PAUL MORTON: UN CORRISPONDENTE DI GUERRA TRA I PARTIGIANI
Misteri e insidie della missione "Inside"
di Don North
Misteri e insidie della missione "Inside"
di Don North
I corrispondenti di guerra rischiano la vita e, per di più, combattono anche contro coloro che vogliono censurare la loro verità. Si tratta di una professione, spesso, frustrante, che può distruggere i migliori e i più forti. Come accadde a Paul Morton, corrispondente di guerra per il Toronto Daily Star.
Ai primi di giugno del 1944, mentre la notizia dello sbarco in Normandia oscurava il suo servizio sulla liberazione di Roma e già si intravedeva la fine della guerra in Europa, Morton si rese conto di non aver mai assistito a nessun combattimento serio. Era un corrispondente di guerra che non aveva mai visto la guerra davvero. Così, in luglio, quando i servizi britannici del SOE gli chiesero se fosse disposto a svolgere un incarico pericoloso, facendosi paracadutare tra i partigiani nell’Italia Settentrionale, accettò la sfida. Nessun corrispondente era mai stato sui teatri di guerra della Resistenza: si profilava un autentico scoop. Ma, accettando, Morton si trovava nell’ambigua posizione di essere, al tempo stesso, un giornalista e un agente del SOE.
Data la natura della lotta clandestina, c’era ben poca informazione sulla Resistenza nella stampa internazionale. Nell’estate del 1944, il premier britannico Winston Churchill (in gioventù corrispondente di guerra) riteneva fosse il momento opportuno per pubblicizzare i successi dei partigiani italiani. Paul Morton, pertanto, si sottopose a due settimane di addestramento intensivo per prepararsi al lancio con il paracadute. I rischi che lo attendevano erano evidenti. Né c’era da fare troppo affidamento sugli ufficiali del SOE, guardati con diffidenza dalle forze regolari. Il SOE non giocava pulito. Un amico di Morton lo aveva avvertito: “Non metterti a frignare se il SOE ti scarica: quelli sono famosi per farsi solo i loro interessi!”
La sera prima del suo lancio oltre le linee tedesche, Morton incontrò alcuni dei suoi istruttori al Circolo ufficiali di Roma per un brindisi di addio. La conversazione cadde su come difendersi con una pistola Beretta 45. Incitato dagli amici, dopo aver bevuto qualche whisky di troppo, Morton offrì una dimostrazione pratica sparando un paio di caricatori sulle bottiglie del bar. Venne immediatamente buttato fuori.
Qualche ora dopo, Morton iniziò la missione. Era consapevole che le probabilità di finire ucciso o catturato erano del 50%. Morton era accompagnato dal Capitano Geoffrey Long, un disegnatore, e dal Capitano Michael Lees, ufficiale del SOE. Quando l’Halifax che li trasportava si avvicinò al punto previsto per il lancio, 200 miglia entro il territorio nemico, il pilota cercò di individuare il segnale luminoso acceso dai partigiani in attesa [gli autonomi delle formazioni di Enrico Martini “Mauri ”NdT]. Tuttavia, invece di un solo segnale, nell’oscurità se ne accesero due. Si dovette scegliere. Fu preferita la luce più intensa. Gli uomini si lanciarono attraverso il vano bombe a un’altitudine di 1000 piedi.
Ai primi di giugno del 1944, mentre la notizia dello sbarco in Normandia oscurava il suo servizio sulla liberazione di Roma e già si intravedeva la fine della guerra in Europa, Morton si rese conto di non aver mai assistito a nessun combattimento serio. Era un corrispondente di guerra che non aveva mai visto la guerra davvero. Così, in luglio, quando i servizi britannici del SOE gli chiesero se fosse disposto a svolgere un incarico pericoloso, facendosi paracadutare tra i partigiani nell’Italia Settentrionale, accettò la sfida. Nessun corrispondente era mai stato sui teatri di guerra della Resistenza: si profilava un autentico scoop. Ma, accettando, Morton si trovava nell’ambigua posizione di essere, al tempo stesso, un giornalista e un agente del SOE.
Data la natura della lotta clandestina, c’era ben poca informazione sulla Resistenza nella stampa internazionale. Nell’estate del 1944, il premier britannico Winston Churchill (in gioventù corrispondente di guerra) riteneva fosse il momento opportuno per pubblicizzare i successi dei partigiani italiani. Paul Morton, pertanto, si sottopose a due settimane di addestramento intensivo per prepararsi al lancio con il paracadute. I rischi che lo attendevano erano evidenti. Né c’era da fare troppo affidamento sugli ufficiali del SOE, guardati con diffidenza dalle forze regolari. Il SOE non giocava pulito. Un amico di Morton lo aveva avvertito: “Non metterti a frignare se il SOE ti scarica: quelli sono famosi per farsi solo i loro interessi!”
La sera prima del suo lancio oltre le linee tedesche, Morton incontrò alcuni dei suoi istruttori al Circolo ufficiali di Roma per un brindisi di addio. La conversazione cadde su come difendersi con una pistola Beretta 45. Incitato dagli amici, dopo aver bevuto qualche whisky di troppo, Morton offrì una dimostrazione pratica sparando un paio di caricatori sulle bottiglie del bar. Venne immediatamente buttato fuori.
Qualche ora dopo, Morton iniziò la missione. Era consapevole che le probabilità di finire ucciso o catturato erano del 50%. Morton era accompagnato dal Capitano Geoffrey Long, un disegnatore, e dal Capitano Michael Lees, ufficiale del SOE. Quando l’Halifax che li trasportava si avvicinò al punto previsto per il lancio, 200 miglia entro il territorio nemico, il pilota cercò di individuare il segnale luminoso acceso dai partigiani in attesa [gli autonomi delle formazioni di Enrico Martini “Mauri ”NdT]. Tuttavia, invece di un solo segnale, nell’oscurità se ne accesero due. Si dovette scegliere. Fu preferita la luce più intensa. Gli uomini si lanciarono attraverso il vano bombe a un’altitudine di 1000 piedi.
Toccata terra, incontrarono una banda di partigiani, ma, invece degli autonomi, si trattava di una Brigata Garibaldi, che aveva acceso il secondo segnale nella speranza di attirare su di sé un lancio di armi. Nel corso di alcune ore, il gruppo seguì i Garibaldini, con alle calcagna i tedeschi che avevano avvistato il lancio. Nascondendosi nei fienili e aiutati da famiglie italiane ben disposte, per alcune settimane sfuggirono ai tedeschi, ma, spesso, si ritrovarono a dover impugnare le armi per difendersi.
Morton e i suoi compagni, infine, trovarono la via per congiungersi agli autonomi, tra i quali si erano aspettati di atterrare. Questa formazione [la Divisione “Alpi” di Piero Cosa NdT] era un sorprendente campionario di personaggi, tra i quali ex prigionieri britannici e aviatori alleati abbattuti nei cieli italiani.
Dopo circa due mesi di avventure e scontri con i tedeschi, Morton e Long, assieme a un ex prigioniero britannico [William McClelland] e a un mitragliere di un B-17 [Maurice LaRouche] ripararono in Francia. Morton e i suoi amici si erano procurati una barca a remi presso un pescatore, fiancheggiatore della Resistenza, e avevano remato da Ventimiglia in direzione ovest. Morton si presentò al quartier generale alleato a Nizza e infine tornò a Roma.
Tuttavia, Morton si scontrò con una fredda accoglienza da parte dei comandi britannici e canadesi dai quali era stato inviato. Con scarso entusiasmo, gli permisero di scrivere e trasmettere, previa censura, una serie di nove articoli per il Toronto Star. Ben presto Morton si trovò a dover sfilare davanti ai vertici dell’ufficio di Pubbliche Relazioni delle forze canadesi, che gli rinfacciarono la sua “condotta fuori luogo”, ossia la sparatoria al circolo, la sera prima della partenza.
Le credenziali di Morton come corrispondente furono revocate. Pochi giorni dopo egli ricevette da Harry Hindmarsh, editore del Toronto Star, l’ordine di rientrare in Canada, dove venne licenziato sui due piedi senza spiegazioni. Il primo dei nove articoli inviati da Morton venne pubblicato il 27 ottobre, cioè dopo il licenziamento: si trattava di un servizio sul coraggio dei partigiani e sul loro contributo alla guerra. Ma i redattori dello Star affermarono che gli altri otto articoli erano giunti in forma incompleta ed erano stati troppo mutilati dalla censura per essere pubblicati. E finirono cestinati.
Intanto, la reputazione di Morton veniva compromessa. A Toronto si diceva che era stato licenziato perché aveva fabbricato false corrispondenze da dietro le linee. Morton non riuscì più a trovare lavoro come giornalista.
A tutt’oggi, le ragioni del trattamento riservato a Morton rimangono un mistero. Dopo tutto, era noto che l’esercito canadese chiudeva un occhio se i corrispondenti di guerra alzavano il gomito, soprattutto al fronte, e i provvedimenti disciplinari erano rari. Dagli archivi britannici e canadesi non sono mai emersi documenti relativi ad accuse o procedimenti contro Morton. E’ possibile che molti particolari circa il suo caso siano spariti dagli archivi nazionali di Ottawa e di Londra.
Non risultano chiare neppure le ragioni del comportamento dell’editore Hindmarsh. Nella storia del giornalismo canadese, Hindmarsh. viene ricordato come un personaggio aspro e ambiguo, noto per la facilità con cui licenziava i collaboratori (aveva licenziato persino Ernest Hemingway).
Per quanto riguarda Morton, dopo aver rischiato la vita per compiere il reportage più importante della sua carriera, finendo per essere considerato un bugiardo, sprofondò nella depressione. Estromesso dal suo ambiente, si stabilì nelle regioni boschive dell’Ontario per lavorare come taglialegna. Cadde inoltre preda dell’alcolismo.
Nel 1964, Morton ricevette una lettera da alcuni ex partigiani [in particolare Mario Donadei, dell’Istituto Storico di Cuneo, NdT], che gli chiedevano di scrivere un resoconto della sua esperienza con loro. Morton rimase indeciso per qualche anno, infine raccontò la sua vicenda nel libro Missione Inside, pubblicato a Cuneo nel 1979.
Morton si rivolse inoltre al Ministero della Guerra a Londra, chiedendo una conferma ufficiale circa la sua missione. Conferma che giunse attraverso una lettera firmata dal Sottosegretario James Ramsdem. Morton pretese allora che lo Star si scusasse con lui e gli restituisse la sua dignità e la reputazione di giornalista. Ma il giornale non lo fece mai e tuttora dichiara di non possedere materiale d’archivio che lo riguardi.
Morton morì, con il morale spezzato, nel 1992.
Don North, a sua volta corrispondente di guerra, è autore del libro “Inappropriate conduct. Mystery of a disgraced war corrispondent”, uscito nel 2013, in cui ricostruisce la vicenda di Paul Morton, sulla scorta di nuovi documenti. Chiunque lo può contattare all’indirizzo [email protected].
(Traduzione e adattamento di Alberto Magnani)
Morton e i suoi compagni, infine, trovarono la via per congiungersi agli autonomi, tra i quali si erano aspettati di atterrare. Questa formazione [la Divisione “Alpi” di Piero Cosa NdT] era un sorprendente campionario di personaggi, tra i quali ex prigionieri britannici e aviatori alleati abbattuti nei cieli italiani.
Dopo circa due mesi di avventure e scontri con i tedeschi, Morton e Long, assieme a un ex prigioniero britannico [William McClelland] e a un mitragliere di un B-17 [Maurice LaRouche] ripararono in Francia. Morton e i suoi amici si erano procurati una barca a remi presso un pescatore, fiancheggiatore della Resistenza, e avevano remato da Ventimiglia in direzione ovest. Morton si presentò al quartier generale alleato a Nizza e infine tornò a Roma.
Tuttavia, Morton si scontrò con una fredda accoglienza da parte dei comandi britannici e canadesi dai quali era stato inviato. Con scarso entusiasmo, gli permisero di scrivere e trasmettere, previa censura, una serie di nove articoli per il Toronto Star. Ben presto Morton si trovò a dover sfilare davanti ai vertici dell’ufficio di Pubbliche Relazioni delle forze canadesi, che gli rinfacciarono la sua “condotta fuori luogo”, ossia la sparatoria al circolo, la sera prima della partenza.
Le credenziali di Morton come corrispondente furono revocate. Pochi giorni dopo egli ricevette da Harry Hindmarsh, editore del Toronto Star, l’ordine di rientrare in Canada, dove venne licenziato sui due piedi senza spiegazioni. Il primo dei nove articoli inviati da Morton venne pubblicato il 27 ottobre, cioè dopo il licenziamento: si trattava di un servizio sul coraggio dei partigiani e sul loro contributo alla guerra. Ma i redattori dello Star affermarono che gli altri otto articoli erano giunti in forma incompleta ed erano stati troppo mutilati dalla censura per essere pubblicati. E finirono cestinati.
Intanto, la reputazione di Morton veniva compromessa. A Toronto si diceva che era stato licenziato perché aveva fabbricato false corrispondenze da dietro le linee. Morton non riuscì più a trovare lavoro come giornalista.
A tutt’oggi, le ragioni del trattamento riservato a Morton rimangono un mistero. Dopo tutto, era noto che l’esercito canadese chiudeva un occhio se i corrispondenti di guerra alzavano il gomito, soprattutto al fronte, e i provvedimenti disciplinari erano rari. Dagli archivi britannici e canadesi non sono mai emersi documenti relativi ad accuse o procedimenti contro Morton. E’ possibile che molti particolari circa il suo caso siano spariti dagli archivi nazionali di Ottawa e di Londra.
Non risultano chiare neppure le ragioni del comportamento dell’editore Hindmarsh. Nella storia del giornalismo canadese, Hindmarsh. viene ricordato come un personaggio aspro e ambiguo, noto per la facilità con cui licenziava i collaboratori (aveva licenziato persino Ernest Hemingway).
Per quanto riguarda Morton, dopo aver rischiato la vita per compiere il reportage più importante della sua carriera, finendo per essere considerato un bugiardo, sprofondò nella depressione. Estromesso dal suo ambiente, si stabilì nelle regioni boschive dell’Ontario per lavorare come taglialegna. Cadde inoltre preda dell’alcolismo.
Nel 1964, Morton ricevette una lettera da alcuni ex partigiani [in particolare Mario Donadei, dell’Istituto Storico di Cuneo, NdT], che gli chiedevano di scrivere un resoconto della sua esperienza con loro. Morton rimase indeciso per qualche anno, infine raccontò la sua vicenda nel libro Missione Inside, pubblicato a Cuneo nel 1979.
Morton si rivolse inoltre al Ministero della Guerra a Londra, chiedendo una conferma ufficiale circa la sua missione. Conferma che giunse attraverso una lettera firmata dal Sottosegretario James Ramsdem. Morton pretese allora che lo Star si scusasse con lui e gli restituisse la sua dignità e la reputazione di giornalista. Ma il giornale non lo fece mai e tuttora dichiara di non possedere materiale d’archivio che lo riguardi.
Morton morì, con il morale spezzato, nel 1992.
Don North, a sua volta corrispondente di guerra, è autore del libro “Inappropriate conduct. Mystery of a disgraced war corrispondent”, uscito nel 2013, in cui ricostruisce la vicenda di Paul Morton, sulla scorta di nuovi documenti. Chiunque lo può contattare all’indirizzo [email protected].
(Traduzione e adattamento di Alberto Magnani)