Il Comitato Nazionale di Liberazione piacentino 1943-1945 di Romano Repetti
ALLE ORIGINI DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA
Il CLNP e gli uomini di partito che lo componevano, attività, conflitti, rapporti con le brigate partigiane.
Il CLNP e gli uomini di partito che lo componevano, attività, conflitti, rapporti con le brigate partigiane.
Relazione di Romano Repetti presentata durante il Convegno Storico del 26 ottobre 2013, avvenuto presso la Sala del Consiglio Provinciale di Piacenza, via Garibaldi, 50.
Il Comitato Nazionale di Liberazione piacentino 1943-1945
1 - Premessa
Il 25 luglio 1943, re Vittorio Emanuele III ed il suo “enturage” di aristocratici, di generali e di alti burocrati, proprio attraverso il licenziamento di Mussolini e del partito fascista, intendevano salvare non solo la monarchia ma anche quello tipo di stato e di sistema economico-sociale che il fascismo aveva prodotto in venti anni di dittatura. Si erano preoccupati di evitare che il regime fascista fosse travolto da un sommovimento di popolo guidato da quelle forze politiche antifasciste che si stavano a quel tempo riorganizzando. Il governo che si costituì, presieduto dal generale Badoglio, nei 45 giorni fra il 25 luglio e l’8 settembre, oltre a vietare l’attività di tali partiti, fece impedire e reprimere con le armi dell’esercito ogni manifestazione popolare a sostegno della fine della guerra, della libertà e della democrazia: 97 manifestanti furono uccisi, circa 300 feriti, poco meno di 3.000 persone arrestate.
Poi, l’improntitudine e la meschinità di quel re e di quei membri del governo li condusse a lasciare, l’8 settembre, all’annuncio dell’armistizio, lo stesso esercito allo sbando, e a preoccuparsi solo della personale salvezza fisica.
Tuttavia, anche successivamente, con il re ed il governo Badoglio rifugiati a Brindisi sotto la protezione dell’esercito anglo-americano, non solo Vittorio Emanuele III ma anche molti esponenti delle vecchia classe dirigente, continuarono a concepire il futuro dell’Italia come un semplice ritorno al regime politico monarchico-liberale precedente alla dittatura fascista, considerata solo una parentesi nelle vita del Paese. Sappiamo che fra gli alleati il governo inglese di Wiston Curchill in specifico sosteneva con determinazione la prospettiva, dopo la sconfitta della Germania nazista, di confermare in Italia la monarchia sabauda quale garanzia di una assetto politico moderato, magari sotto una qualche forma di protettorato britannico.
Se invece dopo la sconfitta del nazi-fascismo l’Italia ha imboccato una strada nuova, con la formazione di governi esclusivamente composti da esponenti delle forze antifasciste, con la liquidazione, tramite referendum popolare, della monarchia, la nascita della Repubblica, l’elezione di una Assemblea costituente che elaborò una Costituzione di avanzati contenuti, se tutto questo è potuto avvenire è perché abbiamo avuto in Italia, dopo l’8 settembre ’43, un movimento popolare di liberazione, il cui contributo alla sconfitta dai nazifascisti non ha potuto essere disconosciuto dagli alleati, un movimento attraverso il quale il popolo italiano è diventato ed ha preso coscienza di essere protagonista del proprio futuro., e di un futuro politico che non poteva che lasciarsi alle spalle un sistema istituzionale che aveva reso possibile l’istaurarsi della dittatura fascista.
Ma per assicurare tale profondo rinnovamento politico-istituzionale dell’Italia non sarebbero bastate le varie forme di resistenza che si manifestarono contro il nuovo regime fascista di Salò, non sarebbe bastato che decina di migliaia di giovani dopo aver rifiutato l’arruolamento nelle forze armate mussoliniane ed imbracciato le armi per difendersi dai rastrellamenti e dalle catture, passassero anche all’attacco delle forze armate fasciste ed hitleriane per contribuire allo loro sconfitta e al ritorno della pace. Era anche necessario che tali forme di resistenza, che tali bande di ribelli, fossero sostenuto da un movimento adeguato di idee e di programmi politici rivolti al futuro assetto dell’Italia, idee e programmi di cui non potevano che essere portatori uomini, e gruppi di uomini, con già un trascorso di riflessioni, di conoscenze ed anche di esperienze politiche, necessarie ad impostare una coerente strategia di azione, a definire gli orizzonti, i contenuti ed i percorsi del cambiamento politico-istituzionale per l’Italia di domani. E, sulla base di questi orizzonti e contenuti, di dare a tutti i resistenti e ribelli la consapevolezza che si stava combattendo non solo per respingere la barbarie nazifascista ma anche per costruire un mondo nuovo dove guerra, violenza e sopraffazione non avrebbero più avuto esistenza. Una consapevolezza necessaria a tener duro, a superare i momenti più difficili, a reagire alle sconfitte, a costruire animi forti che sapessero, come seppero, non piegarsi nemmeno sotto la tortura.
L’apporto fondamentale in questa direzione venne al movimento di liberazione dagli uomini che si erano formati, o che si formarono in quei mesi un orientamento ed una esperienza politica nell’ambito dei partiti politici antifascisti e degli organismi unitari da questi costituiti, i Comitati di Liberazione Nazionale. I Cln divennero gli organi di direzione politica del movimento partigiano di liberazione, anche se non senza momenti di difficoltà nei rapporti con le formazioni dei combattenti, e momenti di contrasto fra le componenti partitiche stesse dei Cln.
L’organo politico nazionale del movimento di liberazione fu non tanto il Cln cosiddetto centrale che, dopo la fuga dalla capitale del re e di Badoglio, si costituì a Roma il 9 settembre 1943, con un comunicato che chiamagli gli italiani “alla lotta e alla resistenza”.
L’organo generale di direzione del movimento di liberazione fu invece il Cln Alta Italia che ebbe sede a Milano che si era lì costituito come organismo locale subito dopo quello di Roma, ma che già nel corso del 1943 divenne punto di riferimento per il Cln che si andavano a costituire nelle altre province del Nord e che infine, nel gennaio ’44, fu riconosciuto formalmente e delegato del Cln centrale per la direzione del movimento di liberazione in tutti i territori sotto occupazione tedesca. Il Cln sorto a Milano assunse quel ruolo anche perché questa città, in considerazione della sua centralità territoriale e sociale, era subito stata scelta dai dirigenti del Partito Comunista come sede organizzativa e di direzione delle Brigate partigiane garibaldine promosse dal Pci e scelta anche da Ferruccio Parri quale sede centrale per l’organizzazione delle formazioni partigiane collegate al Partito d’Azione.
2 - La nascita del CLN piacentino
A Piacenza, è durante i 45 giorni fra il 25 luglio e l’8 settembre che esponenti antifascisti incominciano a venire allo scoperto e che aderenti ai maggiori partiti antifascisti incominciano ad incontrarsi e, sulla scorta di ciò che avveniva in altre parti d’Italia, arrivano a costituire un Comitato delle opposizioni, che rappresenterà l’antecedente del Cln.
Quando parlo dei partiti antifascista mi riferisco a quelli storici, il partito socialista e quello comunista, e a quelli di recente costituzione, il Partito d’azione che derivava del movimento antifascista Giustizia e Libertà fondato a Parigi nel 1928 da Carlo Rosselli, e mi riferisco alla Democrazia cristiana che era nata nel 1942 su iniziativa di esponenti del passato Partito popolare, quale Alcide De Gasperi, e da nuovi esponenti cattolici. Anche fra esponenti del vecchio partito liberale erano maturate posizioni antifasciste che a Piacenza furono rappresentate in particolare dall’avvocato Gaetano Grandi.
Durante i 45, più degli stessi esponenti del partito comunista, che pure anche durante il ventennio fascista si erano esposti in una attiva opposizione al regime e che per questo avevano subito il carcere ed il confino, comunisti che a Piacenza avevano come referente provinciale il falegname Paolo Belizzi, prende decisamente l’iniziativa l’avv. Francesco Daveri, classe 1903, antifascista fin dalla gioventù e ora il più determinato esponente del nuovo partito cattolico, la Democrazia cristiana.
Daveri è l’uomo che, oltre a dare fuoco e gettare dalla finestra della pretura di Bettola un ritratto del Duce, va dal prefetto De Bonis a richiedere la sostituzione nei posti di responsabilità degli uomini più compromessi con il fascismo, e sensibilizza, in direzione della necessità di una azione unitaria antifascista, diversi colleghi avvocati che troveremo nel movimento della Resistenza in rappresentanza di posizioni partitiche diverse, quali in particolare i democristiani Carlo Cerri (classe 1892) e Vittorio Minoia (classe 1988), il socialista Giuseppe Arata (classe 1901), l’azionista Raffaele Cantù (classe 1913).
Dopo l’otto settembre e l’occupazione tedesca di Piacenza, cominciano a rifugiarsi in montagna, oltre a centinaia di militari stranieri liberati dai campi, anche i primi noti antifascisti che temono arresto e violenze da parte dei fascisti tornati al potere. Nascono, come ricordavo, i primi Cln a Roma e a Milano. I militanti comunista ricevano dalla direzione del partito la disposizione di organizzare un movimento armato di lotta al nazifascismo sull’esempio di quanto già avvenuto in altri Paesi d’Europa, segnatamente la Jugoslavia. Torna a Piacenza dal confino l’anarchico Emilio Canzi (classe 1893), che metta a disposizione la sua esperienza di comandante nelle brigate internazionali in Spagna. In questo quadro nasce anche a Piacenza il Cln che possiamo definire provinciale. Dopo una prima riunione il 30 di settembre fra i rappresentanti dei partiti antifascisti ed Emilio Canzi che aveva già preso contatto con il primo gruppo di antifascisti confluiti a Peli di Coli, accolti ed assistiti dal giovane parroco Giovanni Bruschi, il Cln piacentino si costituì in un nuovo incontro nello studio di Daveri, nella vecchia via Pavone ora via Francesco Daveri, in una data rimasta incerta della prima metà di settembre, probabilmente il 10 o il 13.
3 – Obiettivi del presente convegno sul Cln piacentino
Devo aprire qui una parentesi. Sapete che come Anpi provinciale abbiamo deciso di seguire il 70° del movimento di liberazione, lungo 19 mesi, promuovendo in successione, d’intesa possibilmente con altre associazioni e con le istituzioni pubbliche, una serie di iniziative di approfondimento sugli aspetti e sugli snodi più significativi dello sviluppo del movimento in provincia di Piacenza.
La nascita, il ruolo, l’attività del Cln provinciale e le figure degli antifascistiche ne caratterizzarono la vita costituisce certamente un aspetto fra i più rilevanti del movimento di liberazione, un aspetto che è stato trattato nella storiografia sulla Resistenza piacentina, ma scarsamente evidenziato nella più ampia pubblicistica in materia, e non è quindi adeguatamente presente nella nostra memoria pubblica.
Peraltro, una ricostruzione del ruolo e delle vicende del Cln piacentino e degli uomini di partito che ne caratterizzarono la vita, fatta a 70 anni di distanza, se non ci permette più di conoscere certi dettagli, consultando ad esempio i protagonisti, ci offre però la possibilità di valutare meglio il peso e gli effetti che tale comitato e più in generale i partiti antifascisti hanno avuto sia sullo sviluppo del movimento partigiano che sulla nascita e sulle caratteristiche del sistema di democrazia politica che si è affermato nel nostro Paese dopo la Liberazione.
E’ quello che in qualche misura cercherò di fare con la mia ricostruzione.
4 – Il primo periodo di vita del Cln piacentino
Riprendendo la narrazione, richiamo innanzitutto il fatto che la costituzione del Cln piacentino non fu una operazione agevole. Piacenza era occupata dalle forze hitleriane che a Boves giò il 19 settembre avevano compiuto l’eccidio di 23 civili per terrorizzare la popolazione e prevenirne il possibile appoggio ai primi gruppi di ribelli. In campo nazionale al momento solo il Partito comunista ed il Partito d’azione stavano dando corso concretamente alla scelta di organizzare gruppi di resistenza armata contro gli occupanti nazisti e contro i ritornato regime fascista di Salò. Nel mondo cattolico invece erano forti le perplessità, anche per motivi morali, a scendere sul terreno della violenza ed anche esponenti di altri partiti antifascisti non vedevano ancora la possibilità e l’utilità di promuovere movimenti di lotta armata. Emerge una volta di più quindi la determinazione alla lotta contro i nazifascisti di Francesco Daveri che entrò a far parte del Cln per conto della Democrazia Cristiana, assieme a Paolo Belizzi per conto del Partito comunista, mentre non aderirono al momento l’avv. Raffaele Cantù che nella citata riunione costitutiva rappresentava il Partito d’Azione e l’avv. Giuseppe Arata che rappresentava il partito socialista. Per i socialisti si fece avanti però generosamente il più anziano Mario Minoia, medico legale e grande invalido per aver perso una gamba nella prima guerra mondiale, fratello dei Vittorio Minoia avvocato già citato.
Il 4° componente del primo CLN fu Emilio Canzi, anarchico non collegato ad alcuna organizzazione di partito. Canzi stava nel Comitato di liberazione come responsabile del lavoro miliare, affiancato da Lorenzo Marzani ,anche lui di orientamento anarchico, pittore, già organizzatore del gruppo di Peli, e da Giuseppe Narducci (classe1907) noto come “Pippotto”, artigiano, comunista. Un po’ più avanti anche Raffaele Cantù entrerà nel Cln per conto degli azionisti e Mario Minoia per i socialisti sarà sostituito dall’avv. Giuseppe Arata.
Ho citate prima gli anni di nascita di questi uomini perché evidenziano che avevano quasi tutti fra i 40 e i 50 anni, erano cioè persone che non si erano formate durante il ventennio fascista ma avevano conosciuto anche l’Italia del pluralismo politico prefascista, avevano in parte già fatto delle esperienze di partito, nel vecchio Partito popolare dei cattolici, nel Partito socialista, nel Partito comunista, nel movimento anarchico. Disponevano cioè di una di cultura politica che non potevano inizialmente avere i più giovani aderenti al movimento partigiano.
Un altro dato è opportuno rilevare. Questi uomini avevano appartenuto o fatto riferimento a partiti politici che erano stati storicamente sempre avversari, che all’inizio degli anni 20 nemmeno di fronte alla brutale ascesa al potere dei fascisti erano riusciti ad unirsi in una azione comune . Ora invece questi uomini, pur mantenendo le loro diverse convinzioni di principi e di programmi, realizzavano un terreno comune di rispetto reciproco, di dialogo, di collaborazione, di sacrifici e di rischi. E l’avvocato, l’esponente della borghesia, stava nel Cln su un piano di parità con l’artigiano e con l’operaio.
Affrontando l’esame del ruolo e dell’attività del Cln piacentino va peraltro ricordato che non fu questo organismo che diede origine ai primi gruppi di ribelli armati e alle prime azioni partigiane contro le forze militari hitleriane e della repubblica di Salò. Le prime piccole bande di resistenti armati scaturirono da molteplici fattori. Gli uomini del Cln si adoperarono però già nei primi mesi di vita dell’organismo per irrobustire questi prime basi della resistenza.
Una valutazione d’insieme sul ruolo avuto dal Cln nei confronti del movimento partigiano piacentino l’ha espressa Antonino La Rosa, ex-ufficiale e componente di tale organismo per alcuni mesi, scrivendo nella sua Storia della Resistenza nel piacentino: “Gli uomini di partito del Cln furono concordi sulla necessità della lotta e ad essa si dedicarono senza risparmio. Il Cln piacentino tuttavia non ebbe forza sufficiente per guidare il movimento militare. Si limitò a sostenerlo ed ad influenzarlo ove possibile.” Ed ha poi aggiunto “Si venne anche a determinare una certa incomprensione da parte dei partigiano combattenti nei confronti dei civili che si limitavano a cospirare”.
Me, se è pure il Cln non diresse il movimento armato, altre ed essenziali furono le funzioni svolte nel movimento di liberazione. E va anche doverosamente aggiunto che chi, invece che alla lotta armata, si dedicava a queste altre funzioni, operando clandestinamente dentro ad una città dove vari corpi di polizia fascisti e tedeschi davano la caccia agli antifascisti, non correva meno rischi. Tant’è che due civili del Cln piacentino, Francesco Daveri e Luigi Rigolli, pagarono con la vita la loro attività e anche altri componenti subirono il carcere.
Inizialmente gli uomini del Cln e gli altri antifascisti che facevano riferimento diretto ad esso, come i citati componenti del comitato militare, si preoccuparono di affiancare ed incoraggiare le iniziative spontanee della popolazione per dare assistenza ai militari italiani sbandati ed evitarne la cattura e la deportazione in Germania. Una assistenza più impegnativa e rischiosa venne inoltre assicurata ai militari stranieri che l’8 settembre erano riusciti a lasciare i 4 centri di detenzione esistenti nella nostra provincia. I circa 250 ufficiali inglesi e del Commonwealth britannico presenti nella struttura di Veano, i 230 militari jugoslavi detenuti in un convento di Cortemaggiore, la cinquantina di greci detenuti nel castello di Rezzanello, più gli altri prigionieri che stavano nel Collegio Morigi di Piacenza. La maggioranza, in specifico degli ufficiali inglesi, con l’assistenza avuto hanno potuto raggiungere la Svizzera o passare il fronte e tornare cosi a riprendere le armi contro l’esercito hitleriano. E chi non ha potuto fare questo, in particolare gli jugoslavi, si sono poi uniti ai partigiani piacentini.
Gli uomini del Cln si sono inoltre dedicati a far si che le armi abbandonate dai militari italiani sbandati venissero recuperate e fatte giungere a Peli e al primo gruppo di resistenti lì confluiti. Da Peli una parte delle armi furono poi trasportati verso il territorio di Bardi dove altri resistenti, anche piacentini, si erano raccolti. Un compito assunto fu anche quello di procurare dei sostegni finanziari per il mantenimento dei primi ribelli rifugiati in montagna, in modo che non dovessero gravare sulla popolazione locale.
Anche se era solo il gruppo di Peli che inizialmente faceva diretto riferimento al Cln , l’esistenza di un organismo unitario come il Cln che faceva appello alla lotta armato contro i nazifascisti costituiva un indubbio elemento morale e di “copertura” politica anche per gli altri primi gruppi di ribelli che restavano autonomi.
5 – Arresti e mutilazione del Cln piacentino
Peraltro il Cln piacentino, nella composizione nominativa che ho ricordato, e lo stesso gruppo di Peli al comando di Canzi, prima che potessero intessere una rete di collegamenti su tutto il territorio provinciale, furono colpiti e sconvolti e dalla repressione degli organi giudiziarie e della polizia militare del regime di Salò. Nel novembre ’43 è arrestato Lorenzo Marzani del comitato militare, in dicembre la polizia fascista compie un escursione a Peli e saccheggia la canonica. Per fortuna non riesce ad individuare le armi nascoste sul cornicione della chiesa, ma anche don Bruschi deve lasciare la sua parrocchia e nascondersi inizialmente a Piacenza. Il 30 gennaio ’44 viene spiccato un mandato di cattura nei confronti di Francesco Daveri; il 14 febbraio è arrestato Emilio Canzi. Daveri si nasconde a Piacenza presso una famiglia fidata, ma dopo la condanna a 5 anni di carcere deve riparare in Svizzera dove riprende però subito contatto con esponenti della Resistenza. Anche l’azionista Raffaele Cantù, altro membro del Cln, è condannato a 5 anni di carcere e si rifugia in Svizzera.
Il Cln piacentino resta gravemente amputato per alcuni mesi; resta l’esponente socialista Arata ed il comunista Paolo Belizzi; del comitato miliare resta Narducci ma vi entra a far parte anche Ercole Anguissola e vengono allacciati rapporti con Giovanni Molinari e Arnaldo Tanzi di Fiorenzuola che avevano tentato di costituire un gruppo di ribelli in alta Val d’Arda. A parte Arata, le persone citate fanno tutti riferimento al partito comunista e la sede degli incontri è diventato il laboratorio di falegnameria di Belizzi.
6 – Cln e azione autonoma dei partiti antifascisti
In questa fase ad operare per la nascita e lo sviluppo delle formazioni partigiane sono in specifico gli uomini del Pci, lo fanno anche a nome del Cln ma il riferimento organizzativo per le prime formazioni armate sono le Brigate Garibaldi che hanno un comando generale a Milano in capo a Luigi Longo.
Per comprendere quanto avverrà anche in seguito nei rapporti fra gli esponenti dei diversi partiti devo qui fare un inciso sulle posizioni del Partito comunista e dei suoi capi nazionali, a partire da Togliatti che arriva a Napoli da Mosca a fine marzo’44 e promuove la famosa svolta di Salerno, cioè la formazione, nel sud liberato dagli alleati, di un governo composto dai rappresentati dei partiti antifascisti ma presieduto ancora da Badaglio e pur restando ancora Vittorio Emanuele III a i vertici dello Stato.
Documenti sovietici che si sono potuti consultare negli ultimi anni confermano che i capi comunisti italiani avevano nel ’43 e nel ‘44 subordinavano ogni altro obiettivo alla realizzazione di un efficace contributo del popolo italiano nella guerra contro la Germania hitleriano oltre che contro il regime di Salò, perché questo era anche una volere di Stalin, era anche un modo di aiutare l’Unione sovietica invasa dalla dalle armate hitleriane Per promuovere il massimo sforzo degli italiani nella guerra i comunisti puntavano sulla unità e mobilitazione di tutte le forze antifasciste, accantonando per il momento anche il problema delle responsabilità della monarchia. Però, se inizialmente altre forze antifasciste esitavano nella costruzione di un movimento armato, i comunisti erano decisi ad andare avanti anche da soli ed in tal senso diedero impulso alla formazione delle Brigate garibaldine, concependole comunque come formazione aperte a partigiani di tutti gli orientamenti, possibilmente agli ordini di ex ufficiali esperti, riservandosi invece la scelta dei commissari, che all’interno delle brigate avrebbero potuto svolgere opera di orientamento politico.
Non è che questa strategia fosse senz’altro nella testa anche degli esponenti comunisti piacentini come Paolo Belizzi. Ma questi erano comunque già di per se portati alla collaborazione e all’unità con tutti pur di combattere fascisti e nazisti. In ogni caso il centro dirigente del Pci mandava periodicamente propri ispettori a contattare ed orientare gli esponenti locali. E trasferì in provincia di Piacenza anche quadri di partito originari di altre province, in particolare Pio Godoli da Milano e Remo Polizzi da Parma. Sta di fatto che nei primi mesi del ‘44, a fronte delle difficoltà di altre forza antifasciste, anche i comunisti piacentini si muovono con impegno per costruire le formazioni garibaldine. Particolarmente attivo risulta Giuseppe Narducci. E’ lui che, essendo Canzi in prigione, individua e chiede all’ex ufficiale slavo Milih Dusan , il Montenegrino, di assumere il comando ed unificare le piccole bande di ribelli che erano nate in Val Nure . E’ sempre Narducci che, vecchio compagno di scuola di Vladimiro Bersani, già capitano dell’esercito, lo incontra un giorno, lo porta da Belizzi e lo inserisce nel partito e nel gruppo degli uomini del Cln. Bersani, siamo verso la fine del febbraio ’44, si mette in contatto con i primi ribelli della Val d’Arda e con un altro ex-ufficiale, Giuseppe Prati. All’inizio di aprile si formalizza la costituzione della formazione partigiana della Val d’arda, di cui Valdimiro Bersani assume il comando a nome del Cln e Prati diventa il vice. Diventerà la prima Brigata garibaldina della nostra provincia e un ispettore del Comando generale gli attribuirà il numero 38. Alla fine dell’estate ’44 le brigate partigiane garibaldine saranno sei, quattro in Val d’Arda, due in Val Nure. In Val d’Arda, dopo la morte di Bersani il comando sarà preso da Prati, cattolico di orientamento democristiano, a dimostrazione che anche nelle Garibaldi il pluralismo politico era scontato ed inevitabile.
Altra iniziativa dei comunisti è l’impegno che viene assunto da Giovanni Molinari di costruire una formazione di partigiani nella zona ancora scoperta dell’alta Val Tidone, sul crinale con la Val Trebbia. Ma la Val Tidone-Val Trebbia diventerà invece il territorio di sviluppo di una formazione che non ha origini da impulsi del Cln e da esponenti politici. Si tratta della formazione di Fausto Cossu, già tenente dei carabinieri che, radunato con se un primo gruppo di ex carabinieri riesce via via a costruire una Brigata che diventerà poi una grande Divisione, assorbendo tutte le bande di partigiani di quel territorio, in qualche caso con atti di forza, come avvenne tragicamente con il raggruppamento di Molinari.
Anche la formazione partigiana di Cossu, pur non nata da impulsi del Cln, si viene però ad un certo punto ad incrociare con uomini di partito che gravitano sul Cln, in questo caso però non quello piacentino ma il Cln AI di Milano Alla azione dei comunisti per costruire e sviluppare la loro influenza nelle Brigate Garibaldi, cerca infatti di fare da contraltare l’attivissimo esponente del Partito d’Azione, Mario Jacchia, un altro avvocato, bolognese, diventato ispettore del ClnAI per l’Emilia occidentale. Jacchia contatta fra gli altri Fausto Cossu, e sebbene questi sia ben lontano dalle posizioni politiche del Partito d’Azione, lo convince a far aderire la sua formazione al raggruppamento delle Brigate Giustizia e Libertà che fanno riferimento appunto al Partito d’Azione, promettendogli in cambio di essere privilegiato nei lanci aerei degli alleati.
Sul piano pratico ed operativo l‘assunzione del nome Giustizia e Libertà da parte della formazione partigiana di Cossu avrà scarso rilievo, come limitato ne aveva avuto dall’altra parte il nome di Brigate Garibaldi. Però la vicenda evidenzia due questioni. La prima è che la capacità organizzativa e la rete organizzativa nazionale del Partito comunista, pur apprezzata dalle altre forze politiche del Cln per il contributo alla lotta di liberazione, nello stesso tempo suscita in queste forze allarme per il futuro assetto politico dell’Italia. La seconda questione sta nel fatto che gli esponenti dei diversi partiti antifascista, pur nel momento in cui collaborano lealmente nei Cln per il comune obiettivo dello sconfitta del fascismo e del nazismo, si preoccupano però anche di rafforzare l’influenza del proprio partito.
Ricordo anche qui che Mario Jacchia alla fine del luglio ’44 è catturato a Parma dalla milizia fascista, torturato ed ucciso. Proprio Francesco Daveri, che nel frattempo era rientrato in Italia e si era messo al servizio del Cln AI, gli subentra come ispettore per i rapporti con le formazioni partigiane dell’Emilia Romagna. Ed anche Daveri si preoccupa che i comunisti non acquistino una egemonia sul movimento, incalza all’azione gli esponenti democristiani e da direttive perché gli organismi del Cln siano sempre composti paritariamente da tutte le forze politiche antifasciste.
7 – La ricomposizione del Cln piacentino
Nel mese di maggio ’44 finalmente si poté ricomporre il Cln piacentino con l’ingresso del maestro Emilio Molinari in rappresentanza della DC, del già citato Antonino La Rosa per il Partito d’Azione, e con la sostituzione del socialista Arata con Gino Rigolli. Durante l’estate ci saranno altri cambiamenti ma in una continuità d’azione. Il comunista Belizzi verrà infatti sostituito dal parmense Remo Polizzi che lo aveva già rimpiazzato come segretario provinciale del partito, e Polizzi sarà poco dopo sostituito dal piacentino Ettore Crovini, già sindacalista con la Cgl prima del fascismo; La Rosa per gli azionisti a sua volta sarà sostituito da Aldo Clini.
L’estate e l’autunno è il periodo del grande sviluppo del movimento partigiano in provincia di Piacenza come in tutto il Nord Italia.E’ anche il periodo in cui il Cln AI cerca di dare una struttura più funzionale alle formazioni partigiane presenti nelle diverse province, di promuovere la costituzione di comandi militari atti a coordinarne le azioni, precisando le competenze di questi comandi rispetto quelle dei Cln, organi politici del movimento.
Si determina l’inquadramento di tutte le formazioni partigiane nel Corpo Volontari della Libertà (CVL)-e se ne istituisce il Comando generale al cui vertice sarà più avanti portato il generale Raffaele Cadorna. Il territorio sotto occupazione tedesca viene divisa in zone, corrispondenti spesso alla province ma non sempre: la provincia di Piacenza diventa la XIII Zona partigiana. Si promuove la costituzione dei Comandi Unici Militari di Zona e di organismi intermedi fra questi ed Comando generale del CVL, i Comandi Unici Regionali: Anche in questi organismi militari furono rappresentati paritariamente i partiti politici antifascisti, anche se tendenzialmente tramite uomini con esperienza militare, ex-ufficiali oppure civili con esperienza di comando in formazioni di guerriglia.
Per il vertice del Comando Unico Militare della XIII Zona fu inizialmente individuato, dal Cln piacentino, Vladimiro Bersani, che però poco dopo cadde in combattimento a Tabiano di Lugagnano. Il comunista Belizzi avanzò allora la proposta di Emilio Canzi, che alla fine di giugno era tornato in libertà tramite uno scambio di prigionieri. Le perplessità degli esponenti democristiani furono superato dall’intervento di Francesco Daveri. Nel comando, accanto a Canzi, come commissario politico entrò dapprima lo stesso Belizzi e più avanti Remo Polizzi. Entrò anche, prima come esperto militare poi come Capo di Stato Maggiore, un esponente di riferimento per la Dc, il già tenente dell’esercito italiano Piero Inzani. Nei mesi successivi e fino alla Liberazione altri esponenti entreranno e si alterneranno nel Comando Unico, in particolare il socialista Sante Bersani, l’azionista Leonida Patrignani che era un bolognese, anche lui avvocato, e i già ufficiali dell’esercito italiano, Filippo La Latta, Sergio Mojarischi, Carmelo Giuffré , Luigi Marzioli.
Su iniziativa in particolare del ricordato ispettore del Cln AI Mario Jacchia, fu contestato che il Comando militare regionale da Bologna potesse coordinare anche l’attività del movimento partigiano dell’Emilia Occidentale e si arrivò dopo discussioni alla costituzione del Comando Militare Nord Emilia (CMNE), competente per le province di Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Modena, con al vertice lo stesso Jacchia, che però fu subito dopo ucciso dai fascisti. Quando più avanti il CMNE fu ricomposto, venne nominato comandante il generale Mario Roveda, con due vice, il comunista Amerigo Clocchiatti ed il democristiano parmense Giovanni Vignali, più altri esponenti con l’incarico di ispettori.
Chi è abituato a pensare al movimento partigiano essenzialmente come ad un movimento di resistenza popolare al nazifascismo scaturito spontaneamente dalla società civile potrebbe restare sorpreso ed essere infastidito da questa complessa intelaiatura di Comitati e di Comandi promossi e costituiti da esponenti dei partiti. Ed effettivamente certi Comandi militari, quale in particolare il Comando Militare Nord Emilia, non sempre forse si sono rivelati molto utili ed in qualche caso hanno anche provocato dei problemi al movimento partigiano. E’ pero rilevante un aspetto della costruzione di questa intelaiatura. Nel momento in cui, l’8 settembre 1943, le autorità politiche e militari del governo del re e del vecchio stato avevano dato forfait e lasciato che lo stesso esercito italiano si sfasciasse, questa rete di organismi politici e militari nel territorio della occupazione tedesca e del regime di Salò cominciarono a prefigurare il nuovo sistema politico e tendenzialmente il nuovo stato del domani. Il fatto che fossero i partiti politici, e solo essi, a strutture questa nuova rete di organismi e di poteri, avrà peraltro degli effetti sulle caratteristiche della nostra democrazia repubblicana su cui mi soffermerò un attimo nelle conclusioni.
Con la costituzione dei nuovi comandi militari i Cln poterono meglio dedicarsi ai compiti più propriamente politici, quello ad esempio di allargare il sostegno e la partecipazione della popolazione al movimento di Resistenza e di prefigurare quel rinnovamento democratico del Paese di cui era portatore il movimento antifascista. In tale direzione il Cln piacentino si fece promotore della nascita di comitati delle forze antifasciste, anche nei diversi comuni della provincia, con il compito innanzitutto di sostenere il movimento partigiano. La nascita dei Cln comunali non si generalizzò ma vi furono esperienze significative.
L’estate e l’autunno ’44 è il periodo in cui le formazione partigiane piacentine riescono a cacciare i presidi fascisti e tedeschi praticamente da tutto il territorio montano e collinare e quindi a sottrazione temporaneamente questo territorio alla repubblica mussoliniana di Salò. Nei comuni liberati, su impulso del Cln, ovunque fu possibile in relazione alla durata del controllo partigiano, si costituirono organi amministrativi rappresentativi della popolazione e delle diverse posizioni politiche. In diversi comuni si procedette alla elezione degli amministratori tramite la convocazione in apposite assemblee di tutti i capifamiglia. In altri gli amministratori furono nominati, previo però consultazioni, in particolare dei parroci, per individuare persone stimate dalla popolazione. Addirittura, in un mondo in cui era arbitro la violenza prodotta dalla guerra e portata dal nazifascismo, il Cln si preoccupò di assicurare la legittimità anche formale degli atti amministrativi. Nominò infatti, nella persona dell’avvocato Carlo Cerri, un commissario civile, una specie di prefetto dei comuni partigiani, che emanò un organico provvedimento di norme per il corretto svolgimento dell’attività amministrativa, con riferimento alle legge comunale e provinciale ante dittatura fascista.
I nuovi organi dei comuni ed il commissario civile si curarono innanzitutto del problema dei rifornimenti alimentari della popolazione e del funzionamento dei servizi pubblici essenziali, a cominciare da quello sanitario. A Bettola provvidero non solo a riaprire le scuole elementari ma anche ad istituire un corso di scuola media pubblica ed ad innovarne i programmi in direzione della nuova cultura della libertà
Il Cln provinciale a sua volta cercò anche di intervenire su un aspetto critico del rapporto fra formazioni partigiane e popolazione, quello delle requisizioni, requisizioni in una certa misura inevitabili per assicurare la sopravvivenza e l’attività dei partigiani, in particolare per quanto riguarda i generi alimentari e gli automezzi. Un apposito decreto del Cln affermò che “al fine di garantire alla popolazione tranquillità di lavoro e sicurezza di conservazione del patrimonio singolo e collettivo, le requisizioni dovevano (sempre) avvenire su un terreno di legalità. Dovevano essere sempre autorizzate dai comandi superiori, essere accompagnati da regolare ricevuta e investire solo soggetti compromessi con il fascismo”.
Con un tale decreto, in un campo in cui i raggruppamenti partigiani usavano agire a propria discrezione, il Cln si poneva come la nuova complessiva autorità di governo, sia rispetto alla popolazione che rispetto alle formazioni partigiane e ai loro comandi. Una pretesa che determinò un serio contrasto in specifico con il comando della Divisione partigiana Giustizia e Libertà. Fausto Cossu intimò infatti ai membri del Cln piacentino di lasciare il territorio della Val Trebbia-Val Tidone controllato dalla sua formazione. Cossu stesso, peraltro, e più di una volta, emise provvedimento di denuncia e divieto nei confronti dei partigiani della sua formazione riguardo ad iniziative personali e non autorizzate di requisizione di beni.
8 – Il rastrellamento e la crisi dell’inverno ‘44/’45
Tutta questa situazione di crescita del movimento partigiano e di sviluppo del ruolo del Cln fu però in breve tempo travolta quando, a partire dal 23 novembre del ’44, cessate temporaneamente le battaglie sulla linea gotica fra esercito tedesco e anglo-americano gotica, il territorio piacentino liberato e presidiato dai partigiani fu progressivamente preso nella morsa del poderoso rastrellamento nazi-mongolo. Arrivò per i nostri partigiani il periodo, durato fino al febbraio ‘45, delle ritirate sanguinose, degli eccidi nazifascisti, della dispersione degli stessi comandi.
Anche il Cln provinciale venne sconvolto e cessò temporaneamente di funzionare. Emilio Molinari ed Aldo Clini cercarono la salvezza spostandosi via via nel territorio di montagna, fino a che all’inizio di marzo poterono rifugiarsi a Bobbio liberato il 3 marzo e per la terza volta, dalla Brigata di Italo Londei. Luigi Rigolli ed Ettore Crovini ritornarono invece a Piacenza contando di non essere identificato come componenti del Cln considerato che anche in tale organismo erano identificati solo con un nome preso a prestito: Rigolli era “Pesaro” e Crovini era “Mattia”.
Nel frattempo Francesco Daveri, che come ispettore del Cln AI aveva continuato a seguire e la vita del Cln piacentino e del Comando militare che faceva capo a Canzi, dopo che il 21 ottobre aveva per l’ultima volta incontrati i componenti dei due organismi in una riunione a Bettola e in una seconda a San Giorgio Piacentino, il 18 novembre era stato arrestato a Milano dalle SS tedesche e portato nelle carceri di San Vittore. Il 16 gennaio del ’45 sarà avviato con altri antifascisti alla deportazione nel Lager di Mauthusen- Gusen dove lascerà la vita all’inizia di aprile, pochi giorni prima della fine del regime nazista.
Nella tetra Piacenza dell’inverno ‘44/’45, gli uomini della polizia militare fascista il 28 dicembre arrestano un altro esponente del CLN, Luigi Rigolli. Dalle carceri della città il 14 febbraio è trasferito in quelle di Reggio Emilia , il 28 viene prelevato, condotto presso il cimitero del Comune di Cadelbosco e lì fucilato assieme ad altri 9 antifascisti. La macabra esecuzione di 10 persone, giustificata dai fascisti e nazisti come ritorsione, 10 contro uno, per un loro caduto, si ripeterà il 29 marzo nel cimitero di Piacenza , quando, fra gli altri, sarà fucilato il giovane Alfredo Borotti, 23 anni, che del Cln, oltre che del Partito comunista, era stato un assiduo collaboratore, provvedendo fra l’altro a riprodurne nascostamente comunicati e volantini con il ciclostile della Camera di Commercio presso la quale lavorava.
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9 - La fase finale della Liberazione e della nomina dei nuovi amministratori antifascisti
Intanto, a Roma dove, dopo la liberazione della città, nel giugno ‘44, si era insediato il nuovo governo italiano presieduto dal vecchio esponente progressista Ivanoe Bonomi, ed il re Vittorio Emanuele III aveva incominciato a farsi da parte nominando luogotenente il figlio Umberto, il Cln AI, tramite una complessa trattativa di una propria delegazione, veniva riconosciuto dal governo quale suo delegato nella lotta contro fascisti e tedeschi nei territori ancora occupati. Otteneva inoltre dalle autorità militari alleate l’assicurazione di più consistenti aiuti in armi ed equipaggiamenti attraverso i lanci aerei, ed anche di discreti contributi finanziari da ripartire fra le formazioni partigiane per la loro sussistenza, in cambio però di tre precisi impegni assunti dai rappresentanti del Cln AI:
1 che da allora in avanti le formazione partigiane avrebbero esclusivamente operato secondo le disposizioni del comando militare alleato;
2 che subito dopo la liberazione i partigiani avrebbero consegnato le armi e smobilitato;
3 che i Cln dopo la liberazione avrebbero rimesso nelle mani delle autorità alleate tutti i poteri di governo e di amministrazione da essi assunti nel territorio dell’ex repubblica di Salò.
Questo accordo significava fra l’altro che le autorità militari alleate, cacciati i tedeschi ed i fascisti, riservavano a sè la nomina di tutti i vertici dell’amministrazione pubblica locale: prefetti, questori, sindaci e quant’altri esercitassero un potere pubblico.
Nella nostra provincia le Brigate e le Divisioni partigiane che erano state sconvolte dal rastrellamento nazi-mongole, si ricostruirono rapidamente alla fine del febbraio ’45, ritornarono all’attacco e riconquistarono via via il controllo del territorio, abbandonando nel frattempo, secondo le disposizioni del Comando generale del CVL, simboli e nomi di partito, per diventare semplicemente Divisione partigiana Piacenza, Divisione partigiana Val Nure, divisione partigiana Val d’Arda.
Anche il Cln fu integrato e ritornò pienamente operativo. Accanto al comunista Crovini, al democristiano Molinari e all’azionisti Clini, l’avvocato Emilio Piatti subentrò a Rigolli in rappresentanza dei socialisti. A sua volta Emilio Canzi era tornato al vertice del ricostituito Comando unico militare, ma non avendo il sostegno di un suo partito, poco tempo prima della Liberazione sarà sacrificato con la nomina al suo posto dell’ex colonnello Luigi Marzioli, su iniziativa non del Cln ma degli esponenti comunisti del Comando Militare Nord Emilia.
Il fondamentale compito svolto dal Cln piacentino in questa terza e decisiva fase della sua vita ed attività, la fase della liberazione definitiva della nostra provincia e di tutto il Paese dal nazifascismo, oltre a fare appello alla popolazione per l’ultimo sforzo da compiere in questa lotta, fu quella di far si che le autorità militari alleate all’indomani della liberazione si trovassero già in presenza, negli organismi del potere pubblico locale, a nuovi amministratori espressi dal movimento di liberazione e dalle forze politiche antifasciste.
La questione di questo nomine era già stato affrontata, sulla base delle indicazioni del Cln AI , nell’autunno del ’44, quando sembrava imminente la sconfitta e la ritirata dell’esercito tedesco anche dal Nord Italia. A quel tempo si era già concordato di indicare Francesco Daveri, per l’autorevolezza della sua personalità, alla carica di Prefetto Ora, anche sulla base di un accordo in sede regionale per una equilibrata ripartizione degli incarichi di maggior rilievo fra esponenti rappresentativi dei diversi orientamenti politici, si procedette a formalizzare le nomine di carattere provinciale e relative al Comune di Piacenza, lasciando ai Cln comunali la scelta dei nuovi sindaci locali. Si tenne conto del peso dei partiti ma anche delle caratteristiche delle persone. L’avvocato Vittorio Minoia, democristiano, fu designato alla carica di Prefetto, con vice l’azionista Aldo Clini; il comandante partigiano Fausto Cossu, che era anche laureato in legge, alla carica di Questore; il geometra Giuseppe Visconti, comunista, alla carica di sindaco di Piacenza, con due vice., il socialista Arata ed il democristiano Giovanni Laneri; l’avvocato Francesco Pallastrelli, di orientamento liberale, alla presidenza della Provincia; il comunista Ettore Crovini, che era ragioniere, fu indicato per la presidenza della Cassa di Risparmio.
Le autorità militari alleate, che dalle esperienze dei mesi precedenti, a cominciare dalla liberazione di Firenze, avevano imparato a non contrapporre nominativi di propria scelta a quelli scelti di Cln, se volevano nelle città amministratori riconosciuti dalla popolazioni e quindi autorevoli, provvidero a far buon viso a queste designazioni e a ratificarle.
Ed iniziava cosi la fase della ricostruzione materiale e morale del Paese e quella della costruzione della sua moderna democrazia, che come prima importante tappa avrà, anche nella nostra provincia, le elezioni comunali del marzo 1946, per la prima volta ad effettivo suffragio universale, maschile e femminile. Il Cln piacentino rimase in vita fino a quelle elezioni, con funzioni consultive per la prefettura e le altre amministrazioni.
10 - Considerazioni conclusive
Della moderna democrazia italiana, a 70 anni di distanza vediamo e viviamo però anche le storture. La Repubblica Italiana, da acuti studiosi, è stata definita una Repubblica democratica dei partiti, nel senso che la partecipazione ed il peso dei cittadini comuni nella vita e nelle scelte pubbliche si è realizzata fondamentalmente attraverso i partiti e non anche in altre forme di più diretta influenza dei cittadini nella vita pubblica del Paese
Le radici di questa democrazia dei partiti e delle storture che sono andate caratterizzando il sistema politico italiano vengono individuate anche nel ruolo che durante la lotta partigiana hanno avuto i Comitati di Liberazione Nazionale composti esclusivamente da esponenti di partito.
Ma per la verità le storture del nostro sistema politico democratico risalgono a cause più lontane nel tempo.
Il nostro Paese, rispetto ad altri in Europa, è arrivato molto tardi all’unificazione nazionale e quando questa si è realizzata, secondo il grande statista Cavour, “si dovevano però ancora fare gli italiani!” Gli italiani, potremmo dire, come cittadini consapevoli di appartenere ad una comunità che deve e può assicurare loro la libertà, la sicurezza ed un insieme di altri diritti, a condizione però che gli stessi cittadini concorrano responsabilmente anche con il proprio comportamento a realizzarne le condizioni.
Lo stato liberale monarchico però non favorì la crescita dei cittadini responsabili, perché fra l’altro non riconobbe nemmeno il diritto di voto per la grande parte di essi. E poi venne il fascismo per il quale i cittadini dovevano solo “credere ed obbedire” a quanto veniva detto e deciso dall’autorità che li dominava. Vissero per venti anni nella condizione di sudditi in uno Stato che nel frattempo si andò sempre più burocratizzante e che ne indirizzava e controllava minutamente il comportamento. Da tali condizioni non poteva scaturire quella cultura civica diffusa che in altre Nazioni rende fra l’altro i cittadini vigili contro l’eventuale malcostume dei loro uomini di governo, dei loro politici, e li conduce a non tollerarne la disonestà, le menzogne, le scelte ed i comportamenti non trasparenti.
Nella lotta di liberazione italiana e nella costruzione delle istituzioni democratiche della repubblica gli uomini di partito hanno svolto una funzione indispensabile. Si consideri fra l’altro che in Italia non abbiamo avuto un uomo a capo della Resistenza come il generale De Gaulle in Francia, che ha immediatamente sconfessato il “regime del disonore” di Pétain e chiamato il popolo alla lotta, non abbiamo avuto in Italia altre significative componenti della classe dirigente che affiancassero le forze politiche nell’animare e dirigere il riscatto nazionale.
Ma i partiti sono anche strumenti di un potere che può degenerare se non controllato da una vigile cultura civica dei cittadini, se i cittadini si acconciano al ruolo di clienti di quel potere.
E’ quanto è successo nella vita della nostra Repubblica.
Inoltre, quando è venuta meno quella forma di partecipazione dei cittadini alla vita e alle scelte pubbliche che comunque i tramontati partiti di massa assicuravano, si è determinato uno squilibrio ed un vuoto nel sistema della nostra democrazia che non è ancora stato risolto in positivo dalle nuove forme di organizzazione politica che si sono sviluppate in Italia negli ultimi venti anni.
Purtroppo, il 70° anniversario della lotta di liberazione trova l’Italia in una preoccupante condizione di crisi su diversi terreni. Ricordare come il popolo italiano abbia saputo mettere in campo 70 anni fa le idee e le energie anche morali per superare quella prova può forse essere di aiuto per affrontare i problemi del presente.
1 - Premessa
Il 25 luglio 1943, re Vittorio Emanuele III ed il suo “enturage” di aristocratici, di generali e di alti burocrati, proprio attraverso il licenziamento di Mussolini e del partito fascista, intendevano salvare non solo la monarchia ma anche quello tipo di stato e di sistema economico-sociale che il fascismo aveva prodotto in venti anni di dittatura. Si erano preoccupati di evitare che il regime fascista fosse travolto da un sommovimento di popolo guidato da quelle forze politiche antifasciste che si stavano a quel tempo riorganizzando. Il governo che si costituì, presieduto dal generale Badoglio, nei 45 giorni fra il 25 luglio e l’8 settembre, oltre a vietare l’attività di tali partiti, fece impedire e reprimere con le armi dell’esercito ogni manifestazione popolare a sostegno della fine della guerra, della libertà e della democrazia: 97 manifestanti furono uccisi, circa 300 feriti, poco meno di 3.000 persone arrestate.
Poi, l’improntitudine e la meschinità di quel re e di quei membri del governo li condusse a lasciare, l’8 settembre, all’annuncio dell’armistizio, lo stesso esercito allo sbando, e a preoccuparsi solo della personale salvezza fisica.
Tuttavia, anche successivamente, con il re ed il governo Badoglio rifugiati a Brindisi sotto la protezione dell’esercito anglo-americano, non solo Vittorio Emanuele III ma anche molti esponenti delle vecchia classe dirigente, continuarono a concepire il futuro dell’Italia come un semplice ritorno al regime politico monarchico-liberale precedente alla dittatura fascista, considerata solo una parentesi nelle vita del Paese. Sappiamo che fra gli alleati il governo inglese di Wiston Curchill in specifico sosteneva con determinazione la prospettiva, dopo la sconfitta della Germania nazista, di confermare in Italia la monarchia sabauda quale garanzia di una assetto politico moderato, magari sotto una qualche forma di protettorato britannico.
Se invece dopo la sconfitta del nazi-fascismo l’Italia ha imboccato una strada nuova, con la formazione di governi esclusivamente composti da esponenti delle forze antifasciste, con la liquidazione, tramite referendum popolare, della monarchia, la nascita della Repubblica, l’elezione di una Assemblea costituente che elaborò una Costituzione di avanzati contenuti, se tutto questo è potuto avvenire è perché abbiamo avuto in Italia, dopo l’8 settembre ’43, un movimento popolare di liberazione, il cui contributo alla sconfitta dai nazifascisti non ha potuto essere disconosciuto dagli alleati, un movimento attraverso il quale il popolo italiano è diventato ed ha preso coscienza di essere protagonista del proprio futuro., e di un futuro politico che non poteva che lasciarsi alle spalle un sistema istituzionale che aveva reso possibile l’istaurarsi della dittatura fascista.
Ma per assicurare tale profondo rinnovamento politico-istituzionale dell’Italia non sarebbero bastate le varie forme di resistenza che si manifestarono contro il nuovo regime fascista di Salò, non sarebbe bastato che decina di migliaia di giovani dopo aver rifiutato l’arruolamento nelle forze armate mussoliniane ed imbracciato le armi per difendersi dai rastrellamenti e dalle catture, passassero anche all’attacco delle forze armate fasciste ed hitleriane per contribuire allo loro sconfitta e al ritorno della pace. Era anche necessario che tali forme di resistenza, che tali bande di ribelli, fossero sostenuto da un movimento adeguato di idee e di programmi politici rivolti al futuro assetto dell’Italia, idee e programmi di cui non potevano che essere portatori uomini, e gruppi di uomini, con già un trascorso di riflessioni, di conoscenze ed anche di esperienze politiche, necessarie ad impostare una coerente strategia di azione, a definire gli orizzonti, i contenuti ed i percorsi del cambiamento politico-istituzionale per l’Italia di domani. E, sulla base di questi orizzonti e contenuti, di dare a tutti i resistenti e ribelli la consapevolezza che si stava combattendo non solo per respingere la barbarie nazifascista ma anche per costruire un mondo nuovo dove guerra, violenza e sopraffazione non avrebbero più avuto esistenza. Una consapevolezza necessaria a tener duro, a superare i momenti più difficili, a reagire alle sconfitte, a costruire animi forti che sapessero, come seppero, non piegarsi nemmeno sotto la tortura.
L’apporto fondamentale in questa direzione venne al movimento di liberazione dagli uomini che si erano formati, o che si formarono in quei mesi un orientamento ed una esperienza politica nell’ambito dei partiti politici antifascisti e degli organismi unitari da questi costituiti, i Comitati di Liberazione Nazionale. I Cln divennero gli organi di direzione politica del movimento partigiano di liberazione, anche se non senza momenti di difficoltà nei rapporti con le formazioni dei combattenti, e momenti di contrasto fra le componenti partitiche stesse dei Cln.
L’organo politico nazionale del movimento di liberazione fu non tanto il Cln cosiddetto centrale che, dopo la fuga dalla capitale del re e di Badoglio, si costituì a Roma il 9 settembre 1943, con un comunicato che chiamagli gli italiani “alla lotta e alla resistenza”.
L’organo generale di direzione del movimento di liberazione fu invece il Cln Alta Italia che ebbe sede a Milano che si era lì costituito come organismo locale subito dopo quello di Roma, ma che già nel corso del 1943 divenne punto di riferimento per il Cln che si andavano a costituire nelle altre province del Nord e che infine, nel gennaio ’44, fu riconosciuto formalmente e delegato del Cln centrale per la direzione del movimento di liberazione in tutti i territori sotto occupazione tedesca. Il Cln sorto a Milano assunse quel ruolo anche perché questa città, in considerazione della sua centralità territoriale e sociale, era subito stata scelta dai dirigenti del Partito Comunista come sede organizzativa e di direzione delle Brigate partigiane garibaldine promosse dal Pci e scelta anche da Ferruccio Parri quale sede centrale per l’organizzazione delle formazioni partigiane collegate al Partito d’Azione.
2 - La nascita del CLN piacentino
A Piacenza, è durante i 45 giorni fra il 25 luglio e l’8 settembre che esponenti antifascisti incominciano a venire allo scoperto e che aderenti ai maggiori partiti antifascisti incominciano ad incontrarsi e, sulla scorta di ciò che avveniva in altre parti d’Italia, arrivano a costituire un Comitato delle opposizioni, che rappresenterà l’antecedente del Cln.
Quando parlo dei partiti antifascista mi riferisco a quelli storici, il partito socialista e quello comunista, e a quelli di recente costituzione, il Partito d’azione che derivava del movimento antifascista Giustizia e Libertà fondato a Parigi nel 1928 da Carlo Rosselli, e mi riferisco alla Democrazia cristiana che era nata nel 1942 su iniziativa di esponenti del passato Partito popolare, quale Alcide De Gasperi, e da nuovi esponenti cattolici. Anche fra esponenti del vecchio partito liberale erano maturate posizioni antifasciste che a Piacenza furono rappresentate in particolare dall’avvocato Gaetano Grandi.
Durante i 45, più degli stessi esponenti del partito comunista, che pure anche durante il ventennio fascista si erano esposti in una attiva opposizione al regime e che per questo avevano subito il carcere ed il confino, comunisti che a Piacenza avevano come referente provinciale il falegname Paolo Belizzi, prende decisamente l’iniziativa l’avv. Francesco Daveri, classe 1903, antifascista fin dalla gioventù e ora il più determinato esponente del nuovo partito cattolico, la Democrazia cristiana.
Daveri è l’uomo che, oltre a dare fuoco e gettare dalla finestra della pretura di Bettola un ritratto del Duce, va dal prefetto De Bonis a richiedere la sostituzione nei posti di responsabilità degli uomini più compromessi con il fascismo, e sensibilizza, in direzione della necessità di una azione unitaria antifascista, diversi colleghi avvocati che troveremo nel movimento della Resistenza in rappresentanza di posizioni partitiche diverse, quali in particolare i democristiani Carlo Cerri (classe 1892) e Vittorio Minoia (classe 1988), il socialista Giuseppe Arata (classe 1901), l’azionista Raffaele Cantù (classe 1913).
Dopo l’otto settembre e l’occupazione tedesca di Piacenza, cominciano a rifugiarsi in montagna, oltre a centinaia di militari stranieri liberati dai campi, anche i primi noti antifascisti che temono arresto e violenze da parte dei fascisti tornati al potere. Nascono, come ricordavo, i primi Cln a Roma e a Milano. I militanti comunista ricevano dalla direzione del partito la disposizione di organizzare un movimento armato di lotta al nazifascismo sull’esempio di quanto già avvenuto in altri Paesi d’Europa, segnatamente la Jugoslavia. Torna a Piacenza dal confino l’anarchico Emilio Canzi (classe 1893), che metta a disposizione la sua esperienza di comandante nelle brigate internazionali in Spagna. In questo quadro nasce anche a Piacenza il Cln che possiamo definire provinciale. Dopo una prima riunione il 30 di settembre fra i rappresentanti dei partiti antifascisti ed Emilio Canzi che aveva già preso contatto con il primo gruppo di antifascisti confluiti a Peli di Coli, accolti ed assistiti dal giovane parroco Giovanni Bruschi, il Cln piacentino si costituì in un nuovo incontro nello studio di Daveri, nella vecchia via Pavone ora via Francesco Daveri, in una data rimasta incerta della prima metà di settembre, probabilmente il 10 o il 13.
3 – Obiettivi del presente convegno sul Cln piacentino
Devo aprire qui una parentesi. Sapete che come Anpi provinciale abbiamo deciso di seguire il 70° del movimento di liberazione, lungo 19 mesi, promuovendo in successione, d’intesa possibilmente con altre associazioni e con le istituzioni pubbliche, una serie di iniziative di approfondimento sugli aspetti e sugli snodi più significativi dello sviluppo del movimento in provincia di Piacenza.
La nascita, il ruolo, l’attività del Cln provinciale e le figure degli antifascistiche ne caratterizzarono la vita costituisce certamente un aspetto fra i più rilevanti del movimento di liberazione, un aspetto che è stato trattato nella storiografia sulla Resistenza piacentina, ma scarsamente evidenziato nella più ampia pubblicistica in materia, e non è quindi adeguatamente presente nella nostra memoria pubblica.
Peraltro, una ricostruzione del ruolo e delle vicende del Cln piacentino e degli uomini di partito che ne caratterizzarono la vita, fatta a 70 anni di distanza, se non ci permette più di conoscere certi dettagli, consultando ad esempio i protagonisti, ci offre però la possibilità di valutare meglio il peso e gli effetti che tale comitato e più in generale i partiti antifascisti hanno avuto sia sullo sviluppo del movimento partigiano che sulla nascita e sulle caratteristiche del sistema di democrazia politica che si è affermato nel nostro Paese dopo la Liberazione.
E’ quello che in qualche misura cercherò di fare con la mia ricostruzione.
4 – Il primo periodo di vita del Cln piacentino
Riprendendo la narrazione, richiamo innanzitutto il fatto che la costituzione del Cln piacentino non fu una operazione agevole. Piacenza era occupata dalle forze hitleriane che a Boves giò il 19 settembre avevano compiuto l’eccidio di 23 civili per terrorizzare la popolazione e prevenirne il possibile appoggio ai primi gruppi di ribelli. In campo nazionale al momento solo il Partito comunista ed il Partito d’azione stavano dando corso concretamente alla scelta di organizzare gruppi di resistenza armata contro gli occupanti nazisti e contro i ritornato regime fascista di Salò. Nel mondo cattolico invece erano forti le perplessità, anche per motivi morali, a scendere sul terreno della violenza ed anche esponenti di altri partiti antifascisti non vedevano ancora la possibilità e l’utilità di promuovere movimenti di lotta armata. Emerge una volta di più quindi la determinazione alla lotta contro i nazifascisti di Francesco Daveri che entrò a far parte del Cln per conto della Democrazia Cristiana, assieme a Paolo Belizzi per conto del Partito comunista, mentre non aderirono al momento l’avv. Raffaele Cantù che nella citata riunione costitutiva rappresentava il Partito d’Azione e l’avv. Giuseppe Arata che rappresentava il partito socialista. Per i socialisti si fece avanti però generosamente il più anziano Mario Minoia, medico legale e grande invalido per aver perso una gamba nella prima guerra mondiale, fratello dei Vittorio Minoia avvocato già citato.
Il 4° componente del primo CLN fu Emilio Canzi, anarchico non collegato ad alcuna organizzazione di partito. Canzi stava nel Comitato di liberazione come responsabile del lavoro miliare, affiancato da Lorenzo Marzani ,anche lui di orientamento anarchico, pittore, già organizzatore del gruppo di Peli, e da Giuseppe Narducci (classe1907) noto come “Pippotto”, artigiano, comunista. Un po’ più avanti anche Raffaele Cantù entrerà nel Cln per conto degli azionisti e Mario Minoia per i socialisti sarà sostituito dall’avv. Giuseppe Arata.
Ho citate prima gli anni di nascita di questi uomini perché evidenziano che avevano quasi tutti fra i 40 e i 50 anni, erano cioè persone che non si erano formate durante il ventennio fascista ma avevano conosciuto anche l’Italia del pluralismo politico prefascista, avevano in parte già fatto delle esperienze di partito, nel vecchio Partito popolare dei cattolici, nel Partito socialista, nel Partito comunista, nel movimento anarchico. Disponevano cioè di una di cultura politica che non potevano inizialmente avere i più giovani aderenti al movimento partigiano.
Un altro dato è opportuno rilevare. Questi uomini avevano appartenuto o fatto riferimento a partiti politici che erano stati storicamente sempre avversari, che all’inizio degli anni 20 nemmeno di fronte alla brutale ascesa al potere dei fascisti erano riusciti ad unirsi in una azione comune . Ora invece questi uomini, pur mantenendo le loro diverse convinzioni di principi e di programmi, realizzavano un terreno comune di rispetto reciproco, di dialogo, di collaborazione, di sacrifici e di rischi. E l’avvocato, l’esponente della borghesia, stava nel Cln su un piano di parità con l’artigiano e con l’operaio.
Affrontando l’esame del ruolo e dell’attività del Cln piacentino va peraltro ricordato che non fu questo organismo che diede origine ai primi gruppi di ribelli armati e alle prime azioni partigiane contro le forze militari hitleriane e della repubblica di Salò. Le prime piccole bande di resistenti armati scaturirono da molteplici fattori. Gli uomini del Cln si adoperarono però già nei primi mesi di vita dell’organismo per irrobustire questi prime basi della resistenza.
Una valutazione d’insieme sul ruolo avuto dal Cln nei confronti del movimento partigiano piacentino l’ha espressa Antonino La Rosa, ex-ufficiale e componente di tale organismo per alcuni mesi, scrivendo nella sua Storia della Resistenza nel piacentino: “Gli uomini di partito del Cln furono concordi sulla necessità della lotta e ad essa si dedicarono senza risparmio. Il Cln piacentino tuttavia non ebbe forza sufficiente per guidare il movimento militare. Si limitò a sostenerlo ed ad influenzarlo ove possibile.” Ed ha poi aggiunto “Si venne anche a determinare una certa incomprensione da parte dei partigiano combattenti nei confronti dei civili che si limitavano a cospirare”.
Me, se è pure il Cln non diresse il movimento armato, altre ed essenziali furono le funzioni svolte nel movimento di liberazione. E va anche doverosamente aggiunto che chi, invece che alla lotta armata, si dedicava a queste altre funzioni, operando clandestinamente dentro ad una città dove vari corpi di polizia fascisti e tedeschi davano la caccia agli antifascisti, non correva meno rischi. Tant’è che due civili del Cln piacentino, Francesco Daveri e Luigi Rigolli, pagarono con la vita la loro attività e anche altri componenti subirono il carcere.
Inizialmente gli uomini del Cln e gli altri antifascisti che facevano riferimento diretto ad esso, come i citati componenti del comitato militare, si preoccuparono di affiancare ed incoraggiare le iniziative spontanee della popolazione per dare assistenza ai militari italiani sbandati ed evitarne la cattura e la deportazione in Germania. Una assistenza più impegnativa e rischiosa venne inoltre assicurata ai militari stranieri che l’8 settembre erano riusciti a lasciare i 4 centri di detenzione esistenti nella nostra provincia. I circa 250 ufficiali inglesi e del Commonwealth britannico presenti nella struttura di Veano, i 230 militari jugoslavi detenuti in un convento di Cortemaggiore, la cinquantina di greci detenuti nel castello di Rezzanello, più gli altri prigionieri che stavano nel Collegio Morigi di Piacenza. La maggioranza, in specifico degli ufficiali inglesi, con l’assistenza avuto hanno potuto raggiungere la Svizzera o passare il fronte e tornare cosi a riprendere le armi contro l’esercito hitleriano. E chi non ha potuto fare questo, in particolare gli jugoslavi, si sono poi uniti ai partigiani piacentini.
Gli uomini del Cln si sono inoltre dedicati a far si che le armi abbandonate dai militari italiani sbandati venissero recuperate e fatte giungere a Peli e al primo gruppo di resistenti lì confluiti. Da Peli una parte delle armi furono poi trasportati verso il territorio di Bardi dove altri resistenti, anche piacentini, si erano raccolti. Un compito assunto fu anche quello di procurare dei sostegni finanziari per il mantenimento dei primi ribelli rifugiati in montagna, in modo che non dovessero gravare sulla popolazione locale.
Anche se era solo il gruppo di Peli che inizialmente faceva diretto riferimento al Cln , l’esistenza di un organismo unitario come il Cln che faceva appello alla lotta armato contro i nazifascisti costituiva un indubbio elemento morale e di “copertura” politica anche per gli altri primi gruppi di ribelli che restavano autonomi.
5 – Arresti e mutilazione del Cln piacentino
Peraltro il Cln piacentino, nella composizione nominativa che ho ricordato, e lo stesso gruppo di Peli al comando di Canzi, prima che potessero intessere una rete di collegamenti su tutto il territorio provinciale, furono colpiti e sconvolti e dalla repressione degli organi giudiziarie e della polizia militare del regime di Salò. Nel novembre ’43 è arrestato Lorenzo Marzani del comitato militare, in dicembre la polizia fascista compie un escursione a Peli e saccheggia la canonica. Per fortuna non riesce ad individuare le armi nascoste sul cornicione della chiesa, ma anche don Bruschi deve lasciare la sua parrocchia e nascondersi inizialmente a Piacenza. Il 30 gennaio ’44 viene spiccato un mandato di cattura nei confronti di Francesco Daveri; il 14 febbraio è arrestato Emilio Canzi. Daveri si nasconde a Piacenza presso una famiglia fidata, ma dopo la condanna a 5 anni di carcere deve riparare in Svizzera dove riprende però subito contatto con esponenti della Resistenza. Anche l’azionista Raffaele Cantù, altro membro del Cln, è condannato a 5 anni di carcere e si rifugia in Svizzera.
Il Cln piacentino resta gravemente amputato per alcuni mesi; resta l’esponente socialista Arata ed il comunista Paolo Belizzi; del comitato miliare resta Narducci ma vi entra a far parte anche Ercole Anguissola e vengono allacciati rapporti con Giovanni Molinari e Arnaldo Tanzi di Fiorenzuola che avevano tentato di costituire un gruppo di ribelli in alta Val d’Arda. A parte Arata, le persone citate fanno tutti riferimento al partito comunista e la sede degli incontri è diventato il laboratorio di falegnameria di Belizzi.
6 – Cln e azione autonoma dei partiti antifascisti
In questa fase ad operare per la nascita e lo sviluppo delle formazioni partigiane sono in specifico gli uomini del Pci, lo fanno anche a nome del Cln ma il riferimento organizzativo per le prime formazioni armate sono le Brigate Garibaldi che hanno un comando generale a Milano in capo a Luigi Longo.
Per comprendere quanto avverrà anche in seguito nei rapporti fra gli esponenti dei diversi partiti devo qui fare un inciso sulle posizioni del Partito comunista e dei suoi capi nazionali, a partire da Togliatti che arriva a Napoli da Mosca a fine marzo’44 e promuove la famosa svolta di Salerno, cioè la formazione, nel sud liberato dagli alleati, di un governo composto dai rappresentati dei partiti antifascisti ma presieduto ancora da Badaglio e pur restando ancora Vittorio Emanuele III a i vertici dello Stato.
Documenti sovietici che si sono potuti consultare negli ultimi anni confermano che i capi comunisti italiani avevano nel ’43 e nel ‘44 subordinavano ogni altro obiettivo alla realizzazione di un efficace contributo del popolo italiano nella guerra contro la Germania hitleriano oltre che contro il regime di Salò, perché questo era anche una volere di Stalin, era anche un modo di aiutare l’Unione sovietica invasa dalla dalle armate hitleriane Per promuovere il massimo sforzo degli italiani nella guerra i comunisti puntavano sulla unità e mobilitazione di tutte le forze antifasciste, accantonando per il momento anche il problema delle responsabilità della monarchia. Però, se inizialmente altre forze antifasciste esitavano nella costruzione di un movimento armato, i comunisti erano decisi ad andare avanti anche da soli ed in tal senso diedero impulso alla formazione delle Brigate garibaldine, concependole comunque come formazione aperte a partigiani di tutti gli orientamenti, possibilmente agli ordini di ex ufficiali esperti, riservandosi invece la scelta dei commissari, che all’interno delle brigate avrebbero potuto svolgere opera di orientamento politico.
Non è che questa strategia fosse senz’altro nella testa anche degli esponenti comunisti piacentini come Paolo Belizzi. Ma questi erano comunque già di per se portati alla collaborazione e all’unità con tutti pur di combattere fascisti e nazisti. In ogni caso il centro dirigente del Pci mandava periodicamente propri ispettori a contattare ed orientare gli esponenti locali. E trasferì in provincia di Piacenza anche quadri di partito originari di altre province, in particolare Pio Godoli da Milano e Remo Polizzi da Parma. Sta di fatto che nei primi mesi del ‘44, a fronte delle difficoltà di altre forza antifasciste, anche i comunisti piacentini si muovono con impegno per costruire le formazioni garibaldine. Particolarmente attivo risulta Giuseppe Narducci. E’ lui che, essendo Canzi in prigione, individua e chiede all’ex ufficiale slavo Milih Dusan , il Montenegrino, di assumere il comando ed unificare le piccole bande di ribelli che erano nate in Val Nure . E’ sempre Narducci che, vecchio compagno di scuola di Vladimiro Bersani, già capitano dell’esercito, lo incontra un giorno, lo porta da Belizzi e lo inserisce nel partito e nel gruppo degli uomini del Cln. Bersani, siamo verso la fine del febbraio ’44, si mette in contatto con i primi ribelli della Val d’Arda e con un altro ex-ufficiale, Giuseppe Prati. All’inizio di aprile si formalizza la costituzione della formazione partigiana della Val d’arda, di cui Valdimiro Bersani assume il comando a nome del Cln e Prati diventa il vice. Diventerà la prima Brigata garibaldina della nostra provincia e un ispettore del Comando generale gli attribuirà il numero 38. Alla fine dell’estate ’44 le brigate partigiane garibaldine saranno sei, quattro in Val d’Arda, due in Val Nure. In Val d’Arda, dopo la morte di Bersani il comando sarà preso da Prati, cattolico di orientamento democristiano, a dimostrazione che anche nelle Garibaldi il pluralismo politico era scontato ed inevitabile.
Altra iniziativa dei comunisti è l’impegno che viene assunto da Giovanni Molinari di costruire una formazione di partigiani nella zona ancora scoperta dell’alta Val Tidone, sul crinale con la Val Trebbia. Ma la Val Tidone-Val Trebbia diventerà invece il territorio di sviluppo di una formazione che non ha origini da impulsi del Cln e da esponenti politici. Si tratta della formazione di Fausto Cossu, già tenente dei carabinieri che, radunato con se un primo gruppo di ex carabinieri riesce via via a costruire una Brigata che diventerà poi una grande Divisione, assorbendo tutte le bande di partigiani di quel territorio, in qualche caso con atti di forza, come avvenne tragicamente con il raggruppamento di Molinari.
Anche la formazione partigiana di Cossu, pur non nata da impulsi del Cln, si viene però ad un certo punto ad incrociare con uomini di partito che gravitano sul Cln, in questo caso però non quello piacentino ma il Cln AI di Milano Alla azione dei comunisti per costruire e sviluppare la loro influenza nelle Brigate Garibaldi, cerca infatti di fare da contraltare l’attivissimo esponente del Partito d’Azione, Mario Jacchia, un altro avvocato, bolognese, diventato ispettore del ClnAI per l’Emilia occidentale. Jacchia contatta fra gli altri Fausto Cossu, e sebbene questi sia ben lontano dalle posizioni politiche del Partito d’Azione, lo convince a far aderire la sua formazione al raggruppamento delle Brigate Giustizia e Libertà che fanno riferimento appunto al Partito d’Azione, promettendogli in cambio di essere privilegiato nei lanci aerei degli alleati.
Sul piano pratico ed operativo l‘assunzione del nome Giustizia e Libertà da parte della formazione partigiana di Cossu avrà scarso rilievo, come limitato ne aveva avuto dall’altra parte il nome di Brigate Garibaldi. Però la vicenda evidenzia due questioni. La prima è che la capacità organizzativa e la rete organizzativa nazionale del Partito comunista, pur apprezzata dalle altre forze politiche del Cln per il contributo alla lotta di liberazione, nello stesso tempo suscita in queste forze allarme per il futuro assetto politico dell’Italia. La seconda questione sta nel fatto che gli esponenti dei diversi partiti antifascista, pur nel momento in cui collaborano lealmente nei Cln per il comune obiettivo dello sconfitta del fascismo e del nazismo, si preoccupano però anche di rafforzare l’influenza del proprio partito.
Ricordo anche qui che Mario Jacchia alla fine del luglio ’44 è catturato a Parma dalla milizia fascista, torturato ed ucciso. Proprio Francesco Daveri, che nel frattempo era rientrato in Italia e si era messo al servizio del Cln AI, gli subentra come ispettore per i rapporti con le formazioni partigiane dell’Emilia Romagna. Ed anche Daveri si preoccupa che i comunisti non acquistino una egemonia sul movimento, incalza all’azione gli esponenti democristiani e da direttive perché gli organismi del Cln siano sempre composti paritariamente da tutte le forze politiche antifasciste.
7 – La ricomposizione del Cln piacentino
Nel mese di maggio ’44 finalmente si poté ricomporre il Cln piacentino con l’ingresso del maestro Emilio Molinari in rappresentanza della DC, del già citato Antonino La Rosa per il Partito d’Azione, e con la sostituzione del socialista Arata con Gino Rigolli. Durante l’estate ci saranno altri cambiamenti ma in una continuità d’azione. Il comunista Belizzi verrà infatti sostituito dal parmense Remo Polizzi che lo aveva già rimpiazzato come segretario provinciale del partito, e Polizzi sarà poco dopo sostituito dal piacentino Ettore Crovini, già sindacalista con la Cgl prima del fascismo; La Rosa per gli azionisti a sua volta sarà sostituito da Aldo Clini.
L’estate e l’autunno è il periodo del grande sviluppo del movimento partigiano in provincia di Piacenza come in tutto il Nord Italia.E’ anche il periodo in cui il Cln AI cerca di dare una struttura più funzionale alle formazioni partigiane presenti nelle diverse province, di promuovere la costituzione di comandi militari atti a coordinarne le azioni, precisando le competenze di questi comandi rispetto quelle dei Cln, organi politici del movimento.
Si determina l’inquadramento di tutte le formazioni partigiane nel Corpo Volontari della Libertà (CVL)-e se ne istituisce il Comando generale al cui vertice sarà più avanti portato il generale Raffaele Cadorna. Il territorio sotto occupazione tedesca viene divisa in zone, corrispondenti spesso alla province ma non sempre: la provincia di Piacenza diventa la XIII Zona partigiana. Si promuove la costituzione dei Comandi Unici Militari di Zona e di organismi intermedi fra questi ed Comando generale del CVL, i Comandi Unici Regionali: Anche in questi organismi militari furono rappresentati paritariamente i partiti politici antifascisti, anche se tendenzialmente tramite uomini con esperienza militare, ex-ufficiali oppure civili con esperienza di comando in formazioni di guerriglia.
Per il vertice del Comando Unico Militare della XIII Zona fu inizialmente individuato, dal Cln piacentino, Vladimiro Bersani, che però poco dopo cadde in combattimento a Tabiano di Lugagnano. Il comunista Belizzi avanzò allora la proposta di Emilio Canzi, che alla fine di giugno era tornato in libertà tramite uno scambio di prigionieri. Le perplessità degli esponenti democristiani furono superato dall’intervento di Francesco Daveri. Nel comando, accanto a Canzi, come commissario politico entrò dapprima lo stesso Belizzi e più avanti Remo Polizzi. Entrò anche, prima come esperto militare poi come Capo di Stato Maggiore, un esponente di riferimento per la Dc, il già tenente dell’esercito italiano Piero Inzani. Nei mesi successivi e fino alla Liberazione altri esponenti entreranno e si alterneranno nel Comando Unico, in particolare il socialista Sante Bersani, l’azionista Leonida Patrignani che era un bolognese, anche lui avvocato, e i già ufficiali dell’esercito italiano, Filippo La Latta, Sergio Mojarischi, Carmelo Giuffré , Luigi Marzioli.
Su iniziativa in particolare del ricordato ispettore del Cln AI Mario Jacchia, fu contestato che il Comando militare regionale da Bologna potesse coordinare anche l’attività del movimento partigiano dell’Emilia Occidentale e si arrivò dopo discussioni alla costituzione del Comando Militare Nord Emilia (CMNE), competente per le province di Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Modena, con al vertice lo stesso Jacchia, che però fu subito dopo ucciso dai fascisti. Quando più avanti il CMNE fu ricomposto, venne nominato comandante il generale Mario Roveda, con due vice, il comunista Amerigo Clocchiatti ed il democristiano parmense Giovanni Vignali, più altri esponenti con l’incarico di ispettori.
Chi è abituato a pensare al movimento partigiano essenzialmente come ad un movimento di resistenza popolare al nazifascismo scaturito spontaneamente dalla società civile potrebbe restare sorpreso ed essere infastidito da questa complessa intelaiatura di Comitati e di Comandi promossi e costituiti da esponenti dei partiti. Ed effettivamente certi Comandi militari, quale in particolare il Comando Militare Nord Emilia, non sempre forse si sono rivelati molto utili ed in qualche caso hanno anche provocato dei problemi al movimento partigiano. E’ pero rilevante un aspetto della costruzione di questa intelaiatura. Nel momento in cui, l’8 settembre 1943, le autorità politiche e militari del governo del re e del vecchio stato avevano dato forfait e lasciato che lo stesso esercito italiano si sfasciasse, questa rete di organismi politici e militari nel territorio della occupazione tedesca e del regime di Salò cominciarono a prefigurare il nuovo sistema politico e tendenzialmente il nuovo stato del domani. Il fatto che fossero i partiti politici, e solo essi, a strutture questa nuova rete di organismi e di poteri, avrà peraltro degli effetti sulle caratteristiche della nostra democrazia repubblicana su cui mi soffermerò un attimo nelle conclusioni.
Con la costituzione dei nuovi comandi militari i Cln poterono meglio dedicarsi ai compiti più propriamente politici, quello ad esempio di allargare il sostegno e la partecipazione della popolazione al movimento di Resistenza e di prefigurare quel rinnovamento democratico del Paese di cui era portatore il movimento antifascista. In tale direzione il Cln piacentino si fece promotore della nascita di comitati delle forze antifasciste, anche nei diversi comuni della provincia, con il compito innanzitutto di sostenere il movimento partigiano. La nascita dei Cln comunali non si generalizzò ma vi furono esperienze significative.
L’estate e l’autunno ’44 è il periodo in cui le formazione partigiane piacentine riescono a cacciare i presidi fascisti e tedeschi praticamente da tutto il territorio montano e collinare e quindi a sottrazione temporaneamente questo territorio alla repubblica mussoliniana di Salò. Nei comuni liberati, su impulso del Cln, ovunque fu possibile in relazione alla durata del controllo partigiano, si costituirono organi amministrativi rappresentativi della popolazione e delle diverse posizioni politiche. In diversi comuni si procedette alla elezione degli amministratori tramite la convocazione in apposite assemblee di tutti i capifamiglia. In altri gli amministratori furono nominati, previo però consultazioni, in particolare dei parroci, per individuare persone stimate dalla popolazione. Addirittura, in un mondo in cui era arbitro la violenza prodotta dalla guerra e portata dal nazifascismo, il Cln si preoccupò di assicurare la legittimità anche formale degli atti amministrativi. Nominò infatti, nella persona dell’avvocato Carlo Cerri, un commissario civile, una specie di prefetto dei comuni partigiani, che emanò un organico provvedimento di norme per il corretto svolgimento dell’attività amministrativa, con riferimento alle legge comunale e provinciale ante dittatura fascista.
I nuovi organi dei comuni ed il commissario civile si curarono innanzitutto del problema dei rifornimenti alimentari della popolazione e del funzionamento dei servizi pubblici essenziali, a cominciare da quello sanitario. A Bettola provvidero non solo a riaprire le scuole elementari ma anche ad istituire un corso di scuola media pubblica ed ad innovarne i programmi in direzione della nuova cultura della libertà
Il Cln provinciale a sua volta cercò anche di intervenire su un aspetto critico del rapporto fra formazioni partigiane e popolazione, quello delle requisizioni, requisizioni in una certa misura inevitabili per assicurare la sopravvivenza e l’attività dei partigiani, in particolare per quanto riguarda i generi alimentari e gli automezzi. Un apposito decreto del Cln affermò che “al fine di garantire alla popolazione tranquillità di lavoro e sicurezza di conservazione del patrimonio singolo e collettivo, le requisizioni dovevano (sempre) avvenire su un terreno di legalità. Dovevano essere sempre autorizzate dai comandi superiori, essere accompagnati da regolare ricevuta e investire solo soggetti compromessi con il fascismo”.
Con un tale decreto, in un campo in cui i raggruppamenti partigiani usavano agire a propria discrezione, il Cln si poneva come la nuova complessiva autorità di governo, sia rispetto alla popolazione che rispetto alle formazioni partigiane e ai loro comandi. Una pretesa che determinò un serio contrasto in specifico con il comando della Divisione partigiana Giustizia e Libertà. Fausto Cossu intimò infatti ai membri del Cln piacentino di lasciare il territorio della Val Trebbia-Val Tidone controllato dalla sua formazione. Cossu stesso, peraltro, e più di una volta, emise provvedimento di denuncia e divieto nei confronti dei partigiani della sua formazione riguardo ad iniziative personali e non autorizzate di requisizione di beni.
8 – Il rastrellamento e la crisi dell’inverno ‘44/’45
Tutta questa situazione di crescita del movimento partigiano e di sviluppo del ruolo del Cln fu però in breve tempo travolta quando, a partire dal 23 novembre del ’44, cessate temporaneamente le battaglie sulla linea gotica fra esercito tedesco e anglo-americano gotica, il territorio piacentino liberato e presidiato dai partigiani fu progressivamente preso nella morsa del poderoso rastrellamento nazi-mongolo. Arrivò per i nostri partigiani il periodo, durato fino al febbraio ‘45, delle ritirate sanguinose, degli eccidi nazifascisti, della dispersione degli stessi comandi.
Anche il Cln provinciale venne sconvolto e cessò temporaneamente di funzionare. Emilio Molinari ed Aldo Clini cercarono la salvezza spostandosi via via nel territorio di montagna, fino a che all’inizio di marzo poterono rifugiarsi a Bobbio liberato il 3 marzo e per la terza volta, dalla Brigata di Italo Londei. Luigi Rigolli ed Ettore Crovini ritornarono invece a Piacenza contando di non essere identificato come componenti del Cln considerato che anche in tale organismo erano identificati solo con un nome preso a prestito: Rigolli era “Pesaro” e Crovini era “Mattia”.
Nel frattempo Francesco Daveri, che come ispettore del Cln AI aveva continuato a seguire e la vita del Cln piacentino e del Comando militare che faceva capo a Canzi, dopo che il 21 ottobre aveva per l’ultima volta incontrati i componenti dei due organismi in una riunione a Bettola e in una seconda a San Giorgio Piacentino, il 18 novembre era stato arrestato a Milano dalle SS tedesche e portato nelle carceri di San Vittore. Il 16 gennaio del ’45 sarà avviato con altri antifascisti alla deportazione nel Lager di Mauthusen- Gusen dove lascerà la vita all’inizia di aprile, pochi giorni prima della fine del regime nazista.
Nella tetra Piacenza dell’inverno ‘44/’45, gli uomini della polizia militare fascista il 28 dicembre arrestano un altro esponente del CLN, Luigi Rigolli. Dalle carceri della città il 14 febbraio è trasferito in quelle di Reggio Emilia , il 28 viene prelevato, condotto presso il cimitero del Comune di Cadelbosco e lì fucilato assieme ad altri 9 antifascisti. La macabra esecuzione di 10 persone, giustificata dai fascisti e nazisti come ritorsione, 10 contro uno, per un loro caduto, si ripeterà il 29 marzo nel cimitero di Piacenza , quando, fra gli altri, sarà fucilato il giovane Alfredo Borotti, 23 anni, che del Cln, oltre che del Partito comunista, era stato un assiduo collaboratore, provvedendo fra l’altro a riprodurne nascostamente comunicati e volantini con il ciclostile della Camera di Commercio presso la quale lavorava.
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9 - La fase finale della Liberazione e della nomina dei nuovi amministratori antifascisti
Intanto, a Roma dove, dopo la liberazione della città, nel giugno ‘44, si era insediato il nuovo governo italiano presieduto dal vecchio esponente progressista Ivanoe Bonomi, ed il re Vittorio Emanuele III aveva incominciato a farsi da parte nominando luogotenente il figlio Umberto, il Cln AI, tramite una complessa trattativa di una propria delegazione, veniva riconosciuto dal governo quale suo delegato nella lotta contro fascisti e tedeschi nei territori ancora occupati. Otteneva inoltre dalle autorità militari alleate l’assicurazione di più consistenti aiuti in armi ed equipaggiamenti attraverso i lanci aerei, ed anche di discreti contributi finanziari da ripartire fra le formazioni partigiane per la loro sussistenza, in cambio però di tre precisi impegni assunti dai rappresentanti del Cln AI:
1 che da allora in avanti le formazione partigiane avrebbero esclusivamente operato secondo le disposizioni del comando militare alleato;
2 che subito dopo la liberazione i partigiani avrebbero consegnato le armi e smobilitato;
3 che i Cln dopo la liberazione avrebbero rimesso nelle mani delle autorità alleate tutti i poteri di governo e di amministrazione da essi assunti nel territorio dell’ex repubblica di Salò.
Questo accordo significava fra l’altro che le autorità militari alleate, cacciati i tedeschi ed i fascisti, riservavano a sè la nomina di tutti i vertici dell’amministrazione pubblica locale: prefetti, questori, sindaci e quant’altri esercitassero un potere pubblico.
Nella nostra provincia le Brigate e le Divisioni partigiane che erano state sconvolte dal rastrellamento nazi-mongole, si ricostruirono rapidamente alla fine del febbraio ’45, ritornarono all’attacco e riconquistarono via via il controllo del territorio, abbandonando nel frattempo, secondo le disposizioni del Comando generale del CVL, simboli e nomi di partito, per diventare semplicemente Divisione partigiana Piacenza, Divisione partigiana Val Nure, divisione partigiana Val d’Arda.
Anche il Cln fu integrato e ritornò pienamente operativo. Accanto al comunista Crovini, al democristiano Molinari e all’azionisti Clini, l’avvocato Emilio Piatti subentrò a Rigolli in rappresentanza dei socialisti. A sua volta Emilio Canzi era tornato al vertice del ricostituito Comando unico militare, ma non avendo il sostegno di un suo partito, poco tempo prima della Liberazione sarà sacrificato con la nomina al suo posto dell’ex colonnello Luigi Marzioli, su iniziativa non del Cln ma degli esponenti comunisti del Comando Militare Nord Emilia.
Il fondamentale compito svolto dal Cln piacentino in questa terza e decisiva fase della sua vita ed attività, la fase della liberazione definitiva della nostra provincia e di tutto il Paese dal nazifascismo, oltre a fare appello alla popolazione per l’ultimo sforzo da compiere in questa lotta, fu quella di far si che le autorità militari alleate all’indomani della liberazione si trovassero già in presenza, negli organismi del potere pubblico locale, a nuovi amministratori espressi dal movimento di liberazione e dalle forze politiche antifasciste.
La questione di questo nomine era già stato affrontata, sulla base delle indicazioni del Cln AI , nell’autunno del ’44, quando sembrava imminente la sconfitta e la ritirata dell’esercito tedesco anche dal Nord Italia. A quel tempo si era già concordato di indicare Francesco Daveri, per l’autorevolezza della sua personalità, alla carica di Prefetto Ora, anche sulla base di un accordo in sede regionale per una equilibrata ripartizione degli incarichi di maggior rilievo fra esponenti rappresentativi dei diversi orientamenti politici, si procedette a formalizzare le nomine di carattere provinciale e relative al Comune di Piacenza, lasciando ai Cln comunali la scelta dei nuovi sindaci locali. Si tenne conto del peso dei partiti ma anche delle caratteristiche delle persone. L’avvocato Vittorio Minoia, democristiano, fu designato alla carica di Prefetto, con vice l’azionista Aldo Clini; il comandante partigiano Fausto Cossu, che era anche laureato in legge, alla carica di Questore; il geometra Giuseppe Visconti, comunista, alla carica di sindaco di Piacenza, con due vice., il socialista Arata ed il democristiano Giovanni Laneri; l’avvocato Francesco Pallastrelli, di orientamento liberale, alla presidenza della Provincia; il comunista Ettore Crovini, che era ragioniere, fu indicato per la presidenza della Cassa di Risparmio.
Le autorità militari alleate, che dalle esperienze dei mesi precedenti, a cominciare dalla liberazione di Firenze, avevano imparato a non contrapporre nominativi di propria scelta a quelli scelti di Cln, se volevano nelle città amministratori riconosciuti dalla popolazioni e quindi autorevoli, provvidero a far buon viso a queste designazioni e a ratificarle.
Ed iniziava cosi la fase della ricostruzione materiale e morale del Paese e quella della costruzione della sua moderna democrazia, che come prima importante tappa avrà, anche nella nostra provincia, le elezioni comunali del marzo 1946, per la prima volta ad effettivo suffragio universale, maschile e femminile. Il Cln piacentino rimase in vita fino a quelle elezioni, con funzioni consultive per la prefettura e le altre amministrazioni.
10 - Considerazioni conclusive
Della moderna democrazia italiana, a 70 anni di distanza vediamo e viviamo però anche le storture. La Repubblica Italiana, da acuti studiosi, è stata definita una Repubblica democratica dei partiti, nel senso che la partecipazione ed il peso dei cittadini comuni nella vita e nelle scelte pubbliche si è realizzata fondamentalmente attraverso i partiti e non anche in altre forme di più diretta influenza dei cittadini nella vita pubblica del Paese
Le radici di questa democrazia dei partiti e delle storture che sono andate caratterizzando il sistema politico italiano vengono individuate anche nel ruolo che durante la lotta partigiana hanno avuto i Comitati di Liberazione Nazionale composti esclusivamente da esponenti di partito.
Ma per la verità le storture del nostro sistema politico democratico risalgono a cause più lontane nel tempo.
Il nostro Paese, rispetto ad altri in Europa, è arrivato molto tardi all’unificazione nazionale e quando questa si è realizzata, secondo il grande statista Cavour, “si dovevano però ancora fare gli italiani!” Gli italiani, potremmo dire, come cittadini consapevoli di appartenere ad una comunità che deve e può assicurare loro la libertà, la sicurezza ed un insieme di altri diritti, a condizione però che gli stessi cittadini concorrano responsabilmente anche con il proprio comportamento a realizzarne le condizioni.
Lo stato liberale monarchico però non favorì la crescita dei cittadini responsabili, perché fra l’altro non riconobbe nemmeno il diritto di voto per la grande parte di essi. E poi venne il fascismo per il quale i cittadini dovevano solo “credere ed obbedire” a quanto veniva detto e deciso dall’autorità che li dominava. Vissero per venti anni nella condizione di sudditi in uno Stato che nel frattempo si andò sempre più burocratizzante e che ne indirizzava e controllava minutamente il comportamento. Da tali condizioni non poteva scaturire quella cultura civica diffusa che in altre Nazioni rende fra l’altro i cittadini vigili contro l’eventuale malcostume dei loro uomini di governo, dei loro politici, e li conduce a non tollerarne la disonestà, le menzogne, le scelte ed i comportamenti non trasparenti.
Nella lotta di liberazione italiana e nella costruzione delle istituzioni democratiche della repubblica gli uomini di partito hanno svolto una funzione indispensabile. Si consideri fra l’altro che in Italia non abbiamo avuto un uomo a capo della Resistenza come il generale De Gaulle in Francia, che ha immediatamente sconfessato il “regime del disonore” di Pétain e chiamato il popolo alla lotta, non abbiamo avuto in Italia altre significative componenti della classe dirigente che affiancassero le forze politiche nell’animare e dirigere il riscatto nazionale.
Ma i partiti sono anche strumenti di un potere che può degenerare se non controllato da una vigile cultura civica dei cittadini, se i cittadini si acconciano al ruolo di clienti di quel potere.
E’ quanto è successo nella vita della nostra Repubblica.
Inoltre, quando è venuta meno quella forma di partecipazione dei cittadini alla vita e alle scelte pubbliche che comunque i tramontati partiti di massa assicuravano, si è determinato uno squilibrio ed un vuoto nel sistema della nostra democrazia che non è ancora stato risolto in positivo dalle nuove forme di organizzazione politica che si sono sviluppate in Italia negli ultimi venti anni.
Purtroppo, il 70° anniversario della lotta di liberazione trova l’Italia in una preoccupante condizione di crisi su diversi terreni. Ricordare come il popolo italiano abbia saputo mettere in campo 70 anni fa le idee e le energie anche morali per superare quella prova può forse essere di aiuto per affrontare i problemi del presente.
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