Giuseppe Segalini, nonno alla memoria
di Pierlino Bergonzi
di Pierlino Bergonzi
Fante Giuseppe Segalini, nato a Lugagnano il 21 dicembre 1886, morto a causa dei gas presi sul Cimone nel 1916
La cattiveria umana non sarebbe bastata
Da sola, la cattiveria umana non sarebbe stata sufficiente per mandare in guerra un padre con quattro figli piccoli da sfamare, su un fronte di prima linea, dove statisticamente la probabilità di campare era di pochi mesi. No, la ferocia dell’uomo non sarebbe bastata, era necessaria una malvagità di grado superiore… Io non credo che un caso come quello del nonno fosse tanto comune anzi, sono convinto piuttosto che mandare in guerra un papà di quattro marmocchi dai sei mesi ai 9 anni, unico sostentamento per la sua famiglia, fosse una situazione davvero straordinaria anche a quel tempo. E di quella situazione straordinaria nessuno se ne sarà accorto? Nessuno si sarà domandato: “Ma cosa stiamo facendo? Fermiamoci!”. Certo che sì! Gli ufficiali selettori del Distretto Militare, il parroco, i saggi locali, il dottore del paese, il maresciallo dei Reali Carabinieri, il sindaco, gli amministratori, tutti quelli che conoscevano il suo stato di famiglia insomma; compresi i vari comandanti militari dei reparti dove aveva prestato servizio il nonno. Tutte queste persone devono obbligatoriamente aver colto l’incongruenza di quanto stava avvenendo e di sicuro dalle loro coscienze avranno ricevuto istruzioni di quale fosse il giusto comportamento da tenere per il “caso Segalini”. Conoscendo la tristissima conclusione della storia risulta evidente che le voci delle coscienze furono poco ascoltate dai loro titolari, tanto che nessuno riuscì a sanare per tempo la situazione. Si spera almeno che qualcuno abbia rimediato, con pentimento sincero, alla sua grave omissione “entro i termini di scadenza”; gli altri invece, più distratti e impegnati sul fronte terreno, avranno risentito parlare del nonno al “processo finale”, quando il “pubblico ministero” avrà posto ad ognuno di loro la tremenda ed inevitabile domanda: “Che ne è stato di tuo fratello Giuseppe che avevi in custodia?”. (1) Quando la posta in gioco è il nostro futuro, conviene darsi tutto il coraggio di cui siamo capaci e obbedire al “Comandante in Capo”, piuttosto che agli uomini, i quali troppo spesso non sanno quello che fanno e perseguono interessi che durano un solo giorno. (2)
(1) Cfr. Gen 4,9-10
(2) Cfr. Gv 14,6; At 5,29; Lu 23,34
(2) Cfr. Gv 14,6; At 5,29; Lu 23,34
La visita di leva al Distretto Militare di Piacenza
Immagine sopra: Foglio Matricolare di Giuseppe Segalini, classe 1886, documento custodito presso l'Archivio di Stato.
Nel 1906 nonno Giuseppe viene chiamato al Distretto Militare di Piacenza per la visita di leva della sua classe di nascita: 1886. Per molti giovani la chiamata alla visita di leva era l’occasione di andare a Piacenza per la prima volta. Specie per i giovani delle vallate montane detta visita era una sorta di emancipazione sociale. Conclusa con esito positivo la serie di controlli medici e ottenuto il responso di “abile arruolato” si faceva festa con i coscritti per il “traguardo” raggiunto: si mangiava e si cantava, ma soprattutto si beveva. Capitava anche che i più spiritosi scrivessero con vernice su qualche muro un “Viva la classe 1886”. Il nonno Giuseppe conclude la sua visita il 15 maggio 1906: riconosciuto abile come soldato di leva nella seconda categoria, gli assegnano il suo numero di matricola, 11886, e lo inviano subito in congedo illimitato, probabilmente per eccesso di numeri.
Chiamato alle armi e inviato in zona di guerra
Foto sopra a sinistra: cartina delle zone di operazioni e reparti schierati. Foto sopra a destra: postazioni sulla vetta del Cavioio, area Monte Cimone - Val d'Astico
Per effetto del Regio Decreto del 22 maggio 1915, Circolare nr. 370 del Giornale Militare, Giuseppe viene chiamato alle armi il 6 novembre 1915. Una settimana dopo, l'11 novembre 1915, è assegnato al 23° Reggimento di Fanteria della Brigata "Como" di stanza nella città di Novara. In questa sede avrà certamente seguito il primo addestramento conclusosi con il giuramento solenne. Terminata la prima fase, di sicuro ce ne sarà stata una seconda, fatta di esercitazioni sul campo e indottrinamento psicologico alla guerra. A febbraio dell'anno successivo i superiori ritengono che sia idoneo alla guerra e lo inviano al fronte. Il 23 febbraio 1916 raggiunge "l'altra parte" del suo reparto, che si trova nel Cadore. Giuseppe si trova inquadrato nel 23° Reggimento Fanteria della Brigata "Como". La sua Brigata ha iniziato a combattere dall'inizio della guerra, maggio 1915, con le truppe della 2^ Divisione, I Corpo d'Armata; 4^ Armata in Val Boite. Il 23° Reggimento si era già fatto onore nei combattimenti in varie azioni, subendo anche perdite rilevanti, come quando il 9 giugno del 1915 attaccavano le postazioni dello sbarramento di Som Pauses, lasciando sul campo 180 uomini e 10 ufficiali. La "Como" aveva continuato con azioni offensive contro il nemico in Val Fiorenza, Monte Cristallo; il 30 giugno occupava una importante postazione a Col Rosà; l'8 luglio gli uomini del 23° fanteria con un'azione audace catturavano una quindicina di prigionieri; sempre il 23° concorreva con altri reparti alla conquista del Monte Piana. A ottobre la "Como" insieme alla Brigata "Umbria" completavano la conquista del Cristallo, già iniziata a luglio. All'inizio del 1916 la "Como" si trovava nel Cadore, poi il 13 febbraio si era spostata in Val d'Ansiei.
Quando nonno Giuseppe arriva in zona di operazioni, il 23 febbraio 1916, il suo reparto, il 23° fanteria della Brigata "Como", si trova quindi in Val d'Ansiei. Ma non ci rimarrà per molto; già il 29 marzo sono in Val Padola, sempre con la 2^ Divisione. L'attività della "Como" in questo periodo è indirizzata per lo più al rafforzamento delle difese e a qualche colpo di mano condotto da reparti isolati; come quello portato a termine dal 23° fanteria sul gruppo del Cristallo il 29, 30 e 31 marzo quando prendono la posizione nemica e fanno prigionieri una trentina di uomini.
Giuseppe, insieme a diversi suoi commilitoni, il 4 aprile del 1916 cambia reparto e viene assegnato al 153° fanteria della Brigata "Novara". È quasi certo che questo passaggio avvenga per rimpinguare gli uomini del 153° dopo le gravissime perdite subite. Il 153° dall'inizio del 1916 operava nel settore del "Lenzuolo Bianco" (Oslavia) dove a seguito di un forte attacco nemico aveva perduto quasi 200 uomini e la Quota 188 che presidiava. Subito dopo, il 153° era riuscito a riprendere in parte Quota 188 e in questa operazione il comandante di reggimento veniva colpito mortalmente. Dopo una decina di giorni, il 24 gennaio il nemico aveva ripreso la Quota 188 e i nostri erano costretti a ripiegare fino al Lenzuolo Bianco. Dopo tutte queste sofferenze la Brigata è spostata fra Manzano e Ruttars per riprendere fiato. La "Novara" ritorna alla dipendenza della 9^ Divisione e l'8 aprile, con il treno, raggiunge la zona fra Caltrano-Carrè e Chiuppano. Poi, il 28 aprile viene spostata fra Arsiero-Cogolio e Seghe di Velo e dopo qualche giorno di nuovo in movimento per raggiungere l'area tra Isola Vicentina, Caltelnuovo, San Tomio, Caldogno e Novoledo.
Il 17 maggio la "Novara" riceve l'ordine di inviare il 153° al Passo della Vena (35^ Divisione), mentre il comando di Brigata prende posizione a Tonezza. Due giorni dopo, il 19, il Passo della Vena deve essere evacuato in tutta fretta e dopo il ripiegamento sono sull'altopiano di Tonezza. Dopo altri due giorni, il 21, ricevono l'ordine di abbandonare anche l'altopiano e i battaglioni vengono posti fra Cogollo e Mosson. Le perdite subite sono ingenti, un migliaio di uomini. Il 26 maggio 1916 alla "Novara" viene assegnata la difesa del sottosettore di sinistra dell'Astico. Una prima linea che va dalla strada di Arsiero- Velo d'Astico e la Valle di Rabollo; un'altra linea più arretrata che va fra il fondo Val d'Astico (Castello di Meda) e il Monte Cengio. Il 29 maggio ci sono aspri combattimenti per una minaccia nemica contro Monte Cengio. Nello stesso giorno il nemico tenta di passare la difesa in Val Canaglia. Il 31 il nemico aggredisce da Cima Ardè e Punta Corbin in direzione di Monte Cengio. Il primo giugno riesce ad occupare Monte Belmonte, ma viene fermato al Monte Cengio. La morsa nemica si stringe ogni giorno di più e il giorno 3 giugno il Monte Cengio cade.
La Brigata "Novara" dal 15 maggio al 3 giugno lascia sul campo 57 ufficiali e 1834 militari di truppa. Il 17 giugno il 153° prende posizione tra San Rocco e San Ulderico.
All'alba del 26 giugno il 153° raggiunge la postazione fra Quota 336 e Quota 645, dove dalla notte precedente la Brigata "Bisagno" sta conducendo l'attacco alle postazioni nemiche di Monte Cimone. La Brigata "Novara" ha il compito di tenersi pronta per un probabile intervento e viene posizionata col comando in Val d'Astico, mentre fra Arsiero e le trincee delle quote 336 e 645 abbiamo visto che è dislocato il 153° suo reparto dipendente a disposizione della "Bisagno".
Dopo un periodo di relativa "calma", piccole azioni e una serie di spostamenti, il 23 luglio alla "Novara" viene ordinato di aggredire il Monte Cimone. Il 153° fanteria partecipa alla battaglia. Il monte viene conquistato a caro prezzo: rimangono infatti sul campo 436 uomini e 17 ufficiali. Dal 24 luglio al 9 agosto sul Cimone è battaglia senza soluzione di continuità. Il nemico tenta di giorno e di notte di riprendere il monte, ma gli italiani non demordono anzi, oppongono sempre un'accanita resistenza, in più lavorano febbrilmente per rinforzare e consolidare le opere difensive. Alcune battaglie qui svolte vengono annotate anche nei Rapporti giornalieri di Cadorna: il 25, 26, il 28, il 29, il 30 e il 31 luglio, e ancora il 1°, il 2, il 4, il 5, il 10 e il 15 agosto. Dal 15 agosto la Brigata "Novara" e quindi anche il 153° Fanteria, reparto dipendente, viene spedita per riposare e rifarsi nella zona di Meda, S. Ulderico e Poggio Curegno. Ritornerà sul Monte Cimone il 1° settembre 1916 pronta a versare nuovo sangue.
Quando nonno Giuseppe arriva in zona di operazioni, il 23 febbraio 1916, il suo reparto, il 23° fanteria della Brigata "Como", si trova quindi in Val d'Ansiei. Ma non ci rimarrà per molto; già il 29 marzo sono in Val Padola, sempre con la 2^ Divisione. L'attività della "Como" in questo periodo è indirizzata per lo più al rafforzamento delle difese e a qualche colpo di mano condotto da reparti isolati; come quello portato a termine dal 23° fanteria sul gruppo del Cristallo il 29, 30 e 31 marzo quando prendono la posizione nemica e fanno prigionieri una trentina di uomini.
Giuseppe, insieme a diversi suoi commilitoni, il 4 aprile del 1916 cambia reparto e viene assegnato al 153° fanteria della Brigata "Novara". È quasi certo che questo passaggio avvenga per rimpinguare gli uomini del 153° dopo le gravissime perdite subite. Il 153° dall'inizio del 1916 operava nel settore del "Lenzuolo Bianco" (Oslavia) dove a seguito di un forte attacco nemico aveva perduto quasi 200 uomini e la Quota 188 che presidiava. Subito dopo, il 153° era riuscito a riprendere in parte Quota 188 e in questa operazione il comandante di reggimento veniva colpito mortalmente. Dopo una decina di giorni, il 24 gennaio il nemico aveva ripreso la Quota 188 e i nostri erano costretti a ripiegare fino al Lenzuolo Bianco. Dopo tutte queste sofferenze la Brigata è spostata fra Manzano e Ruttars per riprendere fiato. La "Novara" ritorna alla dipendenza della 9^ Divisione e l'8 aprile, con il treno, raggiunge la zona fra Caltrano-Carrè e Chiuppano. Poi, il 28 aprile viene spostata fra Arsiero-Cogolio e Seghe di Velo e dopo qualche giorno di nuovo in movimento per raggiungere l'area tra Isola Vicentina, Caltelnuovo, San Tomio, Caldogno e Novoledo.
Il 17 maggio la "Novara" riceve l'ordine di inviare il 153° al Passo della Vena (35^ Divisione), mentre il comando di Brigata prende posizione a Tonezza. Due giorni dopo, il 19, il Passo della Vena deve essere evacuato in tutta fretta e dopo il ripiegamento sono sull'altopiano di Tonezza. Dopo altri due giorni, il 21, ricevono l'ordine di abbandonare anche l'altopiano e i battaglioni vengono posti fra Cogollo e Mosson. Le perdite subite sono ingenti, un migliaio di uomini. Il 26 maggio 1916 alla "Novara" viene assegnata la difesa del sottosettore di sinistra dell'Astico. Una prima linea che va dalla strada di Arsiero- Velo d'Astico e la Valle di Rabollo; un'altra linea più arretrata che va fra il fondo Val d'Astico (Castello di Meda) e il Monte Cengio. Il 29 maggio ci sono aspri combattimenti per una minaccia nemica contro Monte Cengio. Nello stesso giorno il nemico tenta di passare la difesa in Val Canaglia. Il 31 il nemico aggredisce da Cima Ardè e Punta Corbin in direzione di Monte Cengio. Il primo giugno riesce ad occupare Monte Belmonte, ma viene fermato al Monte Cengio. La morsa nemica si stringe ogni giorno di più e il giorno 3 giugno il Monte Cengio cade.
La Brigata "Novara" dal 15 maggio al 3 giugno lascia sul campo 57 ufficiali e 1834 militari di truppa. Il 17 giugno il 153° prende posizione tra San Rocco e San Ulderico.
All'alba del 26 giugno il 153° raggiunge la postazione fra Quota 336 e Quota 645, dove dalla notte precedente la Brigata "Bisagno" sta conducendo l'attacco alle postazioni nemiche di Monte Cimone. La Brigata "Novara" ha il compito di tenersi pronta per un probabile intervento e viene posizionata col comando in Val d'Astico, mentre fra Arsiero e le trincee delle quote 336 e 645 abbiamo visto che è dislocato il 153° suo reparto dipendente a disposizione della "Bisagno".
Dopo un periodo di relativa "calma", piccole azioni e una serie di spostamenti, il 23 luglio alla "Novara" viene ordinato di aggredire il Monte Cimone. Il 153° fanteria partecipa alla battaglia. Il monte viene conquistato a caro prezzo: rimangono infatti sul campo 436 uomini e 17 ufficiali. Dal 24 luglio al 9 agosto sul Cimone è battaglia senza soluzione di continuità. Il nemico tenta di giorno e di notte di riprendere il monte, ma gli italiani non demordono anzi, oppongono sempre un'accanita resistenza, in più lavorano febbrilmente per rinforzare e consolidare le opere difensive. Alcune battaglie qui svolte vengono annotate anche nei Rapporti giornalieri di Cadorna: il 25, 26, il 28, il 29, il 30 e il 31 luglio, e ancora il 1°, il 2, il 4, il 5, il 10 e il 15 agosto. Dal 15 agosto la Brigata "Novara" e quindi anche il 153° Fanteria, reparto dipendente, viene spedita per riposare e rifarsi nella zona di Meda, S. Ulderico e Poggio Curegno. Ritornerà sul Monte Cimone il 1° settembre 1916 pronta a versare nuovo sangue.
Ferimento, ricovero, congedo per inabilità grave
Foto sopra a sinistra: ambulanza in attesa di chiamata davanti ad un ospedale nelle retrovie. Foto sopra a destra: ospedale da campo ricavato in una cascina, generalmente allestito non distante dalle zone di operazioni.
Fin qui è tutto riportato dalle cronache di guerra e, con la necessaria pazienza, ci si può fare un’idea soddisfacente, in molti punti reale, dei vari luoghi, incarichi, fatti d’arme ecc. che ha vissuto una brigata o un reggimento nello svolgersi del conflitto. Già voler ricostruire per filo e per segno il percorso di una compagnia, un plotone o una squadra diverrebbe arduo anche per i più meticolosi ricercatori, sempre che non si tratti di un reparto speciale e/o che abbia compiuto imprese straordinarie. Ancor più difficile, ma sarebbe meglio dire impossibile, sarebbe pretendere di seguire un singolo soldato durante i giorni passati al fronte: squadra, plotone, compagnia, luoghi fisici di operazioni, servizi fatti, scontri a fuoco, battaglie, periodi di riposo, malattie ecc.. Sono passati più di cento anni, i testimoni sono morti tutti, e se non è scritto in qualche diario personale sono notizie che appartengono all’oblio eterno. Forse una ricostruzione potrebbe essere possibile per un generale comandante, ma per un fante semplice risulta altamente improbabile realizzarla. Questa premessa per dire che da ora siamo nel campo delle ipotesi, ragionevoli finché si vuole, ma ipotesi. La realtà provata ritornerà nuda e cruda nel prossimo capitolo, l’ultimo. I documenti militari di nonno Giuseppe, trovati nell’Archivio di Stato, sono stati compilati in modo scarno, in alcuni punti mancano dell’essenziale: ad esempio si legge che è “partito da territorio dichiarato in istato di guerra per malattia il 10 settembre 1916”, ma non è riportato che genere di malattia né quando fosse stata contratta. I parenti che hanno tramandato la notizia dicevano che Giuseppe raccontava di essere stato contaminato dai gas sul Carso. Purtroppo vera la contaminazione con i gas, messo in evidenza dagli effetti devastanti sul suo corpo; in riferimento al luogo invece, nei vari passaggi di parola è sicuramente stato sostituito con quello più comune e conosciuto da tutti: il Carso. Stando a quanto è emerso dallo studio dei documenti, il suo reggimento, il 153° Fanteria della Brigata “Novara”, nell’estate del 1916 non operava sul Carso bensì nell’area di Monte Cimone e dintorni. Ed è proprio nella zona del Monte Cimone di Tonezza che si può identificare il luogo dove è stato ferito. Per quanto riguarda la data invece si potrebbe collocare dal 24 luglio al 15 agosto, periodo in cui il nemico ha disperatamente tentato di riprendersi la cima. Perché si stima che il nonno sia stato ferito il questo lasso di tempo? Perché è nella notte del 23 luglio che i nostri, presente anche il reggimento del nonno, conquistano il Monte Cimone, e poi fino al 15 agosto perché in questa data la Brigata “Novara” viene inviata per un periodo di riposo lontano dalla prima linea. Da subito quindi, cioè dal giorno 24, il nemico riparte alla carica per riconquistare il monte perduto: bombardando e attaccando giorno e notte. I nostri resistono e sempre riescono a ricacciare gli avversari da dove erano giunti, tanto da meritarsi la menzione su diversi bollettini giornalieri firmati da Cadorna, come riportato nel precedente capitolo. Nonno Giuseppe potrebbe essere stato contagiato dai gas lanciati dal nemico con le artiglierie durante uno di questi numerosi attacchi. Per essere sinceri non s’è trovato nessun documento che attestasse l’uso dei gas in questo periodo sul Monte Cimone. D’altro canto però, si sa anche che al tempo era una prassi assai di moda lanciare gas con le artiglierie sulle linee nemiche prima di assaltarle con la fanteria. Il fatto che non sia documentato l’impiego di armi chimiche in quest’area potrebbe spiegarsi per i “modesti” danni causati. Da altre parti, sempre in questo periodo di tempo, dove i danni provocati dai gas sono stati devastanti, un esempio per tutti il Monte San Michele pesantemente attaccato con i gas il 29 giugno 1916, vengono appena accennati sui bollettini giornalieri a firma di Cadorna:
“Sul Carso, nella zona di Monte San Michele e di San Martino, l’avversario, disperando di contrastare in altro modo la nostra azione offensiva, spinse ieri sulle nostre linee dense nubi di gas asfissianti, alle quali fecero seguire un violento contrattacco. Le nostre valorose truppe, sfidando gli elementi deleteri dei gas, respinsero con magnifico slancio le colonne nemiche, infliggendo loro sanguinose perdite e prendendo 403 prigionieri .” (1)
Nessun accenno ai morti, ai feriti, ai dispersi. Sergio Vittori in occasione del centenario scrive sulla rivista “Voce Isotina”:
“Sul fronte carsico, questa orribile azione con il gas asfissiante soffocò più di seimila soldati italiani ...” (2)
Il reparto del nonno, il 153°, dopo il tempo di riposo dal 15 agosto a fine mese, il primo di settembre è di nuovo in prima linea, ma non sarebbe credibile sostenere che il ferimento di nonno Giuseppe sia avvenuto in questi giorni, in quanto il dieci di settembre viene inviato fuori dalla zona di guerra. E, siccome non ci si trovava in una pellicola americana sul Vietnam, dove i feriti vengono evacuati con l’elicottero nel fare di poche ore, si presume che abbia trascorso almeno qualche settimana in uno degli innumerevoli ospedali da campo, dislocati un pò ovunque nella retrovie, se non altro per vedere se si poteva curare e quindi rispedirlo in combattimento. Poi, di fronte all’impossibilità di trovare una cura efficace, lo trasferiscono al suo reparto d’origine, il 23° Reggimento Fanteria, di stanza a Novara, anche se parte di esso è sempre in zona di operazioni.
“Sul Carso, nella zona di Monte San Michele e di San Martino, l’avversario, disperando di contrastare in altro modo la nostra azione offensiva, spinse ieri sulle nostre linee dense nubi di gas asfissianti, alle quali fecero seguire un violento contrattacco. Le nostre valorose truppe, sfidando gli elementi deleteri dei gas, respinsero con magnifico slancio le colonne nemiche, infliggendo loro sanguinose perdite e prendendo 403 prigionieri .” (1)
Nessun accenno ai morti, ai feriti, ai dispersi. Sergio Vittori in occasione del centenario scrive sulla rivista “Voce Isotina”:
“Sul fronte carsico, questa orribile azione con il gas asfissiante soffocò più di seimila soldati italiani ...” (2)
Il reparto del nonno, il 153°, dopo il tempo di riposo dal 15 agosto a fine mese, il primo di settembre è di nuovo in prima linea, ma non sarebbe credibile sostenere che il ferimento di nonno Giuseppe sia avvenuto in questi giorni, in quanto il dieci di settembre viene inviato fuori dalla zona di guerra. E, siccome non ci si trovava in una pellicola americana sul Vietnam, dove i feriti vengono evacuati con l’elicottero nel fare di poche ore, si presume che abbia trascorso almeno qualche settimana in uno degli innumerevoli ospedali da campo, dislocati un pò ovunque nella retrovie, se non altro per vedere se si poteva curare e quindi rispedirlo in combattimento. Poi, di fronte all’impossibilità di trovare una cura efficace, lo trasferiscono al suo reparto d’origine, il 23° Reggimento Fanteria, di stanza a Novara, anche se parte di esso è sempre in zona di operazioni.
(1) Bollettino numero 427 in data 30 giugno 1916, firmato da Luigi Cadorna
(2) Sergio Vittori, 100 anni fa: la tragedia dei gas sul San Michele, sulla Voce Isontina, settimanale dell'Arcidiocesi di Gorizia, 27 giugno 2016.
(2) Sergio Vittori, 100 anni fa: la tragedia dei gas sul San Michele, sulla Voce Isontina, settimanale dell'Arcidiocesi di Gorizia, 27 giugno 2016.
Salita al Golgota e "liberazione"
Foto sopra a sinistra: Vicanino Sopra, la casa dove abitava nonno Giuseppe con la sua famiglia. Foto sopra a destra: documento riferito a nonno Giuseppe estratto dal Liber Mortuorum custodito negli archivi della Parrocchia di Rustigazzo.
Nonno Giuseppe dopo aver lasciato il fronte, dove era effettivo al 153° Reggimento Fanteria della Brigata “Novara”, fa ritorno al suo reparto d’origine: il 23° Reggimento Fanteria della Brigata “Como” di stanza a Novara. Qui viene assunto in carico il 19 settembre e verosimilmente subito ricoverato all’ospedale militare di giurisdizione. Il 3 ottobre 1916 viene congedato dal Regio Esercito Italiano perché riconosciuto inabile al servizio militare attivo dall’Ospedale Militare Principale di Torino. Gli concedono la dichiarazione di aver fatto un buon lavoro: “Il Fante Giuseppe Segalini nel servizio prestato ha tenuto buona condotta e ha servito con fedeltà e onore la Patria .”
Ora che ha saldato il suo “debito” con la Patria, non gli resta che ritornare a casa sua per sopportare la malattia, che non sarà lunga, e poi morire. Certo, morire è la prospettiva obbligatoria di tutti i viventi, ma accettarla a 30 anni non era nei progetti di Giuseppe, che aveva messo su famiglia solo pochi anni prima. Quando Giuseppe ritorna a casa è irriconoscibile: era partito un bel giovane, felice di essere al mondo, forte di carattere, vigoroso nel fisico, tenace e capace nel lavoro dei campi. Dopo neanche un anno ritorna un uomo distrutto nel fisico e nell’anima. Giuseppe sta in piedi con fatica, ha tremori continui in tutto il corpo, la faccia deturpata da una escrescenza che gli copre l’occhio destro, riesce a vedere ancora qualcosa con quello sinistro. La bocca è una smorfia: è storta e cola saliva in continuazione. Ha anche problemi di respirazione e talvolta tosse violenta. Una situazione inumana e inaccettabile, non si vedono vie d’uscita: sarà un futuro di disperazione, si spera breve. Giuseppe, che rimarrà per tutto il tempo con la mente lucida, si berrà giorno dopo giorno il calice amaro che gli è toccato. Di sicuro avrà pensato tutti i minuti al futuro dei suoi quattro figli che non potrà accarezzare, con le sue mani tremolanti, ancora per molto. Certi giorni, si può bene immaginare, si sarà sentito abbandonato dal coraggio, dalla speranza e dalla fede: giorni così colmi di disperazione che solo l’intervento del buon Dio non permette di darci un taglio netto. E giorni tristi devono essere stati anche quelli in cui Giuseppe riceve la visita dei Reali Carabinieri della Stazione CC di Lugagnano. Sono molto gentili e si scusano per le loro “visite”, ma il nonno percepisce che sono venuti in servizio e non per amicizia. La Patria, dopo avergli chiesto la vita, ora lo teneva controllato con ispezioni, forse che non si fidava di lui? Pensava che fingesse di stare male per non ritornare in trincea? Gli ultimi mesi non vogliono passare, sembrano infiniti, i dolori aumentano e la capacità di autonomia personale, anche per le piccole incombenze praticamente non esiste più. Poi arriva il giorno che i dolori sono insopportabili: la pazienza, l’elevatissima capacità di sopportazione del tenace contadino abituato ad ogni genere di sacrifici non bastano più, nemmeno la preghiera, seppur sempre presente nel suo cuore, non può sedare il male. Non bastano più gli antidolorifici blandi, ci vorrebbe qualcosa di “pesante”, capace di tenere testa ai dolori della cancrena, tipo la morfina. Ma la famiglia, che fatica a mettere insieme i pasti non se la può permettere. Finalmente arriva il giorno della “liberazione” e il nonno, sabato 14 settembre 1918, lascia le sofferenze terrene. Nonna Anna presenta domanda per avere la pensione come vedova di guerra. Avrà ancora da tribolare per ottenere un assegno di sopravvivenza dalla Patria, che più che madre è stata matrigna. Dopo la morte del loro babbo, Luigi, Giuseppina e Francesco sono frastornati. Primina è troppo piccina... Le cose accadute sono più grandi di loro e non possono comprenderle appieno. Subiscono da innocenti questo grave malessere che morde l’anima e piangono; ma nel contempo percepiscono che la morte del loro papà ha portato via anche qualcosa di negativo: le urla di dolore del loro genitore, che sentivano a tutte le ore e che flagellava i loro cuori. “Quando andavo alle elementari i lamenti di mio padre mi accompagnavano fin quasi alla scuola, per ripresentarsi quando tornavo e si facevano più forti man mano che mi avvicinavo a casa ...”, così raccontava mamma Pina.
Ora che ha saldato il suo “debito” con la Patria, non gli resta che ritornare a casa sua per sopportare la malattia, che non sarà lunga, e poi morire. Certo, morire è la prospettiva obbligatoria di tutti i viventi, ma accettarla a 30 anni non era nei progetti di Giuseppe, che aveva messo su famiglia solo pochi anni prima. Quando Giuseppe ritorna a casa è irriconoscibile: era partito un bel giovane, felice di essere al mondo, forte di carattere, vigoroso nel fisico, tenace e capace nel lavoro dei campi. Dopo neanche un anno ritorna un uomo distrutto nel fisico e nell’anima. Giuseppe sta in piedi con fatica, ha tremori continui in tutto il corpo, la faccia deturpata da una escrescenza che gli copre l’occhio destro, riesce a vedere ancora qualcosa con quello sinistro. La bocca è una smorfia: è storta e cola saliva in continuazione. Ha anche problemi di respirazione e talvolta tosse violenta. Una situazione inumana e inaccettabile, non si vedono vie d’uscita: sarà un futuro di disperazione, si spera breve. Giuseppe, che rimarrà per tutto il tempo con la mente lucida, si berrà giorno dopo giorno il calice amaro che gli è toccato. Di sicuro avrà pensato tutti i minuti al futuro dei suoi quattro figli che non potrà accarezzare, con le sue mani tremolanti, ancora per molto. Certi giorni, si può bene immaginare, si sarà sentito abbandonato dal coraggio, dalla speranza e dalla fede: giorni così colmi di disperazione che solo l’intervento del buon Dio non permette di darci un taglio netto. E giorni tristi devono essere stati anche quelli in cui Giuseppe riceve la visita dei Reali Carabinieri della Stazione CC di Lugagnano. Sono molto gentili e si scusano per le loro “visite”, ma il nonno percepisce che sono venuti in servizio e non per amicizia. La Patria, dopo avergli chiesto la vita, ora lo teneva controllato con ispezioni, forse che non si fidava di lui? Pensava che fingesse di stare male per non ritornare in trincea? Gli ultimi mesi non vogliono passare, sembrano infiniti, i dolori aumentano e la capacità di autonomia personale, anche per le piccole incombenze praticamente non esiste più. Poi arriva il giorno che i dolori sono insopportabili: la pazienza, l’elevatissima capacità di sopportazione del tenace contadino abituato ad ogni genere di sacrifici non bastano più, nemmeno la preghiera, seppur sempre presente nel suo cuore, non può sedare il male. Non bastano più gli antidolorifici blandi, ci vorrebbe qualcosa di “pesante”, capace di tenere testa ai dolori della cancrena, tipo la morfina. Ma la famiglia, che fatica a mettere insieme i pasti non se la può permettere. Finalmente arriva il giorno della “liberazione” e il nonno, sabato 14 settembre 1918, lascia le sofferenze terrene. Nonna Anna presenta domanda per avere la pensione come vedova di guerra. Avrà ancora da tribolare per ottenere un assegno di sopravvivenza dalla Patria, che più che madre è stata matrigna. Dopo la morte del loro babbo, Luigi, Giuseppina e Francesco sono frastornati. Primina è troppo piccina... Le cose accadute sono più grandi di loro e non possono comprenderle appieno. Subiscono da innocenti questo grave malessere che morde l’anima e piangono; ma nel contempo percepiscono che la morte del loro papà ha portato via anche qualcosa di negativo: le urla di dolore del loro genitore, che sentivano a tutte le ore e che flagellava i loro cuori. “Quando andavo alle elementari i lamenti di mio padre mi accompagnavano fin quasi alla scuola, per ripresentarsi quando tornavo e si facevano più forti man mano che mi avvicinavo a casa ...”, così raccontava mamma Pina.
Vita in trincea: "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie"
Le trincee non erano altro che dei fossati, scavati a forza di braccia dai militari, e il loro scopo era di proteggere dai colpi diretti del nemico e dalle schegge di eventuali bombe che fossero scoppiate nelle vicinanze i soldati che qui dentro vivevano come talpe. Inoltre, in caso di attacco del nemico si poteva sparare su chi avanzava stando bene al riparo dai suoi colpi. Infatti il fossato era profondo un paio di metri e sufficientemente largo da permettere d’incrociarsi con gli altri occupanti, far passare un ferito su barella o portare un’arma pesante quale una mitraglia con treppiede. L’andamento delle trincee era rettilineo ma non continuo, per evitare che un colpo d’infilata di un cannone potesse uccidere molte persone, quindi era costruita un pò a zig e zag. Qui è là venivano ricavati spazi più aperti per permettere un’adunata di squadra, per adagiare feriti, per distribuire il cibo ecc. Erano ricavati anche spazi che fungevano da “bagni pubblici”, ma l’intimità era praticamente assente e anche i bisogni avvenivano un pò dove era comodo o necessario. La trincea di prima linea ne aveva altre dietro, più distanti dal nemico, dove sostavano altri soldati che costituivano la riserva. La seconda linea interveniva in caso fosse stata sfondata la prima. I fanti in seconda linea avevano anche il compito di ripristinare le perdite della prima linea in caso di necessità, cioè continuamente. Più indietro ancora cera una terza linea e così via. Le varie trincee erano collegate tra loro da camminamenti infossati dove passare in sicurezza. Il nemico faceva altrettanto sul fronte opposto. Le prime linee dei rispettivi eserciti a volte erano distanti anche soli 10/20 metri luna dall’altra, tanto che i “nemici” si parlavano e in alcune occasioni si scambiavano anche tabacco e cibo. Ma guai a farsi beccare da alcuni superiori perché si rischiava di grosso, finanche la vita. Il soldato M.E. della provincia di Arezzo, il 14 febbraio 1917 veniva condannato a un anno di reclusione militare perché la notte tra il 24 e il 25 dicembre 1916, mentre era in servizio di sentinella nella prima trincea prospiciente al nemico, ricambiava in lingua tedesca gli auguri di Natale che quelli della trincea opposta avevano inviato agli italiani. (1)
Dalle trincee di prima linea si partiva per attaccare il nemico e cercare di guadagnare le posizioni tenute da esso. Il nemico faceva esattamente il contrario. Poteva capitare che una trincea nel giro di qualche settimana passasse di mano svariate volte, il tutto a prezzo di centinaia, a volte migliaia, di vite ad ogni assalto. Per attuare queste tecniche di guerra si seguiva la libretta edita dal Comando del Corpo di Stato Maggiore dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”, emanata nel febbraio 1915 a firma del Generalissimo. Cadorna si dice che fosse un cattolico praticante, ma leggendo quanto sta scritto in questo manuale di guerra si direbbe che abbia preso ispirazione dagli Inferi piuttosto che dal Cielo, come sarebbe convenuto a un cristiano. Tanto più che sull’argomento delle gravissime responsabilità nel comando di uomini, un grande maestro cristiano (lui sì), Sant’Agostino, aveva detto tutto e in modo inequivocabile: “Nella casa del giusto anche coloro che esercitano un comando non fanno in realtà altro che prestare servizio a coloro cui sembrano comandare; essi difatti non comandano per cupidigia di dominio, ma per dovere di fare del bene agli uomini, non per orgoglio di primeggiare, ma per amore di provvedere .”
Ma i santi si venerano pubblicamente, nel privato non si prendono sul serio, né tanto meno si imitano: è scomodo e quasi sempre molto pericoloso.
Ogni attacco che veniva ordinato era un bagno di sangue. Incuranti dei morti i comandanti incitavano all’assalto e all’immancabile vittoria. Un giorno, durante uno di questi suicidi di massa, programmati a tavolino dai generali per compiacere il Principe di questo mondo, magistralmente raccontati dal capitano Lussu, successe che: “D’un tratto, gli austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano: - Basta! Basta! - Basta! - ripeterono gli altri, dai parapetti. Quegli che era senz’armi mi parve un cappellano. - Basta! bravi soldati. Non fatevi ammazzare così .” (2)
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, con questa brevissima poesia, dal titolo “Soldati”, il caporale Giuseppe Ungaretti, interventista e volontario, sintetizza la vita del soldato al fronte come più chiaro non si potrebbe. C’è una cosa più incerta di una foglia appesa al ramo nella stagione autunnale? E proprio come le foglie d’autunno erano i nostri nonni che si trovavano al fronte: di sera non sapevano se avrebbero rivisto il sole del giorno dopo e al mattino se avessero ancora potuto mirare le stelle della notte a venire. Erano sospesi in attesa di notizie nuove, che sempre arrivavano ma nessuna era migliore della precedente. Erano come in una trappola dalla quale l’unica via d’uscita era ammazzare per non farsi ammazzare. Sì, perché quando ordinavano l’assalto era una scommessa, dove la possibilità di “vincere” (rimanere vivi) era una su dieci. Pensare di non “scommettere”, di tirarsi indietro, significava rinunciare anche a quel 10 per cento. I carabinieri che sempre erano alle spalle aprivano il fuoco su coloro che non facevano il “proprio dovere”. L’unica possibilità per salvarsi quindi, era di correre verso le linee nemiche e uccidere dei disgraziati come te che non avevi mai visto né conosciuto. La Circolare emanata da Cadorna il 28 settembre 1915, non lasciava dubbi, e neanche scampo: “Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto, prima che s’infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato da quello dell’ufficiale .” (3)
Nel caso non si possa identificare il colpevole o colpevoli di qualche malefatta, nessun problema, il Generalissimo interviene con la soluzione, tramite la Circolare del 1° novembre 1916: “... non vi è altro mezzo idoneo per reprimere i reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli, e allorché l’accertamento d’identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte .” (3)
Questa precisazione invece se a decidere di non combattere fosse stato un intero reparto: “…a tergo dei combattenti si usi massimo rigore contro eventuali fuggiaschi e che i combattenti sappiano che se ripiegheranno da linee di difesa senza ordine dei loro capi saranno senza pietà presi sotto il fuoco di fucileria, mitragliatrici e artiglieria di reparti appositamente incaricati”. (3)
“In nessun altro Paese occidentale la giustizia militare ha raggiunto un così alto livello di repressione .” (4)
Dalle trincee di prima linea si partiva per attaccare il nemico e cercare di guadagnare le posizioni tenute da esso. Il nemico faceva esattamente il contrario. Poteva capitare che una trincea nel giro di qualche settimana passasse di mano svariate volte, il tutto a prezzo di centinaia, a volte migliaia, di vite ad ogni assalto. Per attuare queste tecniche di guerra si seguiva la libretta edita dal Comando del Corpo di Stato Maggiore dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”, emanata nel febbraio 1915 a firma del Generalissimo. Cadorna si dice che fosse un cattolico praticante, ma leggendo quanto sta scritto in questo manuale di guerra si direbbe che abbia preso ispirazione dagli Inferi piuttosto che dal Cielo, come sarebbe convenuto a un cristiano. Tanto più che sull’argomento delle gravissime responsabilità nel comando di uomini, un grande maestro cristiano (lui sì), Sant’Agostino, aveva detto tutto e in modo inequivocabile: “Nella casa del giusto anche coloro che esercitano un comando non fanno in realtà altro che prestare servizio a coloro cui sembrano comandare; essi difatti non comandano per cupidigia di dominio, ma per dovere di fare del bene agli uomini, non per orgoglio di primeggiare, ma per amore di provvedere .”
Ma i santi si venerano pubblicamente, nel privato non si prendono sul serio, né tanto meno si imitano: è scomodo e quasi sempre molto pericoloso.
Ogni attacco che veniva ordinato era un bagno di sangue. Incuranti dei morti i comandanti incitavano all’assalto e all’immancabile vittoria. Un giorno, durante uno di questi suicidi di massa, programmati a tavolino dai generali per compiacere il Principe di questo mondo, magistralmente raccontati dal capitano Lussu, successe che: “D’un tratto, gli austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano: - Basta! Basta! - Basta! - ripeterono gli altri, dai parapetti. Quegli che era senz’armi mi parve un cappellano. - Basta! bravi soldati. Non fatevi ammazzare così .” (2)
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, con questa brevissima poesia, dal titolo “Soldati”, il caporale Giuseppe Ungaretti, interventista e volontario, sintetizza la vita del soldato al fronte come più chiaro non si potrebbe. C’è una cosa più incerta di una foglia appesa al ramo nella stagione autunnale? E proprio come le foglie d’autunno erano i nostri nonni che si trovavano al fronte: di sera non sapevano se avrebbero rivisto il sole del giorno dopo e al mattino se avessero ancora potuto mirare le stelle della notte a venire. Erano sospesi in attesa di notizie nuove, che sempre arrivavano ma nessuna era migliore della precedente. Erano come in una trappola dalla quale l’unica via d’uscita era ammazzare per non farsi ammazzare. Sì, perché quando ordinavano l’assalto era una scommessa, dove la possibilità di “vincere” (rimanere vivi) era una su dieci. Pensare di non “scommettere”, di tirarsi indietro, significava rinunciare anche a quel 10 per cento. I carabinieri che sempre erano alle spalle aprivano il fuoco su coloro che non facevano il “proprio dovere”. L’unica possibilità per salvarsi quindi, era di correre verso le linee nemiche e uccidere dei disgraziati come te che non avevi mai visto né conosciuto. La Circolare emanata da Cadorna il 28 settembre 1915, non lasciava dubbi, e neanche scampo: “Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto, prima che s’infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato da quello dell’ufficiale .” (3)
Nel caso non si possa identificare il colpevole o colpevoli di qualche malefatta, nessun problema, il Generalissimo interviene con la soluzione, tramite la Circolare del 1° novembre 1916: “... non vi è altro mezzo idoneo per reprimere i reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli, e allorché l’accertamento d’identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte .” (3)
Questa precisazione invece se a decidere di non combattere fosse stato un intero reparto: “…a tergo dei combattenti si usi massimo rigore contro eventuali fuggiaschi e che i combattenti sappiano che se ripiegheranno da linee di difesa senza ordine dei loro capi saranno senza pietà presi sotto il fuoco di fucileria, mitragliatrici e artiglieria di reparti appositamente incaricati”. (3)
“In nessun altro Paese occidentale la giustizia militare ha raggiunto un così alto livello di repressione .” (4)
Foto sopra da sinistra a destra: accampamento estivo in prossimità delle trincee arretrate; tagliola per uomini, veniva occultata sotto uno strato di terriccio, o neve d'inverno, e scattava quando un malcapitato ci metteva sopra un piede (era così potente da spezzare le ossa); celebrazione della Santa Messa in quota; un portaferiti ha recuperato un soldato e prestato il primo soccorso: la cartolina, con il timbro "Verificato per censura", che Pietro scrisse al padre Antonio a Piacenza.
Fin qui le punizioni “legali”, che già da sole facevano rabbrividire. Ma, evidentemente, alcuni comandanti non le ritenevano ancora sufficienti per farsi obbedire dai loro uomini, e allora si inventarono punizioni aggiuntive da infliggere ai propri sottoposti nel caso non si fossero comportati con disciplina. E quanto un soldato fosse indisciplinato e “meritevole” di essere punito era una decisione insindacabile del proprio ufficiale in comando. Accadeva quindi che, quando deciso dal superiore in grado, il soldato “indisciplinato” veniva legato ad un palo davanti agli altri commilitoni e frustato a sangue. Ma cera anche di peggio: il disgraziato che avesse commesso “indisciplina grave” poteva essere legato ai reticolati nella terra di nessuno, alla mercé dei cecchini nemici che decidevano se sparare o avere pietà di lui. E intuitivo immaginare l’epilogo di quest’ultima “punizione”.
“Tutt’altro che infrequente era l’uso di legare i rei ai paletti dei reticolati nella terra di nessuno, in attesa che i tiratori austriaci li colpissero .” (5)
Naturalmente gli altri soldati dovevano stare a vedere le “salutari lezioni di vita” in religioso silenzio e imparare. Ma soprattutto non dovevano neanche pensare di rendere noti questi “mezzi correttivi” a parenti o amici. Un soldato fu condannato a sei mesi di reclusione per lettera denigratoria perché aveva scritto a un amico e raccontato di questa punizione barbara: essere legati ai reticolati sotto il tiro diretto dei fucili nemici. (6)
Era questa la sconfortante situazione psicologica che avvolgeva il combattente che si trovava a vivere e soffrire, ma soprattutto a morire in trincea. E si doveva stare attenti anche ai momenti di sconforto: scegliere la spalla giusta sulla quale piangere per sfogarsi e trovare un poco di conforto per tirare avanti in questo inferno. Uno degli “sfoghi” con il maggior ritorno di aiuto, senz’altro il più forte, era la lettera che si inviava a casa e la risposta che si attendeva.
Nonno Giuseppe, ad esempio, conservava nel portafogli una ciocca di capelli della sua piccola Primina, ultima nata, inviategli dalla nonna Netta. Chissà quante volte avrà guardato e accarezzato quei capelli della sua piccina e trovato la forza di andare avanti.
Ma anche nelle lettere ai famigliari bisognava essere molto cauti, la censura lavorava senza sosta ed era un ufficio efficientissimo. Scrivendo quindi delle brutture della vita in trincea alla mamma o a un amico era una scelta piena di pericoli…
Il soldato B.L. della provincia di Como viene condannato a dieci mesi di reclusione e lire 100 di multa per aver scritto ai parenti dal fronte, “... insomma vi dico che sono abbastanza stanco di questa guerra ... se vi fosse stata della gente che ragionava questa guerra non vi sarebbe stata ... speriamo che finisca presto questo inutile macello”. Il soldato C.C. del 126° Fanteria, la sera del 12 aprile 1916 gridava, insieme ad altri commilitoni, sulla pubblica piazza di Orzano, “Abbasso la guerra”. Il tribunale lo condannò a dieci anni di carcere. (7)
Poi cera la vita “ordinaria” nella trincea, che si svolgeva spesso di notte perché nelle ore di luce, con i cecchini nemici che non sbagliavano un colpo, era troppo rischioso muoversi. Di notte quindi cera un via e vai di gente: si scavava per realizzare nuove trincee o per allargare le esistenti, si riceveva la posta, si consumava il pasto ecc.
Dalla trincea di prima linea si aveva la vista sulla terra di nessuno, dove si poteva mirare un panorama di morti. In questo spazio, sempre sotto mira dei tiratori scelti da ambo i lati, spesso giacevano le salme di precedenti scontri, che non venivano seppellite per non incrementarne il numero durante l’operazione di recupero. Una visione da inferno, per ricordare ai militari il loro futuro prossimo. Destate i corpi in putrefazione emanavano odori insopportabili, d’inverno si coprivano di neve o, peggio, rimanevano congelati nella smorfia dell’agonia; non si sentiva puzza ma a guardarli arrivava una ventata di gelo dentro l’anima. Il cibo arrivava, quando arrivava, dalle cucine lontane, e di commestibile aveva solo la definizione. Si dormiva in piedi o seduti, sempre vestiti in compagnia di insetti vari, i pidocchi erano la comunità più numerosa: li avevano tutti. Il fango era un elemento onnipresente, quando non era causato dalla pioggia o dalla neve, era tenuto vivo da urina, vomito, escrementi che, specie nell’imminenza di un attacco, erano funzioni corporali fuori controllo. Un altro elemento costitutivo delle tane dei combattenti erano i topi, di ogni dimensione, anche grossi come i gatti. Nelle trincee la puzza era sempre presente e nauseabonda, specie nei mesi caldi; in inverno, se si era in quota, la situazione migliorava in quanto si ghiacciava tutto subito. Ma col freddo cerano altri problemi: “Il freddo era calato su truppe che non avevano nemmeno le mantelline per ripararsene. Al posto degli indumenti, il Comando aveva mandato ai soldati una serie di consigli: allentare le fasce per favorire la circolazione del sangue nelle gambe, spalmarsi i piedi di sego per prevenire il congelamento ecc.” (8)
Un giorno, racconta Lussu nel libro citato, arrivarono in trincea dei magnifici scarponi nuovi di fabbrica, i soldati, lo si può immaginare, saranno stati entusiasti, finalmente i piedi rimarranno all’asciutto e bei caldi. Sulla suola cera scritto “W l’Italia”. Dopo averli indossati per 24 ore nel fango però, gli scarponi “W l’Italia” si auto-demolivano: avevano le suole di cartone pressato.
Probabilmente vincerebbe la scommessa chi sostenesse che quelle suole di cartone furono pagate come fossero di buon cuoio. Ed è altrettanto probabile che la vincerebbe anche chi scommettesse che sia il fornitore sia la commissione acquirente non ebbero a patire guai per quella truffa ai danni della Patria e dei combattenti. Avrebbe perso invece, e anche molto, il militare che avesse voluto rendere pubblico il fatto delle scarpe “W l’Italia”, oppure qualsiasi situazione negativa riscontrata al fronte.
Il caporale V. P. della provincia di Bergamo lotto giugno 1918 è stato condannato dal Tribunale Militare di Guerra a sei anni di reclusione militare e 200 lire di multa per disfattismo. Una sera, mentre era in licenza nel suo paese, cantava a squarciagola la canzone: “Il generale Cadorna faceva il carrettiere e per asinello aveva Vittorio Emanuele, ecc. Dagli ufficiali siamo maltrattati e dal governo mal nutriti, ecc...” (9)
Non era ancora tutto: cerano anche le malattie: “La promiscuità della trincea aveva provocato un’epidemia di tifo e di colera che aveva già mietuto 5000 vittime .” (10)
Furono 186.000 i morti di malattie lungo tutto il conflitto, dei quali circa 80 mila in prigionia. (11)
La logistica non era il lato più efficiente del Regio Esercito. Ma, nonostante la branca fosse di debole costituzione, ha sempre fornito in abbondanza ai combattenti, oltre che pidocchi, ratti, pallottole per nemici e amici, anche cognac e vino. I soldati erano oramai tanto esperti da poter pronosticare l’arrivo dell’ordine di uscire dai rifugi per andare all’assalto senza sbagliare di un minuto sui tempi. Bastava osservare quando gli addetti passavano e distribuivano notevoli quantità di “carburante”. I comandanti, da persone intelligenti e scaltre, erano ben consapevoli che i loro soldati non avrebbero potuto eseguire certi ordini da sobri...
Sul fronte nemico non funzionava affatto diversamente: stesso disprezzo per la vita dei soldati, i quali venivano mandati al massacro proprio come facevano dalla parte italiana. Ecco una testimonianza di un combattente italiano tratta dal libro di Antonio Gibelli:
“Ore sette e un quarto ecco che gli vediamo venire su come le pecore ubriachi e gridando Urrà Urrà. Ma le nostre mitragliatrici fanno delle strage come le nostre bombe e i nostri fucili come i nostri cannoni, ma non arrivano a metà trincea che sono tutti a terra. Si alza l’altra linea e vengono come le mosche e noi fuoco accelerato che arrivarono sino ai nostri reticolati e gli saltammo fuori e gli prendiamo tutti prigionieri senza i morti e i feriti dietro. Prendemmo 1080 prigionieri in un colpo. La nostra artiglieria è implacabile e fortissima che non possono venire per nessuna ragione. Le nostre mitragliatrici è un fuoco immaginabile e si cambiano perché l’acqua bolle e sono rosse (incandescenti) dal fuoco che fanno… Sono le otto e mezza ecco che vediamo nuovamente uscire da destra e da sinistra gridando sempre come belve. E noi fuoco con bombe a mano e fucile…” (12)
“Tutt’altro che infrequente era l’uso di legare i rei ai paletti dei reticolati nella terra di nessuno, in attesa che i tiratori austriaci li colpissero .” (5)
Naturalmente gli altri soldati dovevano stare a vedere le “salutari lezioni di vita” in religioso silenzio e imparare. Ma soprattutto non dovevano neanche pensare di rendere noti questi “mezzi correttivi” a parenti o amici. Un soldato fu condannato a sei mesi di reclusione per lettera denigratoria perché aveva scritto a un amico e raccontato di questa punizione barbara: essere legati ai reticolati sotto il tiro diretto dei fucili nemici. (6)
Era questa la sconfortante situazione psicologica che avvolgeva il combattente che si trovava a vivere e soffrire, ma soprattutto a morire in trincea. E si doveva stare attenti anche ai momenti di sconforto: scegliere la spalla giusta sulla quale piangere per sfogarsi e trovare un poco di conforto per tirare avanti in questo inferno. Uno degli “sfoghi” con il maggior ritorno di aiuto, senz’altro il più forte, era la lettera che si inviava a casa e la risposta che si attendeva.
Nonno Giuseppe, ad esempio, conservava nel portafogli una ciocca di capelli della sua piccola Primina, ultima nata, inviategli dalla nonna Netta. Chissà quante volte avrà guardato e accarezzato quei capelli della sua piccina e trovato la forza di andare avanti.
Ma anche nelle lettere ai famigliari bisognava essere molto cauti, la censura lavorava senza sosta ed era un ufficio efficientissimo. Scrivendo quindi delle brutture della vita in trincea alla mamma o a un amico era una scelta piena di pericoli…
Il soldato B.L. della provincia di Como viene condannato a dieci mesi di reclusione e lire 100 di multa per aver scritto ai parenti dal fronte, “... insomma vi dico che sono abbastanza stanco di questa guerra ... se vi fosse stata della gente che ragionava questa guerra non vi sarebbe stata ... speriamo che finisca presto questo inutile macello”. Il soldato C.C. del 126° Fanteria, la sera del 12 aprile 1916 gridava, insieme ad altri commilitoni, sulla pubblica piazza di Orzano, “Abbasso la guerra”. Il tribunale lo condannò a dieci anni di carcere. (7)
Poi cera la vita “ordinaria” nella trincea, che si svolgeva spesso di notte perché nelle ore di luce, con i cecchini nemici che non sbagliavano un colpo, era troppo rischioso muoversi. Di notte quindi cera un via e vai di gente: si scavava per realizzare nuove trincee o per allargare le esistenti, si riceveva la posta, si consumava il pasto ecc.
Dalla trincea di prima linea si aveva la vista sulla terra di nessuno, dove si poteva mirare un panorama di morti. In questo spazio, sempre sotto mira dei tiratori scelti da ambo i lati, spesso giacevano le salme di precedenti scontri, che non venivano seppellite per non incrementarne il numero durante l’operazione di recupero. Una visione da inferno, per ricordare ai militari il loro futuro prossimo. Destate i corpi in putrefazione emanavano odori insopportabili, d’inverno si coprivano di neve o, peggio, rimanevano congelati nella smorfia dell’agonia; non si sentiva puzza ma a guardarli arrivava una ventata di gelo dentro l’anima. Il cibo arrivava, quando arrivava, dalle cucine lontane, e di commestibile aveva solo la definizione. Si dormiva in piedi o seduti, sempre vestiti in compagnia di insetti vari, i pidocchi erano la comunità più numerosa: li avevano tutti. Il fango era un elemento onnipresente, quando non era causato dalla pioggia o dalla neve, era tenuto vivo da urina, vomito, escrementi che, specie nell’imminenza di un attacco, erano funzioni corporali fuori controllo. Un altro elemento costitutivo delle tane dei combattenti erano i topi, di ogni dimensione, anche grossi come i gatti. Nelle trincee la puzza era sempre presente e nauseabonda, specie nei mesi caldi; in inverno, se si era in quota, la situazione migliorava in quanto si ghiacciava tutto subito. Ma col freddo cerano altri problemi: “Il freddo era calato su truppe che non avevano nemmeno le mantelline per ripararsene. Al posto degli indumenti, il Comando aveva mandato ai soldati una serie di consigli: allentare le fasce per favorire la circolazione del sangue nelle gambe, spalmarsi i piedi di sego per prevenire il congelamento ecc.” (8)
Un giorno, racconta Lussu nel libro citato, arrivarono in trincea dei magnifici scarponi nuovi di fabbrica, i soldati, lo si può immaginare, saranno stati entusiasti, finalmente i piedi rimarranno all’asciutto e bei caldi. Sulla suola cera scritto “W l’Italia”. Dopo averli indossati per 24 ore nel fango però, gli scarponi “W l’Italia” si auto-demolivano: avevano le suole di cartone pressato.
Probabilmente vincerebbe la scommessa chi sostenesse che quelle suole di cartone furono pagate come fossero di buon cuoio. Ed è altrettanto probabile che la vincerebbe anche chi scommettesse che sia il fornitore sia la commissione acquirente non ebbero a patire guai per quella truffa ai danni della Patria e dei combattenti. Avrebbe perso invece, e anche molto, il militare che avesse voluto rendere pubblico il fatto delle scarpe “W l’Italia”, oppure qualsiasi situazione negativa riscontrata al fronte.
Il caporale V. P. della provincia di Bergamo lotto giugno 1918 è stato condannato dal Tribunale Militare di Guerra a sei anni di reclusione militare e 200 lire di multa per disfattismo. Una sera, mentre era in licenza nel suo paese, cantava a squarciagola la canzone: “Il generale Cadorna faceva il carrettiere e per asinello aveva Vittorio Emanuele, ecc. Dagli ufficiali siamo maltrattati e dal governo mal nutriti, ecc...” (9)
Non era ancora tutto: cerano anche le malattie: “La promiscuità della trincea aveva provocato un’epidemia di tifo e di colera che aveva già mietuto 5000 vittime .” (10)
Furono 186.000 i morti di malattie lungo tutto il conflitto, dei quali circa 80 mila in prigionia. (11)
La logistica non era il lato più efficiente del Regio Esercito. Ma, nonostante la branca fosse di debole costituzione, ha sempre fornito in abbondanza ai combattenti, oltre che pidocchi, ratti, pallottole per nemici e amici, anche cognac e vino. I soldati erano oramai tanto esperti da poter pronosticare l’arrivo dell’ordine di uscire dai rifugi per andare all’assalto senza sbagliare di un minuto sui tempi. Bastava osservare quando gli addetti passavano e distribuivano notevoli quantità di “carburante”. I comandanti, da persone intelligenti e scaltre, erano ben consapevoli che i loro soldati non avrebbero potuto eseguire certi ordini da sobri...
Sul fronte nemico non funzionava affatto diversamente: stesso disprezzo per la vita dei soldati, i quali venivano mandati al massacro proprio come facevano dalla parte italiana. Ecco una testimonianza di un combattente italiano tratta dal libro di Antonio Gibelli:
“Ore sette e un quarto ecco che gli vediamo venire su come le pecore ubriachi e gridando Urrà Urrà. Ma le nostre mitragliatrici fanno delle strage come le nostre bombe e i nostri fucili come i nostri cannoni, ma non arrivano a metà trincea che sono tutti a terra. Si alza l’altra linea e vengono come le mosche e noi fuoco accelerato che arrivarono sino ai nostri reticolati e gli saltammo fuori e gli prendiamo tutti prigionieri senza i morti e i feriti dietro. Prendemmo 1080 prigionieri in un colpo. La nostra artiglieria è implacabile e fortissima che non possono venire per nessuna ragione. Le nostre mitragliatrici è un fuoco immaginabile e si cambiano perché l’acqua bolle e sono rosse (incandescenti) dal fuoco che fanno… Sono le otto e mezza ecco che vediamo nuovamente uscire da destra e da sinistra gridando sempre come belve. E noi fuoco con bombe a mano e fucile…” (12)
(1) E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968 (pag. 102)
(2) Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, 28^ Edizione, Einaudi, 2020 (pag. 107)
(3) Filippo Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’Esercito Italiano, 1015-1917, su "museodellaguerra.it" il 10 marzo 2021
(4) Salvatore Pugliese, Morire per mano amica, in Patria Indipendente numero 89 anno VI
(5) Marco Scardigli, Viaggio nella terra dei morti, la vita dei soldati nelle trincee della Grande Guerra, De Agostini, 2014 (pag. 339)
(6) E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968 (pag. 5)
(7) E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968 (pp. 57, 52)
(8) Indro Montanelli, Storia d’Italia, volume 36, Rizzoli Editore, Milano, 1959 (pag. 119)
(9) E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968 (pag. 306)
(10) Indro Montanelli, Storia d’Italia, volume 36, Rizzoli Editore, Milano, 1959 (pag. 104)
(11) Rivista "Informazioni della Difesa", aprile 2018
(12) Antonio Gibelli, La Guerra Grande, Storie di gente comune, Editori Laterza, 2014 (pag. 98)
(2) Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, 28^ Edizione, Einaudi, 2020 (pag. 107)
(3) Filippo Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’Esercito Italiano, 1015-1917, su "museodellaguerra.it" il 10 marzo 2021
(4) Salvatore Pugliese, Morire per mano amica, in Patria Indipendente numero 89 anno VI
(5) Marco Scardigli, Viaggio nella terra dei morti, la vita dei soldati nelle trincee della Grande Guerra, De Agostini, 2014 (pag. 339)
(6) E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968 (pag. 5)
(7) E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968 (pp. 57, 52)
(8) Indro Montanelli, Storia d’Italia, volume 36, Rizzoli Editore, Milano, 1959 (pag. 119)
(9) E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968 (pag. 306)
(10) Indro Montanelli, Storia d’Italia, volume 36, Rizzoli Editore, Milano, 1959 (pag. 104)
(11) Rivista "Informazioni della Difesa", aprile 2018
(12) Antonio Gibelli, La Guerra Grande, Storie di gente comune, Editori Laterza, 2014 (pag. 98)
“…santo è l’odio per i barbari…”
Foto sopra a sinistra: elmetto e mazza ferrata in dotazione agli austro-ungarici. Foto sopra a destra: cartolina di propaganda italiana contro l’uso di questo strumento.
In una “Grande Guerra per la Civiltà”, ideata e condotta da onorati gentiluomini, come avrebbe potuto mancare un tocco di signorile raffinatezza come la mazza ferrata? L’uso era tanto elementare quanto diabolico: si impugnava con una sola mano e si lanciava con tutta forza sulla calotta cranica dell’avversario fino a sfondargliela: la morte era certa, anche se a volte non rapidissima. Si praticava questo “atto pietoso” su soldati già feriti o incapaci di reagire, in contrario ossequio alla parabola del Buon Samaritano, che veniva regolarmente elargita dai numerosi ufficiali cappellani presenti nei reparti di tutti i contendenti…
Il poveretto che, ferito e incapace di reagire, vedeva avvicinarsi un suo simile avrà sperato in un aiuto, poi quando l’uomo gli si inginocchiava accanto e gli toglieva l’elmetto avrà inviato al “soccorritore” un cenno di gratitudine. La Bestia però lo aveva liberato dalla protezione perché questa ostacolava il lavoro della mazza…
A usare per primi le mazze ferrate furono gli austro-ungarici, che le avevano in dotazione individuale. In seguito pare che anche gli italiani abbiano ricambiato la cortesia, “impiegandole” sulle teste dei nemici. In una circostanza dove vigeva di fatto l’Antico Testamento “occhio per occhio”, pensare che gli italiani non abbiano aperto i crani dei nemici feriti con colpi di mazze, non è credibile. E risulta ancor più difficile crederlo se si pensa che c’erano al comando ufficiali superiori come Mario Roatta, che qualche decennio più tardi, durante l’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia, “invitava” i suoi sottoposti, con la famosa “Circolare 3 C”, ad applicare con i nemici la regola: “Non dente per dente, ma bensì testa per dente.”
Va detto che l’Esercito Italiano non aveva, ufficialmente, in dotazione le mazze.
Il poveretto che, ferito e incapace di reagire, vedeva avvicinarsi un suo simile avrà sperato in un aiuto, poi quando l’uomo gli si inginocchiava accanto e gli toglieva l’elmetto avrà inviato al “soccorritore” un cenno di gratitudine. La Bestia però lo aveva liberato dalla protezione perché questa ostacolava il lavoro della mazza…
A usare per primi le mazze ferrate furono gli austro-ungarici, che le avevano in dotazione individuale. In seguito pare che anche gli italiani abbiano ricambiato la cortesia, “impiegandole” sulle teste dei nemici. In una circostanza dove vigeva di fatto l’Antico Testamento “occhio per occhio”, pensare che gli italiani non abbiano aperto i crani dei nemici feriti con colpi di mazze, non è credibile. E risulta ancor più difficile crederlo se si pensa che c’erano al comando ufficiali superiori come Mario Roatta, che qualche decennio più tardi, durante l’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia, “invitava” i suoi sottoposti, con la famosa “Circolare 3 C”, ad applicare con i nemici la regola: “Non dente per dente, ma bensì testa per dente.”
Va detto che l’Esercito Italiano non aveva, ufficialmente, in dotazione le mazze.
"Attenzione, gas in arrivo: mettete in bocca un pezzo di pane"
Foto sopra a sinistra: la "prima maschera" era costituita da un tozzo di pane inumidito da tenere in bocca che simulava il filtro e un fazzoletto da stendere sul viso. Foto sopra al centro: “Maschera monovalente Ciamician-Pesci conica” . Foto sopra a destra: "Maschera Italiana modello 1916".
Il nonno Giuseppe è stato ammazzato per metà dai suoi “nemici” e per l’altra metà dai suoi “amici”. Ma anziché ammazzato, che potrebbe essere un attimo, sarebbe più veritiero dire: “messo al palo della tortura” e qui lasciato per due lunghissimi anni, a morire un po’ tutti i giorni, fra atroci sofferenze. I “nemici” hanno commesso la carognata di gettargli addosso i gas, in barba a tutte le convenzioni internazionali che li vietavano; gli “amici” non gli hanno dato le protezioni adeguate, che pur esistevano e che se le avesse usate gli avrebbero risparmiato il supplizio; inoltre, gli “amici”, non hanno assistito il nonno quando era al “palo della tortura” per cercare di alleviargli i dolori che lo facevano urlare da quanto erano insopportabili.
Fino da quando è nato l’uomo, “i figli di questo mondo” hanno studiato nottetempo (e ancora lo fanno oggi) come avere il sopravvento sui loro simili. A loro interessa solo il fine, il mezzo non ha nessuna rilevanza e pertanto non viene considerato, per questo sono creduti più "scaltri" degli altri… In quel periodo gli sforzi degli scienziati di ogni nazione erano indirizzati allo studio di una miscela di cloro e fosforo per soffocare e cloro più zolfo per scorticare i tessuti. L'umanità non ha mai smesso di progredire, in tutti i campi: anche nella ferocia. Così si è arrivati al salto di "qualità guerriera": lanciare addosso al “nemico” prodotti chimici in forma gassosa che lo avrebbero bruciato vivo. Maneggiare questi gas era estremamente pericoloso perché una volta liberati nell'aria, poteva accadere che per un improvviso ed imprevisto cambio del vento, le nubi letali ritornassero al mittente. Quando gli austro-ungarici attaccarono San Martino del Carso e il San Michele con i gas, causa un repentino cambio della direzione del vento, la nube tossica emessa all'indirizzo degli italiani ritornò sulle loro truppe, causando l'intossicazione di oltre un migliaio di soldati. Se "tutto funzionava" invece i risultati erano garantiti, specie nei primi tempi quando gli stati maggiori non conoscevano ancora le miscele mortifere usate dagli avversari. I combattenti italiani inizialmente avevano in dotazione maschere non idonee, o addirittura ne erano sprovvisti; in questo caso, i comandanti raccomandavano ai loro militari di infilarsi un pezzo di pane bagnato in bocca a fare da “filtro” quando udivano l’allarme gas, e coprire poi il viso con un fazzoletto.
Fino da quando è nato l’uomo, “i figli di questo mondo” hanno studiato nottetempo (e ancora lo fanno oggi) come avere il sopravvento sui loro simili. A loro interessa solo il fine, il mezzo non ha nessuna rilevanza e pertanto non viene considerato, per questo sono creduti più "scaltri" degli altri… In quel periodo gli sforzi degli scienziati di ogni nazione erano indirizzati allo studio di una miscela di cloro e fosforo per soffocare e cloro più zolfo per scorticare i tessuti. L'umanità non ha mai smesso di progredire, in tutti i campi: anche nella ferocia. Così si è arrivati al salto di "qualità guerriera": lanciare addosso al “nemico” prodotti chimici in forma gassosa che lo avrebbero bruciato vivo. Maneggiare questi gas era estremamente pericoloso perché una volta liberati nell'aria, poteva accadere che per un improvviso ed imprevisto cambio del vento, le nubi letali ritornassero al mittente. Quando gli austro-ungarici attaccarono San Martino del Carso e il San Michele con i gas, causa un repentino cambio della direzione del vento, la nube tossica emessa all'indirizzo degli italiani ritornò sulle loro truppe, causando l'intossicazione di oltre un migliaio di soldati. Se "tutto funzionava" invece i risultati erano garantiti, specie nei primi tempi quando gli stati maggiori non conoscevano ancora le miscele mortifere usate dagli avversari. I combattenti italiani inizialmente avevano in dotazione maschere non idonee, o addirittura ne erano sprovvisti; in questo caso, i comandanti raccomandavano ai loro militari di infilarsi un pezzo di pane bagnato in bocca a fare da “filtro” quando udivano l’allarme gas, e coprire poi il viso con un fazzoletto.
Il 29 giugno 1916, gli italiani venivano sottoposti ad attacchi con i gas sul San Michele: una strage! Per difendersi dai gas i nostri avevano in dotazione la “Maschera monovalente Ciamician-Pesci conica” di fabbricazione italiana che si rivelò un fallimento totale. Al termine della battaglia si contarono 8000 gasati e di questi poveretti 5000 morirono subito in maniera atroce.
Immediatamente lo Stato Maggiore avviò uno studio per progettare un nuovo modello di maschera, capace di proteggere anche dal fosgene, gas usato dal nemico in questa occasione. A conclusione della febbrile ricerca i tecnici italiani elaborarono la nuova maschera: era simile alla M2 francese e venne chiamata “Maschera Italiana modello 1916”. Quando però, il 24 ottobre 1917, a Plezzo, gli austro-tedeschi bombardarono le nostre linee con proietti caricati a iprite e gas soffocanti le nuove maschere si dimostrarono del tutto inefficaci. Fu un altro colpo mortale al morale degli italiani e molto probabilmente anche una delle concause della rotta di Caporetto.
L’attacco con i gas al San Michele viene considerato il primo intervento con le armi chimiche sul fronte italiano, ma Cadorna aveva denunciato all’opinione pubblica mondiale che gli austriaci avevano bombardato le linee italiane e fatto uso di proietti contente gas già nel giugno 1915. Sempre nel 1915 i tedeschi impiegarono per la prima volta, sul fronte francese, anche il terribile gas vescicante: l’iprite. L’uso del gas sul territorio italiano durante la Grande Guerra è stato alquanto diffuso, sia come in termini di quantità sia per l’estensione delle aree del fronte. Il ricercatore Nevio Mantoan, esperto di armi della Prima Guerra Mondiale, scriveva nel 2004: “Bombole, bombarde, proiettili e bombe a mano caricati a gas vengono rinvenuti ancora oggi lungo la vecchia linea delle trincee italo - austriache dallo Stelvio al mare, testimoni muti e terribili di un dramma passato che sembra non aver fine .” (1)
Sempre Mantoan: “… gli italiani non furono provvisti fino all’estate 1916 di materiali per la guerra chimica… le prime norme per il caricamento proietti a gas risalgono al luglio 1916 e al dicembre dello stesso anno fu istituita la ‘Compagnia Speciale X’, incaricata del lancio dei gas .” (1)
Nell’estate del 1918, giusto qualche mese prima che finisse guerra, ai soldati del Regio Esercito finalmente vennero assegnate delle maschere idonee a difendere le loro vite. Si trattava delle maschere individuali S.B.R. (Small Box Respirator), di fabbricazione inglese, da molti considerata la miglior maschera di protezione fra tutte quelle usate nel primo conflitto mondiale. Al nonno, che era ormai giunto sulla sommità del Golgota, non serviva più; ma di sicuro l’arrivo della nuova maschera avrà salvato migliaia di altri “nonni”…
(1) Nevio Mantoan, La guerra dei gas, 1914 - 1918, Gaspari Editore, Udine, 2004 (pagine 20 e 32)
Immediatamente lo Stato Maggiore avviò uno studio per progettare un nuovo modello di maschera, capace di proteggere anche dal fosgene, gas usato dal nemico in questa occasione. A conclusione della febbrile ricerca i tecnici italiani elaborarono la nuova maschera: era simile alla M2 francese e venne chiamata “Maschera Italiana modello 1916”. Quando però, il 24 ottobre 1917, a Plezzo, gli austro-tedeschi bombardarono le nostre linee con proietti caricati a iprite e gas soffocanti le nuove maschere si dimostrarono del tutto inefficaci. Fu un altro colpo mortale al morale degli italiani e molto probabilmente anche una delle concause della rotta di Caporetto.
L’attacco con i gas al San Michele viene considerato il primo intervento con le armi chimiche sul fronte italiano, ma Cadorna aveva denunciato all’opinione pubblica mondiale che gli austriaci avevano bombardato le linee italiane e fatto uso di proietti contente gas già nel giugno 1915. Sempre nel 1915 i tedeschi impiegarono per la prima volta, sul fronte francese, anche il terribile gas vescicante: l’iprite. L’uso del gas sul territorio italiano durante la Grande Guerra è stato alquanto diffuso, sia come in termini di quantità sia per l’estensione delle aree del fronte. Il ricercatore Nevio Mantoan, esperto di armi della Prima Guerra Mondiale, scriveva nel 2004: “Bombole, bombarde, proiettili e bombe a mano caricati a gas vengono rinvenuti ancora oggi lungo la vecchia linea delle trincee italo - austriache dallo Stelvio al mare, testimoni muti e terribili di un dramma passato che sembra non aver fine .” (1)
Sempre Mantoan: “… gli italiani non furono provvisti fino all’estate 1916 di materiali per la guerra chimica… le prime norme per il caricamento proietti a gas risalgono al luglio 1916 e al dicembre dello stesso anno fu istituita la ‘Compagnia Speciale X’, incaricata del lancio dei gas .” (1)
Nell’estate del 1918, giusto qualche mese prima che finisse guerra, ai soldati del Regio Esercito finalmente vennero assegnate delle maschere idonee a difendere le loro vite. Si trattava delle maschere individuali S.B.R. (Small Box Respirator), di fabbricazione inglese, da molti considerata la miglior maschera di protezione fra tutte quelle usate nel primo conflitto mondiale. Al nonno, che era ormai giunto sulla sommità del Golgota, non serviva più; ma di sicuro l’arrivo della nuova maschera avrà salvato migliaia di altri “nonni”…
(1) Nevio Mantoan, La guerra dei gas, 1914 - 1918, Gaspari Editore, Udine, 2004 (pagine 20 e 32)
Profughi e stupri: risultati garantiti da ogni guerra
Gli argomenti di questo capitoletto sembrerebbero non avere nessun nesso con la tragica vicenda di nonno Giuseppe; non è così, essi hanno legami di sangue, in quanto figli gemelli della medesima degenerata madre: la guerra. E portano lo stesso nome: sofferenza!
Un altro “beneficio” delle guerre, di tutte le guerre, è l’emigrazione forzata dei civili: vecchi, donne, bambini. La fotografia qui sopra, purtroppo vera, evidenzia come sia sempre la povera gente a pagare il prezzo più alto: vinti e rassegnati caricano tutti i loro beni su un carro a trazione animale e lasciano la loro casa, la loro storia, diretti dove non lo sanno. Non sanno neanche se torneranno. E se mai dovessero tornare, difficilmente ritroverebbero ancora la loro casa intera, più facile che la rivedano ridotta ad un mucchio di sassi. Durante tutto il periodo del conflitto i profughi raggiungeranno la bella cifra di 850 mila. (1)
I primi a fuggire dalle zone a rischio furono, ovviamente, i notabili della società. Le informazioni di quello che sarebbe accaduto e dei rischi mortali che avrebbero dovuto affrontare se fossero rimasti era a loro ben chiaro. Informati per tempo hanno avuto modo di preparare il trasferimento con cura, procurarsi i mezzi necessari per spostarsi e studiare dove fosse meglio e più sicuro dirigersi. Non così per la povera gente che venne avvisata all’ultimo momento dalla autorità, le quali diedero loro solo qualche ora di tempo per preparare il “trasloco”. Nei primi tempi lo spostamento della popolazione civile era a carico dell’amministrazione pubblica, che fissava in un bagaglio del peso massimo di 50 chili per persona il materiale da portarsi appresso. Il motivo principale per evacuare l’area era salvaguardare la popolazione civile dall’arrivo di li a poco dell’apocalisse. Presto infatti la zona sarebbe diventata terreno di scontri armati tra eserciti belligeranti e quindi zona a rischio elevatissimo: poteva arrivare un colpo di cannone in cucina allora di pranzo, ad esempio. Non tutte le famiglie però lasciavano la loro terra, specie quelle che vivevano nelle campagne o case isolate sulle montagne. Per queste persone le sofferenze furono ancora più grandi. I soldati nemici quando occupavano i paesi italiani si impossessavano di tutti i beni che trovavano e se erano presenti le famiglie accadeva anche che la Bestia primordiale usasse violenza, specie sulle giovani donne, anche se solo bambine. Valeria Palumbo scrive sul Corriere il 24 ottobre 2017:
“Migliaia di donne violentate dai soldati nemici ma anche dagli italiani: il tema degli stupri nella Prima guerra mondiale è stato a lungo censurato. E quando non lo era, lo stigma colpiva le vittime. Al punto che in un Paese che riteneva l’aborto il peggiore dei crimini, si parlò non di diritto, ma di «dovere dell’aborto»: il problema non era far decidere le donne, ma salvaguardare «l’onore» dei mariti. Ne seguì il dramma dei «figli della guerra»...” (2)
I primi a fuggire dalle zone a rischio furono, ovviamente, i notabili della società. Le informazioni di quello che sarebbe accaduto e dei rischi mortali che avrebbero dovuto affrontare se fossero rimasti era a loro ben chiaro. Informati per tempo hanno avuto modo di preparare il trasferimento con cura, procurarsi i mezzi necessari per spostarsi e studiare dove fosse meglio e più sicuro dirigersi. Non così per la povera gente che venne avvisata all’ultimo momento dalla autorità, le quali diedero loro solo qualche ora di tempo per preparare il “trasloco”. Nei primi tempi lo spostamento della popolazione civile era a carico dell’amministrazione pubblica, che fissava in un bagaglio del peso massimo di 50 chili per persona il materiale da portarsi appresso. Il motivo principale per evacuare l’area era salvaguardare la popolazione civile dall’arrivo di li a poco dell’apocalisse. Presto infatti la zona sarebbe diventata terreno di scontri armati tra eserciti belligeranti e quindi zona a rischio elevatissimo: poteva arrivare un colpo di cannone in cucina allora di pranzo, ad esempio. Non tutte le famiglie però lasciavano la loro terra, specie quelle che vivevano nelle campagne o case isolate sulle montagne. Per queste persone le sofferenze furono ancora più grandi. I soldati nemici quando occupavano i paesi italiani si impossessavano di tutti i beni che trovavano e se erano presenti le famiglie accadeva anche che la Bestia primordiale usasse violenza, specie sulle giovani donne, anche se solo bambine. Valeria Palumbo scrive sul Corriere il 24 ottobre 2017:
“Migliaia di donne violentate dai soldati nemici ma anche dagli italiani: il tema degli stupri nella Prima guerra mondiale è stato a lungo censurato. E quando non lo era, lo stigma colpiva le vittime. Al punto che in un Paese che riteneva l’aborto il peggiore dei crimini, si parlò non di diritto, ma di «dovere dell’aborto»: il problema non era far decidere le donne, ma salvaguardare «l’onore» dei mariti. Ne seguì il dramma dei «figli della guerra»...” (2)
Foto sopra: Profughi. Tratte da: Bonaldo Stringher, Il Laboratorio di Storia... profughi nella Prima Guerra Mondiale, Fondazione Friuli
Le nefandezze peggiori furono compiute durante la rotta di Caporetto, ma gli episodi di violenza carnale nei confronti delle donne di ogni età avvenne un pò ovunque:
“Nel paese di Arta (Tolmezzo), la signora T.A., ventinovenne, racconta di uno stupro inflittole da parte di un soldato «nei primi giorni dell’invasione austriaca» e «alla presenza dei miei figlioli»; a Rubignacco, nei pressi di Cividale, B.M. «fu costretta a lasciarsi possedere in presenza dei 5 figli»; la notte del 4 novembre F.R. di Ronchis di Torreano viene abusata alla presenza delle sue due bambine, «costrette a tacere» – secondo la deposizione fatta dalla stessa – «con minacce e con battiture inferte loro col calcio del fucile»; a Udine P.M. viene violentata da quattro soldati austriaci davanti alla sua piccola di soli quattro anni; a Belluno, una donna rimasta vedova subisce uno stupro, anche lei alla presenza dei figli... Sulle più piccole, che arrivano fino all’età di sette anni, la Commissione scrive: «Molte di queste sventurate fanciulle, rilasciate con il corpo straziato e con la coscienza perduta, restarono contagiate da insanabili malattie, che dovranno trascinare per tutta la vita». Le affette ad esempio da sifilide ed altre malattie veneree contratte tramite stupro o «per “necessità” di guerra» sono ricordate come le «mutilate morali» .” (3)
“La rotta di Caporetto coinvolse complessivamente quasi mezzo milione di civili... La massa di profughi che giungeva terrorizzata all’interno del Paese, priva di ogni cosa, colse le autorità governative completamente impreparate; i profughi divennero un problema di rilevanza nazionale nonché un’inedita emergenza di carattere assistenziale. Alla fine di ottobre del 1917 la delicata situazione militare e la stanchezza che si registrava nel «fronte interno», alle prese con il razionamento, spinsero il governo a concentrare i profughi dapprima a Milano e a Bologna e da qui, a smistarli su tutto il territorio nazionale. Gran parte dei profughi fu smistata nelle regioni centro-settentrionali: Lombardia (98.997 profughi), Toscana (83.036), Emilia (78.417), Piemonte (62.869) e Liguria (34.175) sostennero il peso maggiore dell’accoglienza, mentre gruppi consistenti furono diretti verso le regioni centrali e meridionali; Milano e Firenze costituirono le due «capitali» dei profughi, accogliendo rispettivamente 47.614 e 39.741 persone. Edifici scolastici, monasteri, alberghi, colonie estive, caserme, ospizi, ville private, teatri, stabilimenti requisiti o affittati dal governo divennero alloggi collettivi per coloro che erano privi di mezzi, mentre chi poteva contare su relazioni personali o era economicamente autosufficiente ebbe modo di scegliere la propria sistemazione.” (4)
E ancora: “Stando alle testimonianze, in Italia gli stupri avvennero soprattutto ad opera di militari tedeschi ed ungheresi, seguiti da bosniaci e croati, responsabili anche di omicidi e torture. Michele Strazza, nel testo “Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali” e in suoi articoli successivi, ricorda casi terribili. “A Soffratta di Vazzola, in provincia di Treviso, due soldati ungheresi per violentare più tranquillamente una giovinetta, che vegliava il padre infermo a letto, uccisero con i calci dei fucili quest’ultimo. A Rasai, nel feltrino, un uomo venne legato da quattro soldati austro-ungarici ad un palo ed obbligato ad assistere in quella posizione allo stupro della moglie. Alla fine fu torturato ed ucciso. A Feltre (provincia di Belluno) una donna e la figlia di quattro anni vennero violentate ed assassinate da soldati austriaci nel loro negozio. In un paese vicino alcuni soldati, per violentare una madre, che stringeva al seno una bimba di 8 anni, le strapparono la bimba dalle braccia e gliela gettarono fuori della stanza, uccidendola…
Gli stupri di gruppo furono la maggioranza. Nella maggior parte dei casi si trattò di 3-6 militari ma ci furono violenze praticate anche da 10 soldati (a Udine, nell’ottobre 1917), o addirittura da 20 (Valdobbiadene, novembre 1917).” (5)
“Nel paese di Arta (Tolmezzo), la signora T.A., ventinovenne, racconta di uno stupro inflittole da parte di un soldato «nei primi giorni dell’invasione austriaca» e «alla presenza dei miei figlioli»; a Rubignacco, nei pressi di Cividale, B.M. «fu costretta a lasciarsi possedere in presenza dei 5 figli»; la notte del 4 novembre F.R. di Ronchis di Torreano viene abusata alla presenza delle sue due bambine, «costrette a tacere» – secondo la deposizione fatta dalla stessa – «con minacce e con battiture inferte loro col calcio del fucile»; a Udine P.M. viene violentata da quattro soldati austriaci davanti alla sua piccola di soli quattro anni; a Belluno, una donna rimasta vedova subisce uno stupro, anche lei alla presenza dei figli... Sulle più piccole, che arrivano fino all’età di sette anni, la Commissione scrive: «Molte di queste sventurate fanciulle, rilasciate con il corpo straziato e con la coscienza perduta, restarono contagiate da insanabili malattie, che dovranno trascinare per tutta la vita». Le affette ad esempio da sifilide ed altre malattie veneree contratte tramite stupro o «per “necessità” di guerra» sono ricordate come le «mutilate morali» .” (3)
“La rotta di Caporetto coinvolse complessivamente quasi mezzo milione di civili... La massa di profughi che giungeva terrorizzata all’interno del Paese, priva di ogni cosa, colse le autorità governative completamente impreparate; i profughi divennero un problema di rilevanza nazionale nonché un’inedita emergenza di carattere assistenziale. Alla fine di ottobre del 1917 la delicata situazione militare e la stanchezza che si registrava nel «fronte interno», alle prese con il razionamento, spinsero il governo a concentrare i profughi dapprima a Milano e a Bologna e da qui, a smistarli su tutto il territorio nazionale. Gran parte dei profughi fu smistata nelle regioni centro-settentrionali: Lombardia (98.997 profughi), Toscana (83.036), Emilia (78.417), Piemonte (62.869) e Liguria (34.175) sostennero il peso maggiore dell’accoglienza, mentre gruppi consistenti furono diretti verso le regioni centrali e meridionali; Milano e Firenze costituirono le due «capitali» dei profughi, accogliendo rispettivamente 47.614 e 39.741 persone. Edifici scolastici, monasteri, alberghi, colonie estive, caserme, ospizi, ville private, teatri, stabilimenti requisiti o affittati dal governo divennero alloggi collettivi per coloro che erano privi di mezzi, mentre chi poteva contare su relazioni personali o era economicamente autosufficiente ebbe modo di scegliere la propria sistemazione.” (4)
E ancora: “Stando alle testimonianze, in Italia gli stupri avvennero soprattutto ad opera di militari tedeschi ed ungheresi, seguiti da bosniaci e croati, responsabili anche di omicidi e torture. Michele Strazza, nel testo “Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali” e in suoi articoli successivi, ricorda casi terribili. “A Soffratta di Vazzola, in provincia di Treviso, due soldati ungheresi per violentare più tranquillamente una giovinetta, che vegliava il padre infermo a letto, uccisero con i calci dei fucili quest’ultimo. A Rasai, nel feltrino, un uomo venne legato da quattro soldati austro-ungarici ad un palo ed obbligato ad assistere in quella posizione allo stupro della moglie. Alla fine fu torturato ed ucciso. A Feltre (provincia di Belluno) una donna e la figlia di quattro anni vennero violentate ed assassinate da soldati austriaci nel loro negozio. In un paese vicino alcuni soldati, per violentare una madre, che stringeva al seno una bimba di 8 anni, le strapparono la bimba dalle braccia e gliela gettarono fuori della stanza, uccidendola…
Gli stupri di gruppo furono la maggioranza. Nella maggior parte dei casi si trattò di 3-6 militari ma ci furono violenze praticate anche da 10 soldati (a Udine, nell’ottobre 1917), o addirittura da 20 (Valdobbiadene, novembre 1917).” (5)
(1) Rivista "Informazioni della Difesa", aprile 2018
(2) Valeria Palumbo, La Caporetto delle donne: il dramma taciuto degli stupri e dei «figli della guerra», in www.corriere.it, marzo 2021
(3) Monica Biasiolo, Il corpo violato di Caporetto, Accademia University Press, 2018, su https://books.openedition.org/aaccademia, marzo 2021
(4) Matteo Ermacora, Dopo Caporetto. I profughi in Italia 1917-1918, Edizioni Unicopli, Milano 2017
(5) Elena Buccoliero, Stupri di guerra tra il Friuli e il Veneto, su “Azione nonviolenta”, anno 53, nr. 614, marzo-aprile 2016
(2) Valeria Palumbo, La Caporetto delle donne: il dramma taciuto degli stupri e dei «figli della guerra», in www.corriere.it, marzo 2021
(3) Monica Biasiolo, Il corpo violato di Caporetto, Accademia University Press, 2018, su https://books.openedition.org/aaccademia, marzo 2021
(4) Matteo Ermacora, Dopo Caporetto. I profughi in Italia 1917-1918, Edizioni Unicopli, Milano 2017
(5) Elena Buccoliero, Stupri di guerra tra il Friuli e il Veneto, su “Azione nonviolenta”, anno 53, nr. 614, marzo-aprile 2016
Medaglia “Grande Guerra per la Civiltà”
Foto sopra: la Medaglia Interalleata della Vittoria, fronte e retro. Regio Decreto del 16 dicembre 1920, n. 1918
Al nonno Giuseppe sono state assegnate, a fine guerra, due medaglie:
- Medaglia Commemorativa della Guerra 1915-1918;
- Medaglia Interalleata della Vittoria.
Sui documenti personali del nonno hanno scritto: “Autorizzato a fregiarsi delle Medaglie.”
L’iscrizione “Grande Guerra per la Civiltà”, impressa sulla parte frontale della Medaglia Interalleata della Vittoria, suona come un’offesa all’intelligenza umana, un disprezzo al buon senso. Con circa trentasette milioni di morti fu un’orrenda strage: niente civiltà, tutto orrore e barbarie!
Fuori luogo, in casa Segalini, anche la parola “Vittoria”: nella famiglia di nonno Giuseppe la guerra non ha portato la vittoria ma una disfatta senza eguali.
Le parole sono importanti, andrebbero usate con estrema attenzione e parsimonia, soppesate una per una con infinita cautela, soprattutto quelle destinate a durare nel tempo ed essere di formazione morale e culturale per una nazione intera: in esse sono contenuti i progetti futuri. Le parole non sono inerti, sono vive e operose: sono le avanguardie dei fatti che seguiranno.
Dopo vent’anni il mondo sarebbe ricaduto nel medesimo tranello e la “grande guerra per la civiltà” questa volta avrebbe raggiunto quota 70 milioni di morti.
- Medaglia Commemorativa della Guerra 1915-1918;
- Medaglia Interalleata della Vittoria.
Sui documenti personali del nonno hanno scritto: “Autorizzato a fregiarsi delle Medaglie.”
L’iscrizione “Grande Guerra per la Civiltà”, impressa sulla parte frontale della Medaglia Interalleata della Vittoria, suona come un’offesa all’intelligenza umana, un disprezzo al buon senso. Con circa trentasette milioni di morti fu un’orrenda strage: niente civiltà, tutto orrore e barbarie!
Fuori luogo, in casa Segalini, anche la parola “Vittoria”: nella famiglia di nonno Giuseppe la guerra non ha portato la vittoria ma una disfatta senza eguali.
Le parole sono importanti, andrebbero usate con estrema attenzione e parsimonia, soppesate una per una con infinita cautela, soprattutto quelle destinate a durare nel tempo ed essere di formazione morale e culturale per una nazione intera: in esse sono contenuti i progetti futuri. Le parole non sono inerti, sono vive e operose: sono le avanguardie dei fatti che seguiranno.
Dopo vent’anni il mondo sarebbe ricaduto nel medesimo tranello e la “grande guerra per la civiltà” questa volta avrebbe raggiunto quota 70 milioni di morti.
Foto sopra: Medaglia Commemorativa della Guerra 1915-1918.
Anche qui sarebbero da “rivedere” le iscrizioni, partiamo dalle parole sul davanti: “Guerra per l’Unità d’Italia”. Il sangue versato è stato in larghissima percentuale dei poveracci, che non volevano la guerra, né per loro né per gli altri. Dall’altra parte quelli che la guerra la dichiararono, ma mandarono a farla quelli che non la volevano. Questi “patrioti”, eccezioni a parte, non corsero in trincea a morire per la “loro” Patria, ma costrinsero a quella sorte i “fratelli minori” con i carabinieri fissi alle loro spalle, pronti a “correggerli” con le pallottole se non avessero combattuto il “nemico giusto”. Una gran bella famiglia unita, non c’è che dire. L’incisione sul retro non è da meno: “Coniata nel bronzo nemico”. Sai che soddisfazione per Anna, Luigi, Pina, Francesco, Primina e le altre donne e gli altri bambini che persero il loro sposo e il loro babbo. Sono parole infantili. Se poi si considera che le hanno scritte gli aggressori, assumano il sapore di un atto di “bullismo”, utile solo a generare nuovo odio. Le parole sono vive e… lavorano! Vista la scarsissima capacità che l’umanità ha di imparare dai propri errori, non è escluso che prossimamente si ripresenti la necessità di coniare nuove medaglie “nel bronzo nemico”... Nell’eventualità ci si augura che le “iscrizioni ad effetto”, da incidere sulle medesime, siano scelte da persone avvedute, da “professionisti di settore”, meglio ancora se con esperienza millenaria. Questi “esperti” hanno “motti” meno reboanti, ma di provata verità e portatori certi di buoni frutti. Un esempio di iscrizione mirata alla situazione potrebbe essere:
"Un eunuco che vuole deflorare una ragazza, così chi vuole rendere giustizia con la violenza!" (1)
(1) Siracide 20,4
Un grazie sentito a:
- nipoti e amici: Achille, Angelo, Anna, Enrico, Enzo, Gianna, Paola, Pino e Tina;
- don Germano Gregori, parroco di Rustigazzo-Vicanino;
- dott.ssa Anna Riva, Direttrice Archivio di Stato di Piacenza;
- dott.ssa Sara Fava , Archivio di Stato di Piacenza;
- Ippolito Negri, storico e Direttore della rivista culturale piacentina “L’Urtiga”;
- Arrigo Francani, collezionista e ricercatore;
- Cristiano Maggi, collezionista e ricercatore;
- dott.ssa Valentina Bergonzi, Science Communicator, Eurac Research, Bolzano.
Bibliografia
Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, Brigata Como - 23° e 24° Fanteria e Brigata Novara - 153° e 154° Fanteria, Ministero della guerra, Stato Maggiore Centrale, Ufficio Storico, Roma, Libreria dello Stato, 1924-1929
Emilio Lussu, Un anno sull'Altipiano, 28^ Edizione, Einaudi, 1936
Indro Montanelli, Storia d'Italia, volume 36, Rizzoli Editore, Milano, 1959
E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1968
Martin Gilbert, La Grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano, 2002
Nevio Mantoan, La guerra dei gas, 1914 - 1918, Gaspari Editore, Udine, 2004
Albino Visintin, Erica Cettul, Gorizia ed il fronte dell'Isonzo nella Grande Guerra, Stampa: Graphy snc - Mariano del Friuli (GO) - Nov.2014
Stefano Zanolin, La vita in trincea, su Gruppo Archeologico Polcenigo, Bollettino nr 11, gennaio 2014
Antonio Gibelli, La Guerra Grande, Storie di gente comune, Editori Laterza, 2014
Marco Scardigli, Viaggio nella terra dei morti, la vita dei soldati nelle trincee della Grande Guerra, De Agostini, 2014
Giovanni Comisso, 4 anni sull'Altipiano, Antologia sulla 1^ Guerra Mondiale, 2016
L'assalto al Cimone, Notiziario Ana sezione di Vicenza, nr 1 anno 2017
Carlo De Maria, L'Italia nella Grande Guerra, Isrec Forli-Cesena, Clionet, Associazione Storica, Roma 2017
Museo degli alpini di Conegliano, Caporetto dodicesima battaglia dell'Isonzo Cronaca della battaglia, GMV libri, Conegliano, 2017
In ricordo della Grande Guerra 1914-1918, I.T.TS. "E. DIVINI", Istituto Tecnico Tecnologico, San Severino Marche, 2017
Angelo Nataloni, La Battaglia di Caporetto e la testimonianza del Fante Luigi Melloni di Bologna, 2018
Simonetta De Fazi, L'officina della guerra, Dipartimento Studi e Ricerche Acli, 2018
Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, Brigata Como - 23° e 24° Fanteria e Brigata Novara - 153° e 154° Fanteria, Ministero della guerra, Stato Maggiore Centrale, Ufficio Storico, Roma, Libreria dello Stato, 1924-1929
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Museo degli alpini di Conegliano, Caporetto dodicesima battaglia dell'Isonzo Cronaca della battaglia, GMV libri, Conegliano, 2017
In ricordo della Grande Guerra 1914-1918, I.T.TS. "E. DIVINI", Istituto Tecnico Tecnologico, San Severino Marche, 2017
Angelo Nataloni, La Battaglia di Caporetto e la testimonianza del Fante Luigi Melloni di Bologna, 2018
Simonetta De Fazi, L'officina della guerra, Dipartimento Studi e Ricerche Acli, 2018
Sull'argomento della Grande Guerra si suggeriscono le seguenti pagine :
Romano Repetti, La Grande Guerra ad un secolo dal cruciale 1917. Un bilancio.
Ippolito Negri, Grande Guerra, dopo la ritirata di Caporetto. Disertori e fucilazioni nel piacentino.
Pierlino Bergonzi, Le pazzie della Grande Guerra.
Ippolito Negri, Grande Guerra, dopo la ritirata di Caporetto. Disertori e fucilazioni nel piacentino.
Pierlino Bergonzi, Le pazzie della Grande Guerra.
Nota: le immagini pubblicate su questa pagina, dove non diversamente specificato, appartengono agli archivi del Grac.
Pagina pubblicata il 23 marzo 2021