativo filo conduttore si sarebbero giovati i rastrellatori della “Turkestan” per sorprendere i garibaldini che a Monteforte stavano in totale tranquillità di presidio, convinti com’erano d’esser ben protetti dalle postazioni collocate sulla strada normale d’accesso a quella fortezza naturale[10].
Perché poi si fosse arrivati a quell’incontro a Sanguignano non è difficile capire, pur che si lascino parlare documenti e testimoni.
Il Movimento aveva nell’estate acquisito un apporto individuale - quello di Italo Pietra - per ragioni familiari legato all’Oltrepo’, che nel prosieguo si sarebbe dimostrato prezioso, soprattutto nelle viste e per il diretto intervento dei responsabili milanesi. Pietra, portatore di un’esperienza non solo, tout court, militare ma anche nei Servizi segreti del regio esercito, aveva presto assunto in Oltrepò le funzioni di ascoltato consigliere. Tanto capace e persuasivo da riuscire a convincere Orfeo Landini , il coriaceo commissario “Piero”, dell’opportunità di quell’incontro in terreno neutro con tedeschi e repubblicani di cui si conoscevano precedenti, seguiti da precisi accordi tra le parti, in aree non controllate da formazioni garibaldine o gielliste e da queste ultime seccamente condannati.
Foto sopra a sinistra: Varzi, 1944. Messa al campo officiata da "fra Gianni" (padre Giovanni Maria Tognazzi), cappellano della Brigata "Capettini". Foto sopra a destra: il comandante della "Capettini", Angelo Ansaldi, ferito in combattimento perse la gamba sinistra.
Promosso da un personaggio vogherese per molti versi singolare quale l’aristocratico Jacopo Lauzi de Rho, che l’incontro avrebbe pure presieduto, Pietra ne avrebbe poi fornito una versione del tutto fantasiosa, verosimilmente volta a scrollargli di dosso la possibile accusa di cedimenti al nemico, ma le carte, confermate dalle testimonianze, non consentono troppi dubbi. Redatto da Lauzi e confermato da don Alberti, presente in veste di garante - funzione ricorrentemente riservata a sacerdoti e religiosi riconosciuti almeno formalmente al di sopra delle parti in conflitto e quindi utilizzabili per gli eventuali rapporti tra le medesime - il verbale dell’incontro, tenuto nel castello di Montesegale, lascia intendere come da parte tedesca si puntasse soprattutto allo scambio di prigionieri, mentre precisa come Pietra avrebbe tenuto a far accettare dalla controparte un’idea del Movimento di pretto stampo militare, con le conseguenze del caso, nella fattispecie volendo ottenere che i partigiani venissero trattati non come banditi o ‘irregolari’ ma come soldati, ai quali si dovevano applicare le convenzioni internazionali. Era, a ben vedere, una visione che poteva pur sostanziare l’idea di quell’esercito partigiano tanto decisamente coltivata dalle centrali operative milanesi, ma risultava altresì inapplicabile rispetto alle modalità conflittuali inevitabilmente adottate dalla Resistenza.
Il verbale non accenna esplicitamente ad accordi tra le parti nella prospettiva di una delimitazione del territorio di rispettiva competenza e conseguente cessazione delle puntate offensive dall’una come dall’altra parte, anche se a questo fine l’incontro era stato soprattutto pensato e nella testimonianza di don Alberti il tema sarebbe pure stato verbalmente affrontato, peraltro rinviando ogni decisione al riguardo a ulteriori trattative. Verosimilmente, nella prospettiva, preannunciata per chiari segni premonitori, di un imminente, nuovo, devastante rastrellamento, mentre l’inverno incombeva e gli Alleati inchiodati sulla linea Gotica avevano avvisato, giusto qualche giorno prima, col cosiddetto proclama Alexander, i partigiani dell’inevitabile rinvio dell’offensiva finale in Valpadana, un accordo tra le parti che lasciasse indisturbate ai Tedeschi, specialmente sulla cruciale via Emilia, le comunicazioni, e tranquilli i partigiani sulle loro montagne, non poteva non sorridere a chi, come Pietra ma anche Landini, si rendeva ben conto dell’incombente realtà. Per cui il temuto rastrellamento sarebbe potuto risultare tanto catastrofico, come poi in realtà fu, da rendere difficilissima la stessa sopravvivenza dei partigiani, riducendone, insieme, sin quasi ad annullarla, la capacità offensiva, e in tal modo comunque liberando le comunicazioni tedesche e repubblicane, tanto sulla via Emilia quanto in val Trebbia e in valle Scrivia, dal precedente, pesante stillicidio degli attacchi partigiani.
Quella voglia di divise, di leggi, di ordine che Pietra aveva decisamente esternato nell’incontro, era, d’altronde, chiaramente iscritta nel futuro dello stesso Movimento, non mancando di manifestarsi in pubbliche come in private manifestazioni anche di rappresentanti di quella Wehrmacht che pure il nostro ‘Maino’[11] aveva additato mesi prima ai suoi ragazzi come il loro più autentico nemico. Dalla magmatica, incandescente realtà resistenziale, superate le prime durissime settimane seguite all’ondata offensiva della “Turkestan”, ci si sarebbe, inevitabilmente, in tal modo, avviati a quel nuovo ordine i cui primi, chiari segni si eran visti giusto nell’organizzazione primordialmente democratica di Varzi. Mentre, dall’altra parte, il nemico tendeva progressivamente a riassumere quelle sembianze umane che nel crogiolo della contrapposizione violenta sembravan essersi dissolte.
Concluso il tempo della affannosa ricerca ed eliminazione dei reali o supposti delatori, mentre le puntate offensive tedesche si rarefacevano, sarebbe venuto il tempo di una giustizia applicata non solo al nemico ma all’amico colpevole di reati comuni, progressivamente non più tollerati. Con condanne anche a pene capitali, come si sarebbe visto per la banda Draghi, in una vicenda pur inquadrabile in quel clima di sospetti e conseguenti drastici interventi di cui prima si diceva. Mentre nei confronti dell’occupante tedesco si sarebbero adottati comportamenti più o meno consapevolmente ispirati a quelle convenzioni che sino a poco prima si erano fattualmente negate. Tornava lo Stato, tornava, o almeno cominciava a tornare, la Legge.
La “confusione” tendeva così progressivamente a dissolversi. Quasi emblematicamente, dalle sue caligini, sarebbe emerso nel ’45, una sera di marzo, in casa Profumo, subito oltre Staffora, Gustavo, il fratello ‘grande’ di Paola, dato da tempo per morto. Che viceversa, passate dopo l’8 settembre le linee, deciso a battersi contro repubblicani e tedeschi, era stato poi paracadutato dall’OSS in Piemonte a mezzo luglio a guidare - Cippi il suo nome in codice - una importante missione alleata - la Apple - di appoggio alla Resistenza. Ferito in val Pellice e ricoverato in Francia, era stato un’altra volta paracadutato, in alta val Borbera, a mezzo febbraio e dai primi di marzo si trovava a Torre degli alberi, di dove con la sua radio - in codice “radio Piroscafo” - non solo avrebbe vigorosamente sostenuto, con esito positivo, l’urgenza di lanci di armi e munizioni, vestiario - soprattutto le preziosissime scarpe - e medicinali ai nostri partigiani, ma sarebbe pure riuscito, con eccellente tempismo, a ottenere l’intervento dell’aviazione alleata a contrastare efficacemente l’offensiva portata da Fiorentini da nord a sostegno di quello che, fra il 10 e il 12 marzo, sarebbe stato l’ultimo rastrellamento organizzato da repubblicani e tedeschi contro i nostri partigiani, culminato nel lungo, duro scontro passato alla storia della nostra Resistenza come la - vittoriosa - battaglia di Costa pelata.
A Varzi, abbandonata definitivamente dal presidio tedesco solo quattro giorni dopo, precisamente nella nottata del 16 marzo, i nostri ragazzi, festeggiatissimi dalla popolazione, sarebbero, il 17, definitivamente rientrati[12], per non più perderla, anticipando di una buona settimana la liberazione dei maggiori centri padani.
Cominciava una nuova storia: per Varzi, per l’Italia, per l’Europa.
Il verbale non accenna esplicitamente ad accordi tra le parti nella prospettiva di una delimitazione del territorio di rispettiva competenza e conseguente cessazione delle puntate offensive dall’una come dall’altra parte, anche se a questo fine l’incontro era stato soprattutto pensato e nella testimonianza di don Alberti il tema sarebbe pure stato verbalmente affrontato, peraltro rinviando ogni decisione al riguardo a ulteriori trattative. Verosimilmente, nella prospettiva, preannunciata per chiari segni premonitori, di un imminente, nuovo, devastante rastrellamento, mentre l’inverno incombeva e gli Alleati inchiodati sulla linea Gotica avevano avvisato, giusto qualche giorno prima, col cosiddetto proclama Alexander, i partigiani dell’inevitabile rinvio dell’offensiva finale in Valpadana, un accordo tra le parti che lasciasse indisturbate ai Tedeschi, specialmente sulla cruciale via Emilia, le comunicazioni, e tranquilli i partigiani sulle loro montagne, non poteva non sorridere a chi, come Pietra ma anche Landini, si rendeva ben conto dell’incombente realtà. Per cui il temuto rastrellamento sarebbe potuto risultare tanto catastrofico, come poi in realtà fu, da rendere difficilissima la stessa sopravvivenza dei partigiani, riducendone, insieme, sin quasi ad annullarla, la capacità offensiva, e in tal modo comunque liberando le comunicazioni tedesche e repubblicane, tanto sulla via Emilia quanto in val Trebbia e in valle Scrivia, dal precedente, pesante stillicidio degli attacchi partigiani.
Quella voglia di divise, di leggi, di ordine che Pietra aveva decisamente esternato nell’incontro, era, d’altronde, chiaramente iscritta nel futuro dello stesso Movimento, non mancando di manifestarsi in pubbliche come in private manifestazioni anche di rappresentanti di quella Wehrmacht che pure il nostro ‘Maino’[11] aveva additato mesi prima ai suoi ragazzi come il loro più autentico nemico. Dalla magmatica, incandescente realtà resistenziale, superate le prime durissime settimane seguite all’ondata offensiva della “Turkestan”, ci si sarebbe, inevitabilmente, in tal modo, avviati a quel nuovo ordine i cui primi, chiari segni si eran visti giusto nell’organizzazione primordialmente democratica di Varzi. Mentre, dall’altra parte, il nemico tendeva progressivamente a riassumere quelle sembianze umane che nel crogiolo della contrapposizione violenta sembravan essersi dissolte.
Concluso il tempo della affannosa ricerca ed eliminazione dei reali o supposti delatori, mentre le puntate offensive tedesche si rarefacevano, sarebbe venuto il tempo di una giustizia applicata non solo al nemico ma all’amico colpevole di reati comuni, progressivamente non più tollerati. Con condanne anche a pene capitali, come si sarebbe visto per la banda Draghi, in una vicenda pur inquadrabile in quel clima di sospetti e conseguenti drastici interventi di cui prima si diceva. Mentre nei confronti dell’occupante tedesco si sarebbero adottati comportamenti più o meno consapevolmente ispirati a quelle convenzioni che sino a poco prima si erano fattualmente negate. Tornava lo Stato, tornava, o almeno cominciava a tornare, la Legge.
La “confusione” tendeva così progressivamente a dissolversi. Quasi emblematicamente, dalle sue caligini, sarebbe emerso nel ’45, una sera di marzo, in casa Profumo, subito oltre Staffora, Gustavo, il fratello ‘grande’ di Paola, dato da tempo per morto. Che viceversa, passate dopo l’8 settembre le linee, deciso a battersi contro repubblicani e tedeschi, era stato poi paracadutato dall’OSS in Piemonte a mezzo luglio a guidare - Cippi il suo nome in codice - una importante missione alleata - la Apple - di appoggio alla Resistenza. Ferito in val Pellice e ricoverato in Francia, era stato un’altra volta paracadutato, in alta val Borbera, a mezzo febbraio e dai primi di marzo si trovava a Torre degli alberi, di dove con la sua radio - in codice “radio Piroscafo” - non solo avrebbe vigorosamente sostenuto, con esito positivo, l’urgenza di lanci di armi e munizioni, vestiario - soprattutto le preziosissime scarpe - e medicinali ai nostri partigiani, ma sarebbe pure riuscito, con eccellente tempismo, a ottenere l’intervento dell’aviazione alleata a contrastare efficacemente l’offensiva portata da Fiorentini da nord a sostegno di quello che, fra il 10 e il 12 marzo, sarebbe stato l’ultimo rastrellamento organizzato da repubblicani e tedeschi contro i nostri partigiani, culminato nel lungo, duro scontro passato alla storia della nostra Resistenza come la - vittoriosa - battaglia di Costa pelata.
A Varzi, abbandonata definitivamente dal presidio tedesco solo quattro giorni dopo, precisamente nella nottata del 16 marzo, i nostri ragazzi, festeggiatissimi dalla popolazione, sarebbero, il 17, definitivamente rientrati[12], per non più perderla, anticipando di una buona settimana la liberazione dei maggiori centri padani.
Cominciava una nuova storia: per Varzi, per l’Italia, per l’Europa.
Note
[1] Paola Profumo, Un posto di blocco. I racconti della Staffora, Quaderni della Fiap, Editrice Liguria, II ed., Savona 1980, p. 40.
[2] A Draghi, il nostro Istituto sarebbe stato pure debitore di un generoso, continuato sostegno a Varzi, affiancando nella sua opera a nostro favore il sig. Piazzardi.
[3] Giulio Guderzo, Resistenza: come e che cosa, in “Lettera ai compagni”, a. XXXIII, n. 6, nov.-dic. 2003, pp. 12-13, ripubblicato in G. G., Amore di Pavia, Milano, Unicopli, 2011, pp. 396-399.
[4] Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia, 1943-1945, Bologna, Il Mulino ed., 2002, p. 385.
[5] Donne nella Resistenza dell’Oltrepò, a cura di Ugo Scagni, Varzi, Guardamagna ed., 2001, p. 118 sgg.
[6] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 616.
[7] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 404.
[8] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 406.
[9] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 407.
[10] Si sarebbe specialmente occupato di questi aspetti della Varzi liberata Lucio Ceva, in un importante saggio del ’70 su Le zone libere di Bobbio e di Varzi, che avrei ovviamente poi ripreso nell’Altra guerra, cit., pp. 406-407. Sulle circostanze dell’attacco a Monteforte, ivi, p. 506.
[11] Era il nome ‘di battaglia’ adottato da Luchino Dal Verme.
[12] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 679.
[1] Paola Profumo, Un posto di blocco. I racconti della Staffora, Quaderni della Fiap, Editrice Liguria, II ed., Savona 1980, p. 40.
[2] A Draghi, il nostro Istituto sarebbe stato pure debitore di un generoso, continuato sostegno a Varzi, affiancando nella sua opera a nostro favore il sig. Piazzardi.
[3] Giulio Guderzo, Resistenza: come e che cosa, in “Lettera ai compagni”, a. XXXIII, n. 6, nov.-dic. 2003, pp. 12-13, ripubblicato in G. G., Amore di Pavia, Milano, Unicopli, 2011, pp. 396-399.
[4] Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia, 1943-1945, Bologna, Il Mulino ed., 2002, p. 385.
[5] Donne nella Resistenza dell’Oltrepò, a cura di Ugo Scagni, Varzi, Guardamagna ed., 2001, p. 118 sgg.
[6] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 616.
[7] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 404.
[8] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 406.
[9] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 407.
[10] Si sarebbe specialmente occupato di questi aspetti della Varzi liberata Lucio Ceva, in un importante saggio del ’70 su Le zone libere di Bobbio e di Varzi, che avrei ovviamente poi ripreso nell’Altra guerra, cit., pp. 406-407. Sulle circostanze dell’attacco a Monteforte, ivi, p. 506.
[11] Era il nome ‘di battaglia’ adottato da Luchino Dal Verme.
[12] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 679.
Il Grac ringrazia Giulio Guderzo , Professore Emerito di storia dell'Università degli Studi di Pavia, per la concessione alla pubblicazione.
Varzi, Medaglia d'Oro al Valor Militare
In data 25 settembre 2018, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito l'onorificienza al Comune di Varzi, con la seguente motivazione:
"Comune adagiato sulle colline dell'Oltrepò, snodo essenziale per le armate naziste, fu protagonista di un'ininterrotta e intrepida attività partigiana durante tutto l'arco della Resistenza. Varzi subì prima l'oltraggio delle atrocità delle bande fasciste e poi, dalla fine di novembre del 1944, l'ingiuria dei nazisti e dei loro scherani, colpevoli di inenarrabili violenze. La fiera popolazione, pur provata dalla perdita di tanti suoi figli, diede ripetutamente prova di fulgido eroismo: per due volte, nel luglio e nel settembre 1944, sconfisse il nemico nazifascista in altrettante epiche battaglie, e nella seconda concesse al vinto una capitolazione onorevole e dignitosa, consentendo alla grande maggioranza degli alpini del battaglione "Monterosa" di entrare nelle formazioni partigiane. Soggetto della breve ma ricchissima esperienza della repubblica partigiana di Varzi, assieme alle analoghe repubbliche che fiorirono in quel tempo pur di ferro e di fuoco, anticipò così il futuro democratico del Paese. Varzi incarna il valore della Resistenza come straordinaria lotta militare e civile di un popolo unito contro il nazifascismo e per la libertà della Patria, Varzi (Pavia), 8 settembre 1943 - 19 settembre 1944."
I luoghi della memoria
Foto sopra: la "Capanna del Partigiano di Varzi", sopra la porta è murata la targa che ricorda la storia... (Le immagini qui sopra sono tratte dal sito www.donnavagabonda.com, mese di aprile 2020, che si ringrazia).
Tabellone commemorativo eretto dal Comune di Varzi
Pannello realizzato dal Comune di Varzi nel 2013, con la collaborazione di: Ricerca storica: Cecilia Demuru, Giovanni Prandi. Redazione: Rosanna Ansaldi, Silvia Giacobone. Traduzione: Andrea Sgorbini, Eliza Viscars. Grafica: Andrea Franzante.
Pagina curata da Piero Ricci e Pierlino Bergonzi. Pubblicata il 29 aprile 2020