UN PILOTA AMERICANO E LA RESISTENZA ITALIANA
di Alberto Magnani
di Alberto Magnani
La sua presenza era
diventata familiare tra i borghi e i casolari dell’Appennino. “Ero ben
conosciuto nella zona, io ero il pilota
americano, cioè l’unico”, racconterà anni dopo. Si chiamava Shuford Alexander,
aveva vent’anni ed era caduto con il suo aereo presso Castell’Arquato. Si era
poi rifugiato sui monti: tra il novembre del 1944 e il febbraio del 1945 visse
un’autentica odissea, prima di riuscire ad attraversare le linee e a
ricongiungersi alla V Armata dell’Esercito degli Stati Uniti.
Oltre mezzo secolo più tardi, l’ormai maturo ingegner Alexander raccontò la sua vicenda al professor Ronald Marcello, della South Texas University[1]. La trascrizione di tale testimonianza costituisce una fonte interessante per conoscere da vicino, oltre all’esperienza personale del pilota e al suo sguardo sulla realtà italiana, fatti e personaggi della Resistenza tra Emilia, Toscana e Liguria.
Shuford Alexander, “un bravo ragazzo del Sud”, come ebbe a definirsi, era nato a McMahan, un villaggio di circa cento anime nel cuore della provincia rurale del Texas[2]. Nell’intervista rilasciata al professor Marcello, Alexander costruisce di sé un’immagine che la produzione cinematografica e televisiva americana ci ha reso familiare: un tipo dotato di coraggio, rude e scontroso, ma che non si tira indietro se qualcuno è in difficoltà. Una sorta di cow-boy, si sarebbe tentati di dire, che ha sostituito il cavallo con un cacciabombardiere.
Dopo aver frequentato le scuole e il college, Alexander nel 1941 iniziò a lavorare. L’anno successivo, chiamato alle armi, fece domanda per diventare pilota: gli aerei lo avevano affascinato sin da ragazzino. Superò le prove attitudinali e, al termine di un lungo periodo di addestramento, nell’aprile del 1944 raggiunse in Tunisia il 350° Fighter Group, 346° Squadron. Il reparto si trasferì successivamente in Sardegna e, quindi, in Toscana, a Tarquinia.
Nell’estate del 1944, ai comandi di un cacciabombardiere P-47, Alexander entrò nella leggenda, nel senso che divenne una delle tante incarnazioni del mito di Pippo. Com’è noto, la voce popolare attribuiva tale soprannome a tutti gli aerei alleati – quasi fossero un’unica entità – che scendevano a mitragliare le strade dell’Italia occupata[3]. Intorno a Pippo fiorivano le più svariate fantasie, solo a distanza di tempo divenute oggetto di analisi[4]. Nel concreto, la comparsa di Pippo corrispondeva a un preciso piano strategico, finalizzato a paralizzare le comunicazioni terrestri nelle retrovie tedesche, in modo da provocare il collasso del fronte[5].
Ponti, stazioni e ferrovie vennero sistematicamente bombardati. Compiuta l’azione, i bombardieri rientravano alla base, i cacciabombardieri, invece, passavano alla “caccia libera”, cioè andavano alla ricerca di un bersaglio da mitragliare, sulla base del principio così sintetizzato dallo stesso Alexander: “Se tu lo vedi, se è in territorio tedesco e si muove, sparagli.”[6] I piloti lo seguivano fin troppo alla lettera: mitragliavano indistintamente veicoli militari e civili, treni, corriere, persino carri agricoli e biciclette. Il costo in vite umane fu molto elevato. Secondo Giulio Cattivelli, giornalista della Libertà, “il ricordo del maledetto Pippo fu l’ultima ferita psicologica della guerra, la più difficile da cicatrizzare”[7].
La mattina del 1° ottobre 1944, Alexander partecipò, con sette compagni, a un volo di scorta ai bombardieri B-25 del 314° Bomber Group che bombardarono Piacenza, colpendo i Molini degli Orti, il Consorzio Agrario e la Caserma di Sant’Antonio. Era la sua cinquantanovesima missione, e lo avevano chiamato all’ultimo momento, per sostituire un altro pilota: non aveva neppure fatto in tempo a prendere con sé la rivoltella d’ordinanza.
Raggiunto l’obiettivo, gli otto P-47 si divisero in due gruppi e andarono in cerca di obiettivi da mitragliare. Il gruppo di Alexander puntò verso sud-est. Improvvisamente si trovò in mezzo a un fitto fuoco di contraerea. L’aereo più bersagliato era quello di Ernest Fahlberg, di ventitrè anni, originario del Wisconsin. Alexander si lanciò per mitragliare le batterie e così soccorrere il compagno, ma attirò il fuoco su di sé. Avvertì un botto. La pressione dell’olio precipitò a zero. Capì di essere stato colpito, cercò di mantenersi in quota, non ce la fece. Tentò allora un atterraggio di fortuna: scese su un campo, tranciò i rami di un filare di meli, sbattè al suolo e si fermò[8].
Fahlberg si abbassò per verificare le condizioni del suo salvatore: vide Alexander sgusciare fuori dalla cabina, agitare le braccia per segnalare di essere sano e salvo e poi correre via[9]. Il campo si trovava in prossimità di San Lorenzo di Castell’Arquato. Erano circa le 11.10. Fahlberg volò via, ignorando che il destino riservava anche a lui un posto nell’odissea appena iniziata.
Alexander si diresse verso le colline[10]. Ignorava di essere finito ai margini del fronte avanzato della 38^ Brigata Garibaldi, che presidiava la Zona libera della Val d’Arda: ben presto si trovò circondato, non da soldati nemici, ma da contadini incuriositi. Le incursioni aeree esercitavano una forte attrazione sulla popolazione civile: l’apparizione degli aerei attirava regolarmente un pubblico imprudente, che se ne stava con il naso per aria, a proprio rischio e pericolo. Alexander si rese conto che quella gente non era affatto ostile; anzi, giunto in una cascina, vi fu accolto e potè barattare la sua tenuta da volo con abiti borghesi. In cambio del suo orologio, un ragazzo lo accompagnò in bicicletta verso Castell’Arquato, dove lo affidò a due partigiani.
I partigiani lo fecero salire su un veicolo che lo condusse a Rustigazzo. Qui Alexander si accorse di aver riportato una ferita alla testa, che gli venne medicata e suturata in una chiesa. Nel tardo pomeriggio, il veicolo ripartì, s’inerpicò per strade in salita e raggiunse Prato Barbieri, dove il pilota fu ospitato in un albergo, certamente l’Hotel Touring, utilizzato come base operativa dai partigiani[11].
Ben presto gli si presentarono un uomo di nome Guido Cagnani, che parlava inglese, e un caporale inglese, Bernard Crackle, ex prigioniero di guerra. Fu così che Alexander iniziò a scoprire la realtà, per lui assolutamente nuova, di quella zona controllata dai partigiani. Nei giorni successivi ebbe modo di esplorarla, guidato da Crackle, che su quei monti ci viveva da un anno.
Gli ex prigionieri britannici, lasciati senza sorveglianza dopo l’8 settembre, si erano rifugiati numerosi sugli Appennini: qualcuno si era unito alla Resistenza, gli altri venivano ospitati dai contadini, accettati di buon grado, spesso benvoluti – come Crackle, che nella vita civile era stato uno chef e metteva le sue capacità al servizio degli ospiti. Alexander scoprì con stupore che molte persone sapevano esprimersi in inglese, avendo alle spalle esperienze di emigrazione in Inghilterra o negli Stati Uniti, il che aveva creato le premesse per l’accettazione degli ex prigionieri e per sentimenti di simpatia verso gli Alleati[12].
Quanto ai partigiani, Alexander guardava con diffidenza i simboli comunisti ostentati dai garibaldini, ma, in questa fase, mantenne con loro rapporti sostanzialmente buoni[13]. La brigata non era, in realtà, particolarmente politicizzata: il comandante, Giuseppe Prati, aderiva alla Democrazia Cristiana e non risulta che simboli di parte fossero ostentati con insistenza[14]. Il 12 ottobre il pilota fu accompagnato a Bettola, ove incontrò una missione britannica, già da qualche tempo attiva in zona, appartenente alla A-Force, specializzata nel recupero degli ex prigionieri. La guidava il sergente Barry Fick, un sudafricano[15], coadiuvato da due militari italiani dell’esercito cobelligerante, ricordati da Alexander come Giovanni e Grassi, il radiotelegrafista. Fick incluse il pilota in un gruppo che avrebbe tentato l’attraversamento delle linee il successivo 21 ottobre. Da settembre, infatti, era stato approntato un sentiero che permetteva di attraversare le linee tedesche e raggiungere gli Alleati[16].
Tale gruppo, composto da una decina di elementi, partì sotto una pioggia che non sarebbe cessata per tutta la durata del viaggio. In seguito si sarebbero accodati alcuni italiani. Al comando, Fick aveva posto il capitano Frederick Black, un ufficiale della RAF, che ad Alexander non andò mai a genio: gli appariva altezzoso e inadatto al compito, tanto da sospettare che si spacciasse per ufficiale, ma non lo fosse. La guida era un partigiano diciannovenne, di cui l’esigente Alexander non aveva opinione migliore.
Da Bardi, i fuggiaschi si portarono a Rossano, in Liguria, ove era la base del maggiore Gordon Lett, figura rilevante nelle vicende della Resistenza. Lett, già prigioniero di guerra, dopo l’8 settembre era entrato in contatto con gli antifascisti di Genova e, successivamente, con i servizi britannici[17]. Ad Alexander, al solito, non ispirò particolare fiducia. Il nostro pilota lo ricorderà con queste parole:
Aveva convinto gli inglesi che doveva rimanere in quel posto, in mezzo al nulla, a spiare le attività dei tedeschi nella città di Pontremoli e nel Golfo di La Spezia. Io dicevo: che bisogno c’è di lui? Basta che un P-38 scatti una foto da 30.000 piedi, e abbiamo tutto comunque. Ma lui si era creato un piccolo feudo lassù: aveva una casa con una cantina piena di vino, di razioni C e K e altro, e non voleva dar niente a nessuno[18].
Dove si può notare la convinzione, diffusa nella cultura americana, che la superiorità tecnologica basti a risolvere i conflitti, con la conseguente sottovalutazione delle forme di guerra non convenzionale.
Dopo la sosta a Rossano, il 29 ottobre il gruppo ripartì, guadò il fiume Magra, passò attraverso Bibola, le cave di marmo sulle Alpi Apuane e si fermò a Forno, presidiata dai partigiani del Gruppo Patrioti Apuani. Il percorso prevedeva di passare sul Monte Altissimo, ma il sentiero era battuto da tiri di mortaio, che lo rendevano pericoloso[19].
A quel punto comparve una donna, che sostenne di essere una contessa e di lavorare per i servizi americani: propose a Black di accompagnare lei il gruppo per una via alternativa. Black si fidò.I fuggiaschi raggiunsero così Massa, nel pomeriggio del 31 ottobre, ma solo per cadere nelle mani dei tedeschi. Fu sparato qualche colpo, un marinaio inglese rimase ucciso, un altro militare riportò una ferita, gli altri vennero catturati. Il giovane partigiano che aveva fatto da guida venne fucilato.
Alexander e il fido Crackle, rimasti in coda alla colonna, riuscirono a fuggire e si aggirarono alcune ore per Massa, che apparve loro spettrale. Alle ore 16 di quel giorno, infatti, era scaduto il termine, imposto dai tedeschi, per l’evacuazione della città, ormai a ridosso della linea del fronte[20]. Durante la notte, i due andarono a cacciarsi in un cimitero proprio vicino al comando tedesco, e furono acciuffati. Ritrovarono così i loro compagni.
Gli uomini catturati vennero ripetutamente interrogati a Massa da un capitano della Wehrmacht, quindi, il 6 novembre, trasferiti a Parma in grosse gabbie trasportate su autocarri. In questa città le gabbie furono esposte in una piazza: Alexander ricorda che i cittadini se ne stavano a debita distanza, mentre si fecero avanti a dileggiare i prigionieri solo alcuni fascisti, probabilmente militi della Repubblica Sociale. E’ questo l’unico punto della testimonianza, in cui Alexander menzioni i fascisti: di fatto, non si riferisce mai alla presenza delle loro forze armate, né cita la Repubblica di Mussolini. Nella sua ottica, la guerra in corso è tra gli Alleati e la Germania, e tutta la zona non ancora occupata dagli Alleati è “territorio tedesco” – ottica che, forse, aiuta a comprendere l’accanimento con cui i vari Pippo mitragliavano indiscriminatamente quanto capitasse loro a tiro.
I prigionieri, infine, vennero consegnati alla Gestapo, che li rinchiuse in un mulino situato tra Modena e Bologna. Alexander colloca in questo momento della sua avventura un’autentica svolta esistenziale: invece di continuare ad affidarsi ad altri, decise di prendere in mano la situazione, premessa a una definitiva scelta di essere padrone della propria vita. Organizzò così un’evasione, portata a termine con successo grazie a un coltellino, sfuggito alle perquisizioni, con cui scassinò una porta del mulino. Costrinse Frederick Black ad andare con lui: pur non stimandolo, aveva bisogno di qualcuno che parlasse bene l’italiano. Evasero anche Crackle e altri due soltanto. Il resto del gruppo, estenuato dalla fatica, preferì non affrontare nuovi rischi.
I fuggiaschi decisero di tornare a Bardi. Il viaggio si rivelò un autentico incubo. I cinque vagarono per almeno una decina di giorni sugli Appennini, tormentati dalla fame e dal freddo, cercando di non incappare in qualche pattuglia tedesca. Talvolta trovarono ospitalità presso gruppi di partigiani, ma, in questo frangente, l’opinione di Alexander nei loro confronti cambiò drasticamente: li trovò ostili e violenti, sempre pronti a rubargli gli stivali – la parte migliore del suo abbigliamento, ormai inadatto al clima. Nell’intervista, Alexander sostiene che all’inizio la Resistenza era stata positiva, ma in seguito i partigiani erano diventati una banda di malfattori.
Come abbiamo rilevato, ad Alexander pare sfuggisse il fatto che in Italia fosse in atto anche una guerra civile, di cui erano in corso, in quei giorni, importanti sviluppi: l’avanzata degli Alleati si stava arrestando all’altezza della Linea Gotica, mentre il generale Harold Alexander, il 13 novembre, lanciava il proclama in cui invitava i partigiani a smobilitare; in conseguenza di ciò, tra questi ultimi si diffondevano sentimenti di delusione verso gli Alleati, mentre incombevano la prospettiva di un nuovo inverno e la minaccia di rastrellamenti tedeschi.
Circa i rastrellamenti, interessante è l’interpretazione che ne fornisce Alexander, coerente, del resto, con la sua visione della guerra in corso: “i tedeschi salivano in montagna a caccia degli ex prigionieri e dei piloti americani”. L’area verso cui i cinque fuggiaschi si stavano dirigendo era però ancora relativamente sicura. Il 17 novembre Alexander e i suoi compagni, estenuati e debilitati, raggiunsero Bardi. Cadevano i primi fiocchi di neve.
Black, nel villaggio di Tosca, conosceva una famiglia, composta dai coniugi Oreste e Rosa Martani e dalle loro figlie, dalla quale si fece ospitare insieme ad Alexander. Questi, che non gradiva l’arroganza con cui l’inglese trattava i generosi ospiti, un bel giorno lo convinse, a suon di sganassoni, a cercarsi un’altra sistemazione.
Il pilota texano rimase un mese a casa della famiglia, instaurando un rapporto affettivo destinato a durare tutta la vita: durante l’intervista, mostrerà al professor Marcello una foto di Rosa Martani, Mamma Rosa, ormai centenaria. In questo periodo imparò quanto più italiano potè, con buoni risultati. Riuscì così a comunicare direttamente con la gente del posto, il che potrebbe aver influito sulle sue idee circa la Resistenza: la comparsa dei partigiani, in zona, era stata accolta con favore, ma la crescita numerica delle formazioni e i rastrellamenti invernali complicarono notevolmente il rapporto.[21] Naturalmente, le suggestioni recepite localmente si sovrapponevano alle propensioni ideologiche del nostro texano.
Nella sua “casa in collina”, Alexander non pare essere stato raggiunto dagli echi del primo rastrellamento, condotto da tedeschi e truppe della Repubblica Sociale tra novembre e dicembre, ma esauritosi senza penetrare a fondo nella Zona libera[22]. Verso Natale, Alexander si fece condurre da Oreste Martani sul Monte Barigazzo, dove si era spostata la missione di Barry Fick[23]. Questi stava preparando una nuova spedizione attraverso le linee, ma il pilota contrasse un’infezione a una mano e non potè prendervi parte. Intanto la neve cadeva sempre più fitta e i rastrellamenti tedeschi giungevano, ormai, a minacciare la zona. In un simile frangente, venne paracadutata una missione militare americana. Alexander descrive così le peripezie cui essa andò incontro:
In questo periodo, l’OSS aveva paracadutato una missione, il cui nome in codice era Cayuga 7. Presero terra proprio in mezzo a questo gruppo di soldati tedeschi che stava salendo in montagna in cerca di gente come me. Il capitano Bob – non si usavano mai i cognomi – era il comandante di Cayuga 7 e stava trasportando un bel mucchio di denaro. Perse tutto, eccetto 250 dollari, che riuscì a salvare. Persero tutto l’equipaggiamento, perché appena toccarono terra si ritrovarono in mezzo a una bufera di neve – e poi dovettero darsela a gambe, perché erano proprio in mezzo ai tedeschi.[24]
La missione calò dal cielo il 27 dicembre. La comandava il capitano Michael Formichelli (Captain Bob), italo americano di Brooklyn, di ventisette anni. Anche gli altri componenti, sei in totale, erano di origine italiana[25]. Le difficoltà climatiche e militari cui andarono incontro provocarono l’annullamento di una successiva missione d’appoggio affidata all’ORI, che si sarebbe dovuta aggiungere in gennaio, sotto la guida di Ennio Tassinari[26].
Il momento più critico fu raggiunto quando si scatenò il grande rastrellamento dei giorni 6-9 gennaio 1945. Vi parteciparono reparti della Repubblica Sociale, nonché la famigerata Divisione Turkestan, composta da russi asiatici arruolati dai tedeschi (chiamati comunemente “mongoli”[27]): la Zona libera d’Arda cessò d’esistere. Le formazioni partigiane, tuttavia, pur disarticolate e disperse, mantennero la presenza sul territorio.
Da parte sua, Alexander si ritrovò spesso a riparare sui monti per sfuggire ai rastrellatori. Era ormai al seguito della missione britannica di Barry Fick, che si era installata in una baita nella località di Pieve. Qui era stato raggiunto da tre piloti suoi connazionali: Clarence M. Thomas, che, abbattuto il 3 gennaio e disceso con il paracadute presso Ponte d’Olio[28], visse drammatici momenti insieme ai partigiani durante il rastrellamento; Ernest Fahlberg, abbattuto il 12 gennaio[29]; Wayne Wheeler, precipitato il 17 gennaio nel Bresciano[30], da dove aveva raggiunto Cremona, attraversato il Po per poi inerpicarsi sugli Appennini sino a incontrare i membri della missione Cayuga.[31]
Fahlberg era proprio quello stesso compagno di Alexander, da lui salvato il fatidico 1° ottobre. Era precipitato a Motta Visconti, a sud-ovest di Milano, sulla sponda lombarda del Ticino[32] e si era spinto sin verso Morfasso dopo una lunghissima marcia solitaria. Michael Formichelli, raggruppati i connazionali, lasciò che fosse la missione di Barry Fick a occuparsi di loro.
All’inizio di febbraio, Fick organizzò un nuovo tentativo di attraversare le linee. Partirono i piloti, un ex prigioniero britannico e il radiotelegrafista Grassi. I sei uomini scesero da Pieve passando per Porcigatone e Bertorella, poi risalirono sul versante opposto dei monti sino a Buzzo e si portarono a Rossano, ove incontrarono Gordon Lett. Proseguirono successivamente su e giù per le valli, sostando un giorno a Madrignano, per dare modo a Fahlberg di rimettersi da una brutta caduta. Ripreso il cammino, incontrarono un reparto di paracadutisti britannici, il cui comandante, dice Fahlberg, si chiamava Brown. Ormai abbiamo imparato a conoscere il nostro texano e non ci stupisce sapere che Brown non gli andò affatto a genio e gli apparve un incompetente.
Quei paracadutisti erano una forza speciale del SAS, lanciata dietro le linee tedesche il 27 dicembre in quella che fu chiamata Operazione Gallia. Erano trentaquattro uomini, comandati dal capitano Bob Werner-Brown, uno scozzese venticinquenne già compagno di Gordon Lett in campo di prigionia. Werner-Brown era poi evaso ed era entrato nelle forze speciali: aveva al suo attivo una missione analoga in Francia[33]. Durante il mese di gennaio, i paracadutisti di Werner-Brown avevano condotto una serie di azioni contro le forze tedesche in collaborazione con Lett[34]; il 10 febbraio era stato deciso il ripiegamento.
Alexander fu lieto di aggregarsi ai paracadutisti, in quanto così si sentiva più sicuro in caso di incontri con pattuglie nemiche. Tuttavia, dopo l’attraversamento del fiume Magra, notò che la loro marcia era troppo lenta, poiché il reparto portava con sé mitragliatrici pesanti. Il gruppo dei piloti, allora, partì in avanguardia e diede appuntamento ai britannici a Forno.
Il cammino procedette così sino a Vinca, dove l’organizzazione della Resistenza assegnò loro come guida un uomo anziano, che pareva malfermo sulle gambe, ma che con insospettata energia condusse il gruppo sino a Forno. Al solito, Alexander guardò con sospetto ai partigiani che lo occupavano, ritenendoli tutti comunisti, per quanto si trattasse del Gruppo Patrioti Apuani, formazione autonoma guidata da Pietro Del Giudice, frate cappuccino laureato in Diritto Canonico. Successivamente arrivarono anche i paracadutisti britannici, che si rassegnarono ad abbandonare le armi pesanti, cedendole ai partigiani. Intorno alle 15.00 del 14 febbraio 1945, iniziò l’ultimo tratto del percorso[35].
La colonna attraversò macchie di olivi e alberi da frutta sino a un avvallamento, dove sostò. Con il calare della sera, procedettero in fila indiana, inerpicandosi su per il Monte Altissimo, sulla cui vetta erano prima della mezzanotte[36]. Il capitano Werner-Brown ordinò un’altra sosta, suscitando il disappunto di Alexander, cui pareva che la posizione fosse troppo esposta. L’eco di un colpo di mortaio non contribuì a tranquillizzarlo.
Dal momento che l’ufficiale britannico era irremovibile, Alexander si offrì di scendere in avanscoperta per prendere contatto con gli uomini della 92^ Divisione degli Stati Uniti, nota per essere composta da soldati di colore. “I miei americani preferiti”, assicura il texano, che spiegherà: “il capitano Brown era convinto che se qualcuno fosse andato incontro ad americani di colore parlando con accento britannico, si sarebbe trovato nei guai. Allora dissi: - Io sono un bravo ragazzo del Sud. Ci vado io a incontrarli!”[37]
Seguito dai compagni, Alexander discese dunque verso il basso, imbattendosi in alcuni cadaveri e poi in una pattuglia di partigiani, che indicò la direzione giusta[38]. Poco prima delle cinque del mattino i piloti erano in una cascina, occupata dai loro compatrioti. L’odissea era finita.
Alexander e Fahlberg rientrarono alla loro unità, che si trovava a Pisa, il 16 febbraio. Si trattennero poche ore con i compagni. Ben presto vennero rimpatriati. La guerra, per loro, era finita. Rimasero comunque in servizio sino al 1946 e, per un certo periodo, fecero parte delle forze d’occupazione in Germania. Intanto, beneficiando delle leggi a favore dei reduci, Alexander si era iscritto all’Università e conseguirà la laurea in Ingegneria chimica.
Invitato, al termine dell’intervista rilasciata al professor Marcello, a esprimere quale significato aveva avuto per lui l’esperienza italiana, Alexander dirà:
All’inizio di questa avventura ero un bravo ragazzo del Sud, a cui avevano sempre detto di obbedire all’autorità, di fare quello che dicono i superiori perché loro ne sanno più di te, di non creare problemi e rigare diritto. Bene, dopo che Freddie Black ci cacciò nella situazione in cui ci cacciò, mi ripromisi che qualcosa del genere non mi sarebbe più successo e da quel momento ho preso in mano la mia vita[39].
Naturalmente, l’avventura di Alexander può essere valutata diversamente da un osservatore esterno. In prospettiva storica, l’aspetto che sembra più positivo è il legame personale instauratosi tra il bravo ragazzo texano e una famiglia di contadini emiliani: pur appartenendo a mondi del tutto differenti, si può dire che i Martani adottarono Alexander come uno di famiglia e tale il pilota si considerò: a guerra finita, il rude texano cercò di sdebitarsi inviando ai suoi ospiti materiale utile all’agricoltura, come sementi; tornò spesso in Italia a visitarli e si recò a visitare anche le famiglie formate dalle figlie di Oreste e Mamma Rosa.
NOTE
[1] Originale conservato in University of North Texas, Oral history collection, number 1349, Interview with Shuford M. Alexander jr., December, 2, 1999 (D’ora in avanti Interview). A questa fonte si aggiungono due lettere, una datata 25 aprile 2007 ed indirizzata a Dismo Salotti, in cui Alexander rievoca, più sinteticamente, la sua vicenda, l’altra, sempre risalente all’aprile 2007, ma senza indicazione di giorno, indirizzata a Franco Sprega, con alcune precisazioni.
[2] Ai tempi della nascita di Alexander, il villaggio era in crescita, tanto che arrivò a toccare i duecento abitanti. La crisi economica del 1929, tuttavia, provocò un’inversione di tendenza, con una decrescita al di sotto del centinaio.
[3] Nel Piacentino prevaleva la tendenza a riservare il soprannome di Pippo agli apparecchi che volavano di notte e sganciavano bombe su qualsiasi fonte di luce. Particolarmente tragico il caso di Vesimo di Zerba, quando, nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1944, fu bombardata una festa di paese, con un bilancio di 32 morti.
[4] Cesare Bermani, Spegni la luce che passa Pippo, Voci, leggende e miti della storia contemporanea, Roma, Odradek, 1996.
[5] Strategia che, in ultima analisi, non funzionò, ma che, comunque, continuò a essere portata avanti. Andrew Brookes, Air War over Italy, Shepperton, Ian Allan, 2000, p. 80.
[6] Interview cit., p. 42. In questo modo, risultarono spesso vittime dei mitragliamenti i partigiani, come lamenta Giuseppe Prati, La Resistenza in Val d’Arda. Narrata dal suo comandante, Piacenza, Vicolo del Ponte, 1994, pp. 87 e 233-34.
[7] Giulio Cattivelli Cat, Piacenza in prima linea, “Libertà”, 12 marzo 1995, ora anche in La guerra di Cat, a cura di Stefano Pareti, Bobbio, Pontegobbo, 2012, p. 93.
[8] Il racconto di Alexander (Interview cit., pp. 58-63) corrisponde al rapporto sul suo abbattimento redatto al termine della missione: Missing Air Crew Report (MACR) 9036 , consultabile sul sito www.fold3.com.
[9] Rapporto di Ernest Fahlberg, in MACR 9036.
[10] Le istruzioni che aveva ricevuto per una eventualità di quel genere erano solo di cercare di nascondersi e attendere l’avanzata della V Armata. Interview cit., p. 63.
[11] Daniela Morsia, Memorie di parroci e civili sulle vicende della montagna piacentina, in AA.VV., Guerra, guerriglia e comunità contadine in Emilia Romagna 1943-1945, Reggio Emilia, RS libri, 1999, p. 98.
[12] Morsia, Memorie di parroci e civili cit., pp. 95, 97-99.
[13] Interview cit., p. 71; 76 sgg. Alexander ricorda un partigiano di nome Mario, che aveva mansioni di comando e che aveva recuperato il suo paracadute. Il pilota glielo regalò.
[14] Prati, La Resistenza in Val d’Arda cit., pp. 91 e 191.
[15] Barry Fick diventerà in seguito esperto nel recupero degli aviatori caduti oltre le linee, e può darsi che Alexander fosse il suo primo caso di questo genere. Nella primavera del 1945, Fick organizzerà il salvataggio di un aviatore, facendo atterrare in territorio occupato un Fi-156 dell’aviazione italiana cobelligerante, pilotato da Furio Lauri, specialista in questo genere di operazioni. James Langley-Michael Foot, MI9. The British secret service that fostered escape and evasion, London, Book Club, 1979, p. 204.
[16] Maria Grazia Armanini, Il passaggio del Fronte in Eserciti, popolazione Resistenza sulle Alpi Apuane. Atti del Convegno Internazionale di Studi Storici, vol. 1, Massa Carrara 1995.
[17] Lett ha lasciato libri di memorie. In particolare: Rossano. Vicende della Resistenza italiana, Milano, Edizioni librarie, 1958.
[18] Interview cit., p. 92.93.
[19] In quel periodo il passaggio, aperto da poco, era ancora assai difficoltoso, come la vicenda dello stesso Alexander dimostra. Armanini, Il passaggio del Fronte cit., p. 332.
[20] Copia dell’ordine di evacuazione nell’Archivio Storico del Comune di Bagnone, CPLN, Ordini tedeschi, c.1, 1944-10-31, b. 3, f. 1.
[21] Morsia, Memorie di parroci e civili cit., p. 107. Nella lettera dell’aprile 2007, Alexander scrive di aver conosciuto “un mucchio di gente” (a lot of people) e di non poter elencarli tutti (I can’t list them). Quelli che ricorrono più frequentemente, tuttavia, sono persone relativamente agiate, piccoli proprietari che durante l’inverno subirono il prelevamento di viveri da parte dei partigiani.
[22] Prati, La Resistenza in Val d’Arda p. 259.
[23] Nella lettera dell’aprile 2007, Alexander sostiene che Oreste Martani gli aveva proposto di rimanere a casa sua sino al termine della guerra. Il pilota rifiutò: “sapevo di dover raggiungere la mia squadriglia”. Ciò confermerebbe l’osservazione di Alizia Usai, Organizzazione degli aiuti alla Resistenza, “Quaderni Savonesi”, 24/aprile 2011, p. 8, circa il fatto che “i piloti di aerei, per un qualche motivo caduti in territorio nemico, cercassero in tutti i modi di sottrarsi alla prigionia”.
[24] Interview cit., pp. 125-26.
[25] Si trattava dei sergenti Frank J. Alessi, Oscar F. Di Silvestro, Frank A. Savio, Mario J. Procaccini e dei soldati Reno J. De Stefani e Joseph Scalia. www.ossog.org/italy/cayuga.html.
[26] Ennio Tassinari, L’O.R.I. (Organizzazione della Resistenza Italiana). Racconti e protagonisti, Ravenna, Longo, 2011, p. 118. L’ORI era un gruppo, interamente composto da agenti italiani, che effettuava missioni di collegamento con la Resistenza in collaborazione con l’OSS.
[27] Alexander non menziona mai i “mongoli” nelle sue testimonianze, per quanto è improbabile che non ne avesse sentito parlare.
[28] MACR 10952.
[29] MACR 11280.
[30] MACR 11283.
[31] Wheeler nel 1979 pubblicò a proprie spese un libro di ricordi, intitolato Interlude in Italy, che permette di integrare le testimonianze di Alexander, con le quali sostanzialmente concorda.
[32] La sua caduta venne registrata dalla memoria locale: Ambrogio Palestra, Storia di Motta Visconti e dell’antico vicus di Campese, Pieve del Cairo, Comune di Motta Visconti, 1976, p. 215.
[33] Un profilo di Werner-Brown nel suo lungo necrologio, “The Telegraph”, 17 settembre 2009. Sul numero del successivo 21 settembre comparve una lettera del figlio di Gordon Lett, con ulteriori dettagli sulle vicende dell’Operazione Gallia.
[34] Lett, Rossano cit., p. 202.
[35] Sull’ultimo tratto del percorso esiste la testimonianza di uno dei paracadutisti, Harry Shanley, nel sito www.lothianpra.webspace.virginmedia.com/veteran4.htm.
[36] Le ore coincidono anche secondo Wheeler e Shanley.
[37] Interview cit., p. 137.
[38] Si trattava di una pattuglia che operava abitualmente nel tratto finale del sentiero in appoggio a quanti tentassero il passaggio delle linee.
[39] Interview cit., p. 154.
Oltre mezzo secolo più tardi, l’ormai maturo ingegner Alexander raccontò la sua vicenda al professor Ronald Marcello, della South Texas University[1]. La trascrizione di tale testimonianza costituisce una fonte interessante per conoscere da vicino, oltre all’esperienza personale del pilota e al suo sguardo sulla realtà italiana, fatti e personaggi della Resistenza tra Emilia, Toscana e Liguria.
Shuford Alexander, “un bravo ragazzo del Sud”, come ebbe a definirsi, era nato a McMahan, un villaggio di circa cento anime nel cuore della provincia rurale del Texas[2]. Nell’intervista rilasciata al professor Marcello, Alexander costruisce di sé un’immagine che la produzione cinematografica e televisiva americana ci ha reso familiare: un tipo dotato di coraggio, rude e scontroso, ma che non si tira indietro se qualcuno è in difficoltà. Una sorta di cow-boy, si sarebbe tentati di dire, che ha sostituito il cavallo con un cacciabombardiere.
Dopo aver frequentato le scuole e il college, Alexander nel 1941 iniziò a lavorare. L’anno successivo, chiamato alle armi, fece domanda per diventare pilota: gli aerei lo avevano affascinato sin da ragazzino. Superò le prove attitudinali e, al termine di un lungo periodo di addestramento, nell’aprile del 1944 raggiunse in Tunisia il 350° Fighter Group, 346° Squadron. Il reparto si trasferì successivamente in Sardegna e, quindi, in Toscana, a Tarquinia.
Nell’estate del 1944, ai comandi di un cacciabombardiere P-47, Alexander entrò nella leggenda, nel senso che divenne una delle tante incarnazioni del mito di Pippo. Com’è noto, la voce popolare attribuiva tale soprannome a tutti gli aerei alleati – quasi fossero un’unica entità – che scendevano a mitragliare le strade dell’Italia occupata[3]. Intorno a Pippo fiorivano le più svariate fantasie, solo a distanza di tempo divenute oggetto di analisi[4]. Nel concreto, la comparsa di Pippo corrispondeva a un preciso piano strategico, finalizzato a paralizzare le comunicazioni terrestri nelle retrovie tedesche, in modo da provocare il collasso del fronte[5].
Ponti, stazioni e ferrovie vennero sistematicamente bombardati. Compiuta l’azione, i bombardieri rientravano alla base, i cacciabombardieri, invece, passavano alla “caccia libera”, cioè andavano alla ricerca di un bersaglio da mitragliare, sulla base del principio così sintetizzato dallo stesso Alexander: “Se tu lo vedi, se è in territorio tedesco e si muove, sparagli.”[6] I piloti lo seguivano fin troppo alla lettera: mitragliavano indistintamente veicoli militari e civili, treni, corriere, persino carri agricoli e biciclette. Il costo in vite umane fu molto elevato. Secondo Giulio Cattivelli, giornalista della Libertà, “il ricordo del maledetto Pippo fu l’ultima ferita psicologica della guerra, la più difficile da cicatrizzare”[7].
La mattina del 1° ottobre 1944, Alexander partecipò, con sette compagni, a un volo di scorta ai bombardieri B-25 del 314° Bomber Group che bombardarono Piacenza, colpendo i Molini degli Orti, il Consorzio Agrario e la Caserma di Sant’Antonio. Era la sua cinquantanovesima missione, e lo avevano chiamato all’ultimo momento, per sostituire un altro pilota: non aveva neppure fatto in tempo a prendere con sé la rivoltella d’ordinanza.
Raggiunto l’obiettivo, gli otto P-47 si divisero in due gruppi e andarono in cerca di obiettivi da mitragliare. Il gruppo di Alexander puntò verso sud-est. Improvvisamente si trovò in mezzo a un fitto fuoco di contraerea. L’aereo più bersagliato era quello di Ernest Fahlberg, di ventitrè anni, originario del Wisconsin. Alexander si lanciò per mitragliare le batterie e così soccorrere il compagno, ma attirò il fuoco su di sé. Avvertì un botto. La pressione dell’olio precipitò a zero. Capì di essere stato colpito, cercò di mantenersi in quota, non ce la fece. Tentò allora un atterraggio di fortuna: scese su un campo, tranciò i rami di un filare di meli, sbattè al suolo e si fermò[8].
Fahlberg si abbassò per verificare le condizioni del suo salvatore: vide Alexander sgusciare fuori dalla cabina, agitare le braccia per segnalare di essere sano e salvo e poi correre via[9]. Il campo si trovava in prossimità di San Lorenzo di Castell’Arquato. Erano circa le 11.10. Fahlberg volò via, ignorando che il destino riservava anche a lui un posto nell’odissea appena iniziata.
Alexander si diresse verso le colline[10]. Ignorava di essere finito ai margini del fronte avanzato della 38^ Brigata Garibaldi, che presidiava la Zona libera della Val d’Arda: ben presto si trovò circondato, non da soldati nemici, ma da contadini incuriositi. Le incursioni aeree esercitavano una forte attrazione sulla popolazione civile: l’apparizione degli aerei attirava regolarmente un pubblico imprudente, che se ne stava con il naso per aria, a proprio rischio e pericolo. Alexander si rese conto che quella gente non era affatto ostile; anzi, giunto in una cascina, vi fu accolto e potè barattare la sua tenuta da volo con abiti borghesi. In cambio del suo orologio, un ragazzo lo accompagnò in bicicletta verso Castell’Arquato, dove lo affidò a due partigiani.
I partigiani lo fecero salire su un veicolo che lo condusse a Rustigazzo. Qui Alexander si accorse di aver riportato una ferita alla testa, che gli venne medicata e suturata in una chiesa. Nel tardo pomeriggio, il veicolo ripartì, s’inerpicò per strade in salita e raggiunse Prato Barbieri, dove il pilota fu ospitato in un albergo, certamente l’Hotel Touring, utilizzato come base operativa dai partigiani[11].
Ben presto gli si presentarono un uomo di nome Guido Cagnani, che parlava inglese, e un caporale inglese, Bernard Crackle, ex prigioniero di guerra. Fu così che Alexander iniziò a scoprire la realtà, per lui assolutamente nuova, di quella zona controllata dai partigiani. Nei giorni successivi ebbe modo di esplorarla, guidato da Crackle, che su quei monti ci viveva da un anno.
Gli ex prigionieri britannici, lasciati senza sorveglianza dopo l’8 settembre, si erano rifugiati numerosi sugli Appennini: qualcuno si era unito alla Resistenza, gli altri venivano ospitati dai contadini, accettati di buon grado, spesso benvoluti – come Crackle, che nella vita civile era stato uno chef e metteva le sue capacità al servizio degli ospiti. Alexander scoprì con stupore che molte persone sapevano esprimersi in inglese, avendo alle spalle esperienze di emigrazione in Inghilterra o negli Stati Uniti, il che aveva creato le premesse per l’accettazione degli ex prigionieri e per sentimenti di simpatia verso gli Alleati[12].
Quanto ai partigiani, Alexander guardava con diffidenza i simboli comunisti ostentati dai garibaldini, ma, in questa fase, mantenne con loro rapporti sostanzialmente buoni[13]. La brigata non era, in realtà, particolarmente politicizzata: il comandante, Giuseppe Prati, aderiva alla Democrazia Cristiana e non risulta che simboli di parte fossero ostentati con insistenza[14]. Il 12 ottobre il pilota fu accompagnato a Bettola, ove incontrò una missione britannica, già da qualche tempo attiva in zona, appartenente alla A-Force, specializzata nel recupero degli ex prigionieri. La guidava il sergente Barry Fick, un sudafricano[15], coadiuvato da due militari italiani dell’esercito cobelligerante, ricordati da Alexander come Giovanni e Grassi, il radiotelegrafista. Fick incluse il pilota in un gruppo che avrebbe tentato l’attraversamento delle linee il successivo 21 ottobre. Da settembre, infatti, era stato approntato un sentiero che permetteva di attraversare le linee tedesche e raggiungere gli Alleati[16].
Tale gruppo, composto da una decina di elementi, partì sotto una pioggia che non sarebbe cessata per tutta la durata del viaggio. In seguito si sarebbero accodati alcuni italiani. Al comando, Fick aveva posto il capitano Frederick Black, un ufficiale della RAF, che ad Alexander non andò mai a genio: gli appariva altezzoso e inadatto al compito, tanto da sospettare che si spacciasse per ufficiale, ma non lo fosse. La guida era un partigiano diciannovenne, di cui l’esigente Alexander non aveva opinione migliore.
Da Bardi, i fuggiaschi si portarono a Rossano, in Liguria, ove era la base del maggiore Gordon Lett, figura rilevante nelle vicende della Resistenza. Lett, già prigioniero di guerra, dopo l’8 settembre era entrato in contatto con gli antifascisti di Genova e, successivamente, con i servizi britannici[17]. Ad Alexander, al solito, non ispirò particolare fiducia. Il nostro pilota lo ricorderà con queste parole:
Aveva convinto gli inglesi che doveva rimanere in quel posto, in mezzo al nulla, a spiare le attività dei tedeschi nella città di Pontremoli e nel Golfo di La Spezia. Io dicevo: che bisogno c’è di lui? Basta che un P-38 scatti una foto da 30.000 piedi, e abbiamo tutto comunque. Ma lui si era creato un piccolo feudo lassù: aveva una casa con una cantina piena di vino, di razioni C e K e altro, e non voleva dar niente a nessuno[18].
Dove si può notare la convinzione, diffusa nella cultura americana, che la superiorità tecnologica basti a risolvere i conflitti, con la conseguente sottovalutazione delle forme di guerra non convenzionale.
Dopo la sosta a Rossano, il 29 ottobre il gruppo ripartì, guadò il fiume Magra, passò attraverso Bibola, le cave di marmo sulle Alpi Apuane e si fermò a Forno, presidiata dai partigiani del Gruppo Patrioti Apuani. Il percorso prevedeva di passare sul Monte Altissimo, ma il sentiero era battuto da tiri di mortaio, che lo rendevano pericoloso[19].
A quel punto comparve una donna, che sostenne di essere una contessa e di lavorare per i servizi americani: propose a Black di accompagnare lei il gruppo per una via alternativa. Black si fidò.I fuggiaschi raggiunsero così Massa, nel pomeriggio del 31 ottobre, ma solo per cadere nelle mani dei tedeschi. Fu sparato qualche colpo, un marinaio inglese rimase ucciso, un altro militare riportò una ferita, gli altri vennero catturati. Il giovane partigiano che aveva fatto da guida venne fucilato.
Alexander e il fido Crackle, rimasti in coda alla colonna, riuscirono a fuggire e si aggirarono alcune ore per Massa, che apparve loro spettrale. Alle ore 16 di quel giorno, infatti, era scaduto il termine, imposto dai tedeschi, per l’evacuazione della città, ormai a ridosso della linea del fronte[20]. Durante la notte, i due andarono a cacciarsi in un cimitero proprio vicino al comando tedesco, e furono acciuffati. Ritrovarono così i loro compagni.
Gli uomini catturati vennero ripetutamente interrogati a Massa da un capitano della Wehrmacht, quindi, il 6 novembre, trasferiti a Parma in grosse gabbie trasportate su autocarri. In questa città le gabbie furono esposte in una piazza: Alexander ricorda che i cittadini se ne stavano a debita distanza, mentre si fecero avanti a dileggiare i prigionieri solo alcuni fascisti, probabilmente militi della Repubblica Sociale. E’ questo l’unico punto della testimonianza, in cui Alexander menzioni i fascisti: di fatto, non si riferisce mai alla presenza delle loro forze armate, né cita la Repubblica di Mussolini. Nella sua ottica, la guerra in corso è tra gli Alleati e la Germania, e tutta la zona non ancora occupata dagli Alleati è “territorio tedesco” – ottica che, forse, aiuta a comprendere l’accanimento con cui i vari Pippo mitragliavano indiscriminatamente quanto capitasse loro a tiro.
I prigionieri, infine, vennero consegnati alla Gestapo, che li rinchiuse in un mulino situato tra Modena e Bologna. Alexander colloca in questo momento della sua avventura un’autentica svolta esistenziale: invece di continuare ad affidarsi ad altri, decise di prendere in mano la situazione, premessa a una definitiva scelta di essere padrone della propria vita. Organizzò così un’evasione, portata a termine con successo grazie a un coltellino, sfuggito alle perquisizioni, con cui scassinò una porta del mulino. Costrinse Frederick Black ad andare con lui: pur non stimandolo, aveva bisogno di qualcuno che parlasse bene l’italiano. Evasero anche Crackle e altri due soltanto. Il resto del gruppo, estenuato dalla fatica, preferì non affrontare nuovi rischi.
I fuggiaschi decisero di tornare a Bardi. Il viaggio si rivelò un autentico incubo. I cinque vagarono per almeno una decina di giorni sugli Appennini, tormentati dalla fame e dal freddo, cercando di non incappare in qualche pattuglia tedesca. Talvolta trovarono ospitalità presso gruppi di partigiani, ma, in questo frangente, l’opinione di Alexander nei loro confronti cambiò drasticamente: li trovò ostili e violenti, sempre pronti a rubargli gli stivali – la parte migliore del suo abbigliamento, ormai inadatto al clima. Nell’intervista, Alexander sostiene che all’inizio la Resistenza era stata positiva, ma in seguito i partigiani erano diventati una banda di malfattori.
Come abbiamo rilevato, ad Alexander pare sfuggisse il fatto che in Italia fosse in atto anche una guerra civile, di cui erano in corso, in quei giorni, importanti sviluppi: l’avanzata degli Alleati si stava arrestando all’altezza della Linea Gotica, mentre il generale Harold Alexander, il 13 novembre, lanciava il proclama in cui invitava i partigiani a smobilitare; in conseguenza di ciò, tra questi ultimi si diffondevano sentimenti di delusione verso gli Alleati, mentre incombevano la prospettiva di un nuovo inverno e la minaccia di rastrellamenti tedeschi.
Circa i rastrellamenti, interessante è l’interpretazione che ne fornisce Alexander, coerente, del resto, con la sua visione della guerra in corso: “i tedeschi salivano in montagna a caccia degli ex prigionieri e dei piloti americani”. L’area verso cui i cinque fuggiaschi si stavano dirigendo era però ancora relativamente sicura. Il 17 novembre Alexander e i suoi compagni, estenuati e debilitati, raggiunsero Bardi. Cadevano i primi fiocchi di neve.
Black, nel villaggio di Tosca, conosceva una famiglia, composta dai coniugi Oreste e Rosa Martani e dalle loro figlie, dalla quale si fece ospitare insieme ad Alexander. Questi, che non gradiva l’arroganza con cui l’inglese trattava i generosi ospiti, un bel giorno lo convinse, a suon di sganassoni, a cercarsi un’altra sistemazione.
Il pilota texano rimase un mese a casa della famiglia, instaurando un rapporto affettivo destinato a durare tutta la vita: durante l’intervista, mostrerà al professor Marcello una foto di Rosa Martani, Mamma Rosa, ormai centenaria. In questo periodo imparò quanto più italiano potè, con buoni risultati. Riuscì così a comunicare direttamente con la gente del posto, il che potrebbe aver influito sulle sue idee circa la Resistenza: la comparsa dei partigiani, in zona, era stata accolta con favore, ma la crescita numerica delle formazioni e i rastrellamenti invernali complicarono notevolmente il rapporto.[21] Naturalmente, le suggestioni recepite localmente si sovrapponevano alle propensioni ideologiche del nostro texano.
Nella sua “casa in collina”, Alexander non pare essere stato raggiunto dagli echi del primo rastrellamento, condotto da tedeschi e truppe della Repubblica Sociale tra novembre e dicembre, ma esauritosi senza penetrare a fondo nella Zona libera[22]. Verso Natale, Alexander si fece condurre da Oreste Martani sul Monte Barigazzo, dove si era spostata la missione di Barry Fick[23]. Questi stava preparando una nuova spedizione attraverso le linee, ma il pilota contrasse un’infezione a una mano e non potè prendervi parte. Intanto la neve cadeva sempre più fitta e i rastrellamenti tedeschi giungevano, ormai, a minacciare la zona. In un simile frangente, venne paracadutata una missione militare americana. Alexander descrive così le peripezie cui essa andò incontro:
In questo periodo, l’OSS aveva paracadutato una missione, il cui nome in codice era Cayuga 7. Presero terra proprio in mezzo a questo gruppo di soldati tedeschi che stava salendo in montagna in cerca di gente come me. Il capitano Bob – non si usavano mai i cognomi – era il comandante di Cayuga 7 e stava trasportando un bel mucchio di denaro. Perse tutto, eccetto 250 dollari, che riuscì a salvare. Persero tutto l’equipaggiamento, perché appena toccarono terra si ritrovarono in mezzo a una bufera di neve – e poi dovettero darsela a gambe, perché erano proprio in mezzo ai tedeschi.[24]
La missione calò dal cielo il 27 dicembre. La comandava il capitano Michael Formichelli (Captain Bob), italo americano di Brooklyn, di ventisette anni. Anche gli altri componenti, sei in totale, erano di origine italiana[25]. Le difficoltà climatiche e militari cui andarono incontro provocarono l’annullamento di una successiva missione d’appoggio affidata all’ORI, che si sarebbe dovuta aggiungere in gennaio, sotto la guida di Ennio Tassinari[26].
Il momento più critico fu raggiunto quando si scatenò il grande rastrellamento dei giorni 6-9 gennaio 1945. Vi parteciparono reparti della Repubblica Sociale, nonché la famigerata Divisione Turkestan, composta da russi asiatici arruolati dai tedeschi (chiamati comunemente “mongoli”[27]): la Zona libera d’Arda cessò d’esistere. Le formazioni partigiane, tuttavia, pur disarticolate e disperse, mantennero la presenza sul territorio.
Da parte sua, Alexander si ritrovò spesso a riparare sui monti per sfuggire ai rastrellatori. Era ormai al seguito della missione britannica di Barry Fick, che si era installata in una baita nella località di Pieve. Qui era stato raggiunto da tre piloti suoi connazionali: Clarence M. Thomas, che, abbattuto il 3 gennaio e disceso con il paracadute presso Ponte d’Olio[28], visse drammatici momenti insieme ai partigiani durante il rastrellamento; Ernest Fahlberg, abbattuto il 12 gennaio[29]; Wayne Wheeler, precipitato il 17 gennaio nel Bresciano[30], da dove aveva raggiunto Cremona, attraversato il Po per poi inerpicarsi sugli Appennini sino a incontrare i membri della missione Cayuga.[31]
Fahlberg era proprio quello stesso compagno di Alexander, da lui salvato il fatidico 1° ottobre. Era precipitato a Motta Visconti, a sud-ovest di Milano, sulla sponda lombarda del Ticino[32] e si era spinto sin verso Morfasso dopo una lunghissima marcia solitaria. Michael Formichelli, raggruppati i connazionali, lasciò che fosse la missione di Barry Fick a occuparsi di loro.
All’inizio di febbraio, Fick organizzò un nuovo tentativo di attraversare le linee. Partirono i piloti, un ex prigioniero britannico e il radiotelegrafista Grassi. I sei uomini scesero da Pieve passando per Porcigatone e Bertorella, poi risalirono sul versante opposto dei monti sino a Buzzo e si portarono a Rossano, ove incontrarono Gordon Lett. Proseguirono successivamente su e giù per le valli, sostando un giorno a Madrignano, per dare modo a Fahlberg di rimettersi da una brutta caduta. Ripreso il cammino, incontrarono un reparto di paracadutisti britannici, il cui comandante, dice Fahlberg, si chiamava Brown. Ormai abbiamo imparato a conoscere il nostro texano e non ci stupisce sapere che Brown non gli andò affatto a genio e gli apparve un incompetente.
Quei paracadutisti erano una forza speciale del SAS, lanciata dietro le linee tedesche il 27 dicembre in quella che fu chiamata Operazione Gallia. Erano trentaquattro uomini, comandati dal capitano Bob Werner-Brown, uno scozzese venticinquenne già compagno di Gordon Lett in campo di prigionia. Werner-Brown era poi evaso ed era entrato nelle forze speciali: aveva al suo attivo una missione analoga in Francia[33]. Durante il mese di gennaio, i paracadutisti di Werner-Brown avevano condotto una serie di azioni contro le forze tedesche in collaborazione con Lett[34]; il 10 febbraio era stato deciso il ripiegamento.
Alexander fu lieto di aggregarsi ai paracadutisti, in quanto così si sentiva più sicuro in caso di incontri con pattuglie nemiche. Tuttavia, dopo l’attraversamento del fiume Magra, notò che la loro marcia era troppo lenta, poiché il reparto portava con sé mitragliatrici pesanti. Il gruppo dei piloti, allora, partì in avanguardia e diede appuntamento ai britannici a Forno.
Il cammino procedette così sino a Vinca, dove l’organizzazione della Resistenza assegnò loro come guida un uomo anziano, che pareva malfermo sulle gambe, ma che con insospettata energia condusse il gruppo sino a Forno. Al solito, Alexander guardò con sospetto ai partigiani che lo occupavano, ritenendoli tutti comunisti, per quanto si trattasse del Gruppo Patrioti Apuani, formazione autonoma guidata da Pietro Del Giudice, frate cappuccino laureato in Diritto Canonico. Successivamente arrivarono anche i paracadutisti britannici, che si rassegnarono ad abbandonare le armi pesanti, cedendole ai partigiani. Intorno alle 15.00 del 14 febbraio 1945, iniziò l’ultimo tratto del percorso[35].
La colonna attraversò macchie di olivi e alberi da frutta sino a un avvallamento, dove sostò. Con il calare della sera, procedettero in fila indiana, inerpicandosi su per il Monte Altissimo, sulla cui vetta erano prima della mezzanotte[36]. Il capitano Werner-Brown ordinò un’altra sosta, suscitando il disappunto di Alexander, cui pareva che la posizione fosse troppo esposta. L’eco di un colpo di mortaio non contribuì a tranquillizzarlo.
Dal momento che l’ufficiale britannico era irremovibile, Alexander si offrì di scendere in avanscoperta per prendere contatto con gli uomini della 92^ Divisione degli Stati Uniti, nota per essere composta da soldati di colore. “I miei americani preferiti”, assicura il texano, che spiegherà: “il capitano Brown era convinto che se qualcuno fosse andato incontro ad americani di colore parlando con accento britannico, si sarebbe trovato nei guai. Allora dissi: - Io sono un bravo ragazzo del Sud. Ci vado io a incontrarli!”[37]
Seguito dai compagni, Alexander discese dunque verso il basso, imbattendosi in alcuni cadaveri e poi in una pattuglia di partigiani, che indicò la direzione giusta[38]. Poco prima delle cinque del mattino i piloti erano in una cascina, occupata dai loro compatrioti. L’odissea era finita.
Alexander e Fahlberg rientrarono alla loro unità, che si trovava a Pisa, il 16 febbraio. Si trattennero poche ore con i compagni. Ben presto vennero rimpatriati. La guerra, per loro, era finita. Rimasero comunque in servizio sino al 1946 e, per un certo periodo, fecero parte delle forze d’occupazione in Germania. Intanto, beneficiando delle leggi a favore dei reduci, Alexander si era iscritto all’Università e conseguirà la laurea in Ingegneria chimica.
Invitato, al termine dell’intervista rilasciata al professor Marcello, a esprimere quale significato aveva avuto per lui l’esperienza italiana, Alexander dirà:
All’inizio di questa avventura ero un bravo ragazzo del Sud, a cui avevano sempre detto di obbedire all’autorità, di fare quello che dicono i superiori perché loro ne sanno più di te, di non creare problemi e rigare diritto. Bene, dopo che Freddie Black ci cacciò nella situazione in cui ci cacciò, mi ripromisi che qualcosa del genere non mi sarebbe più successo e da quel momento ho preso in mano la mia vita[39].
Naturalmente, l’avventura di Alexander può essere valutata diversamente da un osservatore esterno. In prospettiva storica, l’aspetto che sembra più positivo è il legame personale instauratosi tra il bravo ragazzo texano e una famiglia di contadini emiliani: pur appartenendo a mondi del tutto differenti, si può dire che i Martani adottarono Alexander come uno di famiglia e tale il pilota si considerò: a guerra finita, il rude texano cercò di sdebitarsi inviando ai suoi ospiti materiale utile all’agricoltura, come sementi; tornò spesso in Italia a visitarli e si recò a visitare anche le famiglie formate dalle figlie di Oreste e Mamma Rosa.
NOTE
[1] Originale conservato in University of North Texas, Oral history collection, number 1349, Interview with Shuford M. Alexander jr., December, 2, 1999 (D’ora in avanti Interview). A questa fonte si aggiungono due lettere, una datata 25 aprile 2007 ed indirizzata a Dismo Salotti, in cui Alexander rievoca, più sinteticamente, la sua vicenda, l’altra, sempre risalente all’aprile 2007, ma senza indicazione di giorno, indirizzata a Franco Sprega, con alcune precisazioni.
[2] Ai tempi della nascita di Alexander, il villaggio era in crescita, tanto che arrivò a toccare i duecento abitanti. La crisi economica del 1929, tuttavia, provocò un’inversione di tendenza, con una decrescita al di sotto del centinaio.
[3] Nel Piacentino prevaleva la tendenza a riservare il soprannome di Pippo agli apparecchi che volavano di notte e sganciavano bombe su qualsiasi fonte di luce. Particolarmente tragico il caso di Vesimo di Zerba, quando, nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1944, fu bombardata una festa di paese, con un bilancio di 32 morti.
[4] Cesare Bermani, Spegni la luce che passa Pippo, Voci, leggende e miti della storia contemporanea, Roma, Odradek, 1996.
[5] Strategia che, in ultima analisi, non funzionò, ma che, comunque, continuò a essere portata avanti. Andrew Brookes, Air War over Italy, Shepperton, Ian Allan, 2000, p. 80.
[6] Interview cit., p. 42. In questo modo, risultarono spesso vittime dei mitragliamenti i partigiani, come lamenta Giuseppe Prati, La Resistenza in Val d’Arda. Narrata dal suo comandante, Piacenza, Vicolo del Ponte, 1994, pp. 87 e 233-34.
[7] Giulio Cattivelli Cat, Piacenza in prima linea, “Libertà”, 12 marzo 1995, ora anche in La guerra di Cat, a cura di Stefano Pareti, Bobbio, Pontegobbo, 2012, p. 93.
[8] Il racconto di Alexander (Interview cit., pp. 58-63) corrisponde al rapporto sul suo abbattimento redatto al termine della missione: Missing Air Crew Report (MACR) 9036 , consultabile sul sito www.fold3.com.
[9] Rapporto di Ernest Fahlberg, in MACR 9036.
[10] Le istruzioni che aveva ricevuto per una eventualità di quel genere erano solo di cercare di nascondersi e attendere l’avanzata della V Armata. Interview cit., p. 63.
[11] Daniela Morsia, Memorie di parroci e civili sulle vicende della montagna piacentina, in AA.VV., Guerra, guerriglia e comunità contadine in Emilia Romagna 1943-1945, Reggio Emilia, RS libri, 1999, p. 98.
[12] Morsia, Memorie di parroci e civili cit., pp. 95, 97-99.
[13] Interview cit., p. 71; 76 sgg. Alexander ricorda un partigiano di nome Mario, che aveva mansioni di comando e che aveva recuperato il suo paracadute. Il pilota glielo regalò.
[14] Prati, La Resistenza in Val d’Arda cit., pp. 91 e 191.
[15] Barry Fick diventerà in seguito esperto nel recupero degli aviatori caduti oltre le linee, e può darsi che Alexander fosse il suo primo caso di questo genere. Nella primavera del 1945, Fick organizzerà il salvataggio di un aviatore, facendo atterrare in territorio occupato un Fi-156 dell’aviazione italiana cobelligerante, pilotato da Furio Lauri, specialista in questo genere di operazioni. James Langley-Michael Foot, MI9. The British secret service that fostered escape and evasion, London, Book Club, 1979, p. 204.
[16] Maria Grazia Armanini, Il passaggio del Fronte in Eserciti, popolazione Resistenza sulle Alpi Apuane. Atti del Convegno Internazionale di Studi Storici, vol. 1, Massa Carrara 1995.
[17] Lett ha lasciato libri di memorie. In particolare: Rossano. Vicende della Resistenza italiana, Milano, Edizioni librarie, 1958.
[18] Interview cit., p. 92.93.
[19] In quel periodo il passaggio, aperto da poco, era ancora assai difficoltoso, come la vicenda dello stesso Alexander dimostra. Armanini, Il passaggio del Fronte cit., p. 332.
[20] Copia dell’ordine di evacuazione nell’Archivio Storico del Comune di Bagnone, CPLN, Ordini tedeschi, c.1, 1944-10-31, b. 3, f. 1.
[21] Morsia, Memorie di parroci e civili cit., p. 107. Nella lettera dell’aprile 2007, Alexander scrive di aver conosciuto “un mucchio di gente” (a lot of people) e di non poter elencarli tutti (I can’t list them). Quelli che ricorrono più frequentemente, tuttavia, sono persone relativamente agiate, piccoli proprietari che durante l’inverno subirono il prelevamento di viveri da parte dei partigiani.
[22] Prati, La Resistenza in Val d’Arda p. 259.
[23] Nella lettera dell’aprile 2007, Alexander sostiene che Oreste Martani gli aveva proposto di rimanere a casa sua sino al termine della guerra. Il pilota rifiutò: “sapevo di dover raggiungere la mia squadriglia”. Ciò confermerebbe l’osservazione di Alizia Usai, Organizzazione degli aiuti alla Resistenza, “Quaderni Savonesi”, 24/aprile 2011, p. 8, circa il fatto che “i piloti di aerei, per un qualche motivo caduti in territorio nemico, cercassero in tutti i modi di sottrarsi alla prigionia”.
[24] Interview cit., pp. 125-26.
[25] Si trattava dei sergenti Frank J. Alessi, Oscar F. Di Silvestro, Frank A. Savio, Mario J. Procaccini e dei soldati Reno J. De Stefani e Joseph Scalia. www.ossog.org/italy/cayuga.html.
[26] Ennio Tassinari, L’O.R.I. (Organizzazione della Resistenza Italiana). Racconti e protagonisti, Ravenna, Longo, 2011, p. 118. L’ORI era un gruppo, interamente composto da agenti italiani, che effettuava missioni di collegamento con la Resistenza in collaborazione con l’OSS.
[27] Alexander non menziona mai i “mongoli” nelle sue testimonianze, per quanto è improbabile che non ne avesse sentito parlare.
[28] MACR 10952.
[29] MACR 11280.
[30] MACR 11283.
[31] Wheeler nel 1979 pubblicò a proprie spese un libro di ricordi, intitolato Interlude in Italy, che permette di integrare le testimonianze di Alexander, con le quali sostanzialmente concorda.
[32] La sua caduta venne registrata dalla memoria locale: Ambrogio Palestra, Storia di Motta Visconti e dell’antico vicus di Campese, Pieve del Cairo, Comune di Motta Visconti, 1976, p. 215.
[33] Un profilo di Werner-Brown nel suo lungo necrologio, “The Telegraph”, 17 settembre 2009. Sul numero del successivo 21 settembre comparve una lettera del figlio di Gordon Lett, con ulteriori dettagli sulle vicende dell’Operazione Gallia.
[34] Lett, Rossano cit., p. 202.
[35] Sull’ultimo tratto del percorso esiste la testimonianza di uno dei paracadutisti, Harry Shanley, nel sito www.lothianpra.webspace.virginmedia.com/veteran4.htm.
[36] Le ore coincidono anche secondo Wheeler e Shanley.
[37] Interview cit., p. 137.
[38] Si trattava di una pattuglia che operava abitualmente nel tratto finale del sentiero in appoggio a quanti tentassero il passaggio delle linee.
[39] Interview cit., p. 154.
(Tratto dalla rivista di storia contemporanea, diretta da Angelo Del Boca, "I sentieri della ricerca" del 18 luglio 2014)